Eredità




Recensione di Laura Salvadori


Autore: Vigdis Hjorth

Traduzione: Margherita Podestà Heir

Editore: Fazi Editore

Genere: narrativa

Pagine: 374

Anno di pubblicazione: 2020

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Sinossi. Quattro fratelli. Due case a picco sul Mare del Nord. Un dramma familiare sepolto nel silenzio da decenni. Tutto comincia con un testamento. Al momento di spartire l’eredità fra i quattro figli, una coppia di anziani decide di lasciare le due case al mare alle due figlie minori, mentre Bård e Bergljot, il fratello e la sorella maggiori, vengono tagliati fuori. Se Bård vive questo gesto come un’ultima ingiustizia, Bergljot aveva già messo una croce sull’idea di una possibile eredità, avendo troncato i rapporti con la famiglia ventitré anni prima. Cosa spinge una donna a una scelta così crudele? Bård e Bergljot non hanno avuto la stessa infanzia delle loro sorelle. Bård e Bergljot condividono il più doloroso dei segreti. Il confronto attorno alla divisione dell’eredità sarà l’occasione per rompere il silenzio, per raccontare la storia che i familiari per anni hanno rifiutato di sentire. Per dividere con loro l’eredità – o il fardello – che hanno ricevuto dalla famiglia. Per dire l’indicibile. Premiato dai librai norvegesi come miglior libro dell’anno, in vetta alle classifiche di vendita per mesi, osannato dalla critica internazionale, Eredità è il romanzo con cui la norvegese Vigdis Hjorth ha raggiunto la fama mondiale. Lirica riflessione sul trauma e sulla memoria, è al tempo stesso il furioso racconto della lotta di una donna per la sopravvivenza.

Recensione

L’eredità è solo un pretesto. Il dissidio tra i fratelli è l’apoteosi del senso di colpa. I rapporti familiari sono preda del fascino maligno della manipolazione. L’infelicità ha sempre una causa ed è destinata a contaminare chiunque. In famiglia sopravvive chi sa scegliere cosa può permettersi di vedere. E cosa occultare. L’infelice è colui che scoperchia l’abisso. L’emarginato è chi deciderà di dargli voce.

A una prima lettura, può sembrare che questo acclamatissimo romanzo sia circoscritto alle antipatiche questione dei dissidi familiari, pressoché inevitabili quando si è in molti. Gelosie, legami distorti, avidità e tutti gli altri cattivi sentimenti a fare da corollario.

Nella realtà invece scopriamo, con un certo sollievo, che il romanzo ruota intorno alle implicazioni, talvolta diaboliche, delle dinamiche familiari, mai scontate, mai del tutto prevedibili.

Gli eventi passati, le riflessioni e le indagini su se stessa della protagonista, Bergljot, quella che ha tagliato i ponti con la famiglia ventitre anni or sono, danno l’incipit ad una serie di digressioni psicologiche che parlano del difficile rapporto tra genitori e figli, di sensi di colpa, di orgoglio, di gelosia, di estrema manipolazione, di ossessione e di eccessi, di confini invalicabili che vengono oltrepassati, di compassione e di morte.

Sarò sincera: la prima metà del romanzo è lenta. Lo è molto più del consentito, anche considerando che il romanzo è un nordico. La sensazione che ho ricavato è stata frustrazione, poiché Bergljot accenna di continuo a qualcosa che è accaduto ma che non si sa cosa sia stato, esattamente. Si intuisce, tuttavia, ed ecco che arriva la frustrazione,  derivante dal constatare che l’autrice evita, ogni qual volta capiti l’occasione propizia, di svelare, appalesare, rivelare ciò che probabilmente è ed è stato, ma non se ne è sicuri.

Uniche macchie di colore sono i racconti di Bergljot sulla sua vita passata, che si intuisce contaminata da una profonda inquietudine. Della sua vita presente, invece, si sa solamente che ventitre anni prima Bergljot ha tagliato fuori dalla sua vita la sua famiglia. Un evento che l’ha segnata, che l’ha indotta a trovare rifugio nella psicanalisi, alla ricerca delle radici del suo malessere e delle pulsioni che hanno governato i comportamenti dei suoi familiari, costantemente in bilico tra la disapprovazione, il timore e il senso di colpa.

