Intervista a Antonio Manzini




A tu per tu con l’autore


 

Ciao Antonio, grazie per questa chiacchierata. Ho appena finito di leggere Vecchie conoscenze e devo dire che è stato davvero difficile staccare gli occhi dalle pagine. 

Il colpo di scena finale, poi, mi ha lasciata a bocca aperta! 

Ecco qualche domanda per te.

Il Rocco che ritroviamo in questo romanzo è sempre più arrabbiato, disilluso, malinconico. Credi che riuscirà mai a trovare un po’ di pace, a seguire i consigli della sua Marina?

La verità? Non ne ho la più pallida idea. Se dovessi azzardare un’ipotesi direi di no, Rocco Schiavone è un uomo che non cerca più, e per trovare qualcosa è essenziale farlo. 

Schiavone è un personaggio pieno di contraddizioni: è burbero e cinico, ma è anche generoso, umano, ironico. Non che sia senza morale, solo che ne ha una tutta sua. Fatto sta che è inevitabile affezionarsi, così come è inevitabile affezionarsi agli altri personaggi della sua squadra. Ognuno ha qualcosa che lo rende speciale, diventano amici che vorresti incontrare nella vita reale… Qual è il segreto per rendere un personaggio indimenticabile?

Non vergognarsi mai di scrivere anche i pensieri più nascosti, provare a rendere umano il detestabile, capire e non giudicare. Ma questo credo valga anche per la scrittura in generale. Ogni libro è un rischio che si corre, che vale la pena correre, pensando, questo ovvio è personale, al racconto e alle infinite sfaccettature che ogni movimento fisico o psicologico di un personaggio comporta. Non ho mai creduto nei personaggi bidimensionali, perché non ho mai conosciuto persone bidimensionali. Quello che cerco è la parte oscura della luna che ognuno di noi, nel bene o nel male, nasconde. Lì c’è il racconto.

Foto: © Kicca Tommasi

Quanto è ingombrante un protagonista come Rocco Schiavone nella tua vita di scrittore? È difficile scrivere altro? Ti viene mai voglia di “liberartene”?

Sempre, e lo faccio. Torno da Rocco ogni volta arricchito di altre esperienze, e mi diverte perché è come andare a trovare un vecchio amico che si conosce a memoria ma al contempo non smette mai di stupire.

Al di là dell’indagine sull’omicidio della professoressa Martinet e delle vicende personali del vicequestore, in questo romanzo affronti diversi temi. Il coming out di Deruta, ad esempio, è lo spunto per riflettere su quanto faccia ancora paura essere emarginati per le proprie scelte. Ma la parte che ho trovato più interessante è la scena della conferenza stampa. Di chi è davvero la responsabilità dell’imbarbarimento culturale del nostro Paese, secondo te? Degli accademici che si trincerano nella loro torri d’avorio? Dei media che non danno loro il giusto spazio?

Quello è solo la punta dell’iceberg. Una grossa parte della responsabilità ricade sulle spalle delle famiglie, dell’educazione imposta ai figli, per passare poi alle scuole e ai media. Se tutto è profitto tutto è consentito. Quindi in malora il senso di responsabilità, di bene comune, di crescita, di lavoro, studio, fatica. Tutto e subito, adesso, ora, i maestri del pensiero sono dei cialtroni pericolosi, la politica è in mano alla più infima classe dirigente che questo paese abbia mai avuto dal dopoguerra, e mi riferisco non solo al loro senso etico ma anche alla loro cultura. Gli accademici non trovano spazio perché gli accademici cantano la musica per come è scritta, non per come la si vorrebbe sentire. E fanno paura. Storici, psichiatri, filosofi, semiologi, non accontentato, mettono dubbi, scavano nelle paure della gente per dire la verità. A chi conviene? A nessuno. Anestetizzare è il dictat da 30 anni a questa parte. Quindi pochi libri, poca università, via il teatro e musica solo per cerebrolesi. Prima era chiaro chi apparteneva alla serie A, chi alla serie B e chi neanche poteva giocare nella lega pro. Adesso ognuno si arroga il diritto di sparare giudizi, fare disamine imbarazzanti di argomenti di cui ne è all’oscuro, ergersi a maestro di pensiero. 

Mi piace molto l’utilizzo che fai delle espressioni dialettali per caratterizzare i personaggi. Sono convinta che i dialetti siano parte integrante della nostra cultura e che non dovrebbero andare persi. Cosa ne pensi?

Sono lingue vere e proprie, colorite e antiche quanto se non più dell’italiano. Ho sempre considerato i dialetti una fonte di lingua, innovazione, espressività. Tanto che molte parole dialettali sono poi passate nella lingua italiana. Pensa a quant’è bello dire di una donna: una fardona. La fardona è una donna con le falde, cioè vestita di stoffe pendule, disordinate, non acconciata. Taliare dal siciliano come lo traduci? Non è solo guardare, è guardare come se  si avessero coltelli al posto delle pupille.

Più di altri romanzi della serie, Vecchie conoscenze ha un finale carico di rivelazioni. C’è un trucco per preparare i colpi di scena? 

Nessun trucco, se non il racconto che a volte si attiene ad alcune regole spesso le ignora, e deve correre per i fatti suoi e vola in posti che neanche potevi immaginare quando t’eri messo a balbettare le prime parole.

Stai già lavorando a un nuovo episodio?

Certo.

Grazie ancora per averci dedicato un po’ di tempo. Non vediamo l’ora di leggerti di nuovo.

Grazie a voi!

Antonio Manzini 


 

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