Facciamo che ero morta




Recensione di Velia Speranza


Autore: Jen Beagin

Traduzione: Federica Aceto

Editore: Einaudi

Genere: Narrativa

Pagine: 224

Anno di pubblicazione: 2019

Sinossi. «Facciamo che ero morta», diceva Mona al padre, prima di buttarsi in piscina fingendo di annegare perché lui la salvasse. Ora che è cresciuta, Mona ancora attende di essere salvata. Ironica se non scorbutica, conduce un’esistenza solitaria lavorando come donna delle pulizie sui generis, fino al catastrofico incontro con l’ambiguo Mister Laido. È a causa sua se da un giorno all’altro molla le sue case patinate a Lowell, Massachusetts per trasferirsi in una bislacca comunità di nullafacenti e new ager a Taos, nell’assolato New Mexico. Ma, come ogni professionista del pulito sa bene, spazzare la polvere sotto il tappeto non vuol dire liberarsene: prima o poi lo sporco torna a fare capolino.

Recensione

Si sa, le case sono impregnate dei segreti di coloro che ci vivono. Indizi sullo stile di vita, sulle abitudini, sui problemi si trovano disseminati fra le stanze, come ninnoli in bella mostra, mentre i segreti e gli scheletri vengono seppelliti nel fondo dei cassetti, fra vestiti puliti e calze sporche.

Mona conosce alla perfezione il lato oscuro di tutti i suoi clienti. È una donna delle pulizie, scrupolosa quanto basta per non tralasciare nulla e ficcanaso abbastanza da non poter fare a meno di andare alla ricerca del torbido. E più scopre, più si fa idee strampalate e verosimili sulle loro esistenze, senza tentare di capire se possano essere esatte. Non le interessa veramente essere in contatto con loro, vuole solamente divertirsi fra le rovine delle vite altrui e guadagnare quel che le serve per stare al mondo.

La spasmodica necessità di conoscere l’altro è, però, il rovescio di un’oscura medaglia. Mona indaga su chi la circonda per evitare di pensare a se stessa, a tutti i problemi che ha dovuto affrontare in appena ventiquattro anni. La depressione, l’autolesionismo, le cure psichiatriche incombono su di lei e che non tiene affatto a risolvere: li lascia fluttuare sul presente, come se non fossero suoi, scacciandoli con pigri gesti quando diventano un pò troppo invadenti. È sola, senza genitori ( dispersi per l’America da anni), con una cugina che l’ha cresciuta ma che ora vola via, verso lidi lontani a cercar fortuna.

Tenuto conto di queste premesse, si comprende che Mona è semplicemente votata all’autodistruzione. Il gioco che da bambina faceva con il padre, quel fingersi morta in piscina per farsi salvare, si è sinistramente trasformato in uno stile di vita, basato sull’annullare se stessa, ridotta al rango di cadavere, per dar sfogo alle vite altui, esaltandole quanto basta per renderle speciali.

Arenata in un’esistenza priva di stimoli, senza obiettivi, senza futuro, Mona si lancia in una relazione tossica (letteralmente e metaforicamente) con Mister Laido, tossicodipendente recidivo con il doppio dei suoi anni. Una relazione improbabile quanto lo stesso Mister Laido, che sembra condividere con Mona la stessa miseria esistenziale. Quello fra i due è un rapporto alla pari: nessuno domina l’altro sul fondo del baratro in cui sono precipitati; entrambi sono incatenati ai dispiaceri dell’esistenza, nell’attesa di affondare.

In un quadro così apocalittico non c’è alcuno spazio per una speranza di resurrezione ed il lettore resta per tutto il romanzo in attesa di un cambiamento, un rivolgimento positivo da tanta desolazione. L’occasione si presenta ben prima di quanto si immagini, eppure, anche in quel caso non si riesce a vedere la luce in fondo al tunnel.

Nel corso del suo pellegrinaggio, Mona si scontra con personaggi eccentrici quanto e più di lei. Non solo Mister Laido (forse il più riuscito di tutti), ma anche i suoi vicini di casa e due dei suoi nuovi clienti, Henry e Betty. Anche loro, come Mona, nascondono segreti e misteri, ma a differenza della protagonista arrivano sempre a confessarsi. Raccontano una vita precedente per spiegare il presente, per dare un senso logico a quanto siano in quel momento. Si arriva a capirli, a perdonarli, ad accettarli per quello che sono, nonostante la protagonista cerchi di vedere sempre il peggio in loro, semplicemente perché è a questo che l’ha portata quasi ogni sua esperienza.

L’unica a rimanere imprescutabile è proprio Mona. Se del suo presente spoglio ed asettico sappiamo ogni cosa (perfino dettagli che sarebbe stato meglio omettere), il suo passato è pieno di luci ed ombre. Mona taglia via le parti che non vuole ricordare, ricostruendone altre, impersonando il narratore inaffidabile sul modello di Zeno Cosini. I traumi nascosti nella sua vita precedente possono così essere solo immaginati, percepiti, lasciando un senso di indefinito dopo l’ultima pagina.

La sensazione finale che persiste è che ci siano troppi spazi bianchi. L’autrice ha aperto continui spiragli, diramazioni che non è stata in grando di portare a termine. La stessa Mona risulta difficile da digerire, anche a causa di una ipercaratterizzazione che la rende troppo distante e surreale. Il grottesco che permea le atmosfere in alcuni punti diventa semplicemente orrido, rendendo la lettura difficile. Senz’altro delle imperfezioni che hanno rischiato di far scivolare il romanzo su una brutta china, ma perdonabili tenendo conto che “Facciamo che ero morta” è l’opera d’esordio di Jen Beagin, la quale dimostra di avere le carte in regola per diventare una buona rappresentante della futura narrativa americana. La Beagin, infatti, dirige lo sguardo sui disadattati di ogni classe sociale, mettendo in luce i lati meno discussi e più oscuri della società moderna. Anche i pregiudizi vengono fuori e Mona stessa ne è l’esempio, guardata con diffidenza solo perché dedita ad un lavoro che si confà alle donne ispaniche e non ad una giovane bianca americana.

Se Mona riesca a risalire dal baratro che si è costruito intorno, non è dato saperlo. Fino alla fine la speranza è bandita, né ci si può aspettare che da anni di depressione ci si riprenda tanto velocemente. Il finale è uno dei tanti spazi bianchi lasciati dall’autrice e l’unico di tutto il romanzo a poter essere perdonato.

Jen Beagin


Jen Beagin è nata in California. Laureata all’University of California, ha pubblicato le sue prime opere su diverse riviste letterarie, tra le quali “Electric Literature” e “Juked”. Nel 2017 ha pubblicato “Facciamo che ero morta”, suo romanzo di esordio, con cui ha vinto il Whiting Award per la narrativa.

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