Gli scali del Levante




Recensione di Francesca Mogavero


Autore: Amin Maalouf

Traduzione: Egi Volterrani

Editore: La nave di Teseo

Pagine: 222

Genere: Narrativa

Anno di pubblicazione: 2020

Sinossi. “Quell’epoca in cui uomini di tutte le origini vivevano gli uni accanto agli altri negli Scali del Levante, e mescolavano le loro lingue, è una reminiscenza remota? O è una prefigurazione dell’avvenire?”

Arrivato a Parigi per un incontro atteso da troppo tempo, il vecchio Ossyan guarda alla sua vita e, come in una moderna Mille e una notte, affida a un misterioso ascoltatore il racconto delle sue avventure. Cresciuto a Beirut, ultimo discendente di una nobile famiglia ottomana, viene educato in uno spirito liberale e insofferente verso i pregiudizi razziali. Ossyan si trasferisce per gli studi in Francia dove, durante la lotta eroica per liberare il paese dai nazisti, conosce Clara, un’ebrea di cui si innamora perdutamente. Insieme a lei decide di vivere la sua personale rivoluzione: lui, un musulmano, sposa una ragazza ebrea proprio quando il mondo intero sembra rassegnato a vedere la violenza dividere per sempre le due culture. I casi della vita e il corso della storia metteranno a dura prova la loro scelta: privati di un futuro insieme, delle gioie più semplici, cosa rimane loro? Un amore in sospeso, un amore quieto ma, forse, più potente della storia.

Recensione

Una trama semplice, lineare, quasi una fabula: da mercoledì a domenica, un uomo racconta a uno sconosciuto la storia della propria vita. Due piani paralleli: mentre la settimana procede e volge al temine, così va avanti questa autobiografia orale che cattura, dalla nascita agli studi, dalla Resistenza al conflitto arabo-israeliano.

Senza scarti, balzi in avanti, digressioni che fanno perdere il filo, ma il racconto ordinato di un prosatore consumato, di chi ha il fiore della parola sbocciato nel nome e tra le vene e i nervi, checché ne dica il narratore stesso – “Ossyan! Sì, Ossyan! ‘Rivolta’, ‘Ribellione’, ‘Disobbedienza’. Si è mai visto un padre chiamare il proprio figlio ‘Disobbedienza’? Quando ero in Francia lo pronunciavo molto in fretta. E i miei interlocutori, qualche volta, accennavano a un certo bardo scozzese”.

Ma siamo davvero sicuri che raccontare, e soprattutto raccontarsi, sia così facile, al di là del talento? Certo, il fatto che l’interlocutore sia una persona appena incontrata e che forse sparirà per sempre una volta portato a termine il suo compito di testimone, un ascoltatore che si limita ad accogliere con cura e attenzione, ma senza svelarsi a sua volta, elimina qualche ostacolo, accantona pudore e imbarazzo, rende inutili i convenevoli.

Aprirsi all’altro, però, è un atto non scontato e non privo di coraggio: se una foto, secondo alcune culture, può rubare l’anima, quali e quante conseguenze può avere consegnare un’esistenza intera all’orecchio (e ai taccuini) di un estraneo? Tutte e nessuna, per Ossyan non ha importanza: l’urgenza è quella di parlare, conservare. Per ingannare il tempo, per non impantanarsi nell’attesa, per recuperare, ancora una volta, lucidità, ma, soprattutto, per convincersi che quell’aspettare non è vano, ma il naturale, spontaneo esito dell’insieme di quei fatti vissuti e ora riportati alla memoria.

Quasi una fabula, dicevamo all’inizio. Perché c’è una presenza che interseca passato e presente, che li cuce insieme in un unico drappo avvolgente, in un tappeto antico ma dai colori ancora e sempre sgargianti: l’amore. Per Ossyan, vincolato a un destino sognato da qualcun altro, l’amore per un mestiere, per un ideale, per una donna è qualcosa che di nuovo non si sceglie, una forza che investe e basta, ma che libera, che scioglie la lingua, dà voce e chiarezza ai pensieri, indica l’unica via possibile e desiderata. Un’energia sempreverde che si spande in mezzo ai bombardamenti e nell’oblio dei medicinali “abbrutenti”, che si irradia nel sangue e regala un battito più veloce, vitale, che fa sperare e attendere, senza sentire il trascorrere delle ore, dei giorni, degli anni.

D’amore si vive e si racconta: Ossyan non può che seguire questo incantevole imperativo, il suo uditore non può fare a meno di registrarlo (forse sperando di sentirlo presto sulla propria pelle), Amin Maalouf di incastonarlo in un romanzo splendido e noi lettori di recepire il messaggio, respirare e narrare a nostra volta, come bardi dal cuore perennemente in subbuglio.

A cura di Francesca Mogavero

 

Amin Maalouf


Amin Maalouf è nato in Libano nel 1949 da una famiglia di letterati e giornalisti. Dopo gli studi universitari in Economia e Sociologia, si è trasferito a Parigi nel 1976. Il suo primo libro, Le crociate viste dagli arabi (1983), è ormai un classico tradotto in moltissime lingue. Ha pubblicato inoltre Col fucile del console d’Inghilterra (1994), Gli scali del Levante (1997), Il periplo di Baldassarre (2000), Il primo secolo dopo Beatrice (2001), Origini (2004, nuova edizione per La nave di Teseo 2016), I disorientati (2013) e i saggi L’identità (1999), Un mondo senza regole (2009), Una poltrona sulla Senna (2016) e Il naufragio delle civiltà (2019). Nel 1999 gli è stato conferito il Premio Nonino, nel 2004 il Prix Méditerranée e nel 2010 il Premio Principe delle Asturie. Dal 2011 fa parte dell’Académie française.

 

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