Poi, di colpo, la rivelazione! E tutto cambia! Il ritmo narrativo, più incalzante e meno claustrofobico. Le parole utilizzate dall’autrice, più palesi, più calzanti. La narrazione stessa, un vortice di ricordi più o meno sfuocati, ma decisamente focalizzati a studiare i motivi dei comportamenti e delle scelte di ogni familiare.

Sono pronta a scommettere che chiunque, giunto a metà del romanzo con l’aria un po’ smarrita, riceverà un’iniezione di adrenalina e divorerà le pagine restanti fino alla fine, tanta sarà la curiosità accumulata e in cerca di un giusto sfogo.

L’autrice è maestra nel dare al lettore una lezione sulla genesi profonda di alcuni tipici comportamenti. Ogni ragionamento che uscirà dalla testa di Bergljot, ogni speculazione, ogni pensiero si rivelerà una stupefacente verità, da cui trarre un insegnamento.

Ed ecco che la genialità, la sensibilità, la conoscenza lucidissima dei processi psicologici, di cause e conseguenze, di scelte e di comportamenti, esce prepotentemente allo scoperto. Ogni meccanismo, ogni dinamica familiare sarò scandagliata dall’autrice; ogni decisione, ogni parola spesa, ogni gesto troverà una sua collocazione, attraverso un’analisi calzante e mirata.

E quando si arriva a parlare di infanzia violata, di abusi, di manipolazione, si rischia davvero di bruciarsi, tanto la questione scotta, tanto è difficile, complicata e complessa.  Ma anche inflazionata, spesso banalizzata, o riportata sulla carta senza convinzione, senza partecipazione, senza trasporto. E quel che è peggio, talvolta anche senza le necessarie competenze psicologiche.

Leggendo non si può fare a meno di sottolineare le innumerevoli frasi emblematiche che l’autrice fornisce alla protagonista. Alcune le ho trovate superlative, illuminanti. Non voglio citarne alcuna: ognuno di voi troverà le sue, quelle che più hanno fatto breccia nel suo intimo.

I complessi meccanismi di difesa dal dolore e dalla delusione, il groviglio di sentimenti che costituisce il nucleo del rapporto tra il padre e il figlio, la gelosia sessuale che origina anche dove non si direbbe mai, la compassione che inaspettatamente sostituisce l’ovvietà dell’odio e dell’avversità, la consapevolezza di essere preda di pulsione inaspettate e inadeguate, il passare dall’essere vittima a palesarsi carnefice, sono tutte facce della stessa medaglia, quella che comunemente chiamiamo famiglia e che a volte, che si voglia ammettere oppure no, è il coacervo di tutti i malesseri, di tutte le insicurezze, del dolore esistenziale e di quell’inquietudine che non ci abbandona mai.

Ma la famiglia, quella medaglia che tutti vogliamo o vorremmo appesa al collo, quella che meritiamo o quella che desideriamo nei nostri sogni più intimi, è davvero l’inevitabile destino che ci attira come sabbie mobili, subdole e letali. Potrai desiderare la solitudine ma non durerà mai a lungo, perché lunghe e forti sono le braccia che ti riportano nel suo seno.

La famiglia è una calamita che attira a sé, è il destino che ci tocca, è una colla che resiste a qualsiasi solvente. Parola di Vigdis Hjorth.

 

Vigdis Hjorth


Nata a Oslo nel 1959, è una delle scrittrici norvegesi più conosciute e stimate. Ha esordito nel 1983 con Pelle-Ragnar i den gule gården, grazie al quale il Ministero della Cultura norvegese le ha attribuito il premio per il miglior romanzo d’esordio. Ha pubblicato più di trenta libri, fra cui una ventina di romanzi, conquistando i premi letterari più svariati. Eredità, vincitore del Norwegian Booksellers’ Prize e del Norwegian Critics Prize for Literature – i due principali riconoscimenti norvegesi –, è il romanzo con cui ha ottenuto la fama internazionale, rientrando nella rosa dei finalisti del National Book Award for Translated Literature nel 2019.

 

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