Intervista a Antonio Moresco




A tu per tu con l’autore


 

Che cos’è il libro, per Antonio Moresco?

In un certo senso, il libro intrattiene sempre: ti trattiene proprio, attaccato a leggere. Ho sempre avuto una specie di idiosincrasia, nei confronti del leggere come puro intrattenimento, che ha come solo scopo quello di tenere avvinto il lettore ad una trama per sé stessa, senza dargli niente altro al di fuori di questo. La parola scritta, l’accordo tra chi scrive e chi legge dovrebbe essere un rapporto di dare e avere forte, in modo che il lettore sia lasciato entrare in una zona di rischio, anche dal punto di vista della conoscenza, che arriva a tirargli il terreno da sotto i piedi, aprendogli gli orizzonti. Questo lo può fare qualsiasi tipo di narrazione; anche gli scrittori del passato che scrivevano i cosiddetti libri di avventura aprivano questo spazio. Io sono uno che ha cominciato a leggere tardi, da ragazzo non ci riuscivo, avevo grandi problemi, per cui ho iniziato con Salgari. Non sono schizzinoso, proprio no! Attraverso questa lettura mi si è spalancato un orizzonte, un’intera letteratura, qualunque sia il suo pescaggio, la sua verticalità, eccetera. Secondo me, dovrebbe aggiungere qualcosa, la lettura, al lettore. La parola autore deriva dal latino augere, aggiungere: non è quella che ti conferma su quello che sai già, su quello che non ti mette mai nel periglio, nell’avventura: dovrebbe aggiungere qualcosa. Quando scrivo, ho bisogno di questo, anche anche come scrittore, non solo per darlo eventualmente se ci riesco al lettore, anche per viverlo io come scrittore. Non ho una ricetta da replicare all’infinito perché ho imparato a farlo, ho bisogno di mettermi anch’io a fare qualcosa che non so ancora fare… e forse questo è anche bello per il lettore.

Vorrei farLe una domanda su una parola che secondo me è molto importante nei Suoi scritti, non solo in questo, ma anche in altri: il termine canto. Questo è Canto di d’Arco, e prima c’è stato Canti del caos, ed è un termine che rimanda molto a Dante e Leopardi, due autori da Lei molto amati. In questo libro ultimo è molto pregnante, ma vorrei sapere qualcosa di più a riguardo…

Può stupire che in un libro che viene definito un thriller metafisico, venga contenuta la parola canto: cosa può c’entrare? Tuttavia, come hai ricordato, c’era già il libro Canti del caos, che conteneva al suo interno una serie di canti, che erano i momenti in cui si interrompeva la narrazione orizzontale, e alcuni personaggi irrompevano dentro la narrazione con voce diretta e magari terremotavano e spostavano la narrazione stessa, facendole cambiare direzione. Di solito erano lunghi una pagina o due, mentre quelli più estesi erano di 4, 5, 6 pagine. Questo, per me, è come un unico grosso canto di 700 pagine fitte, perché c’è un personaggio che prende la parola in prima persona, e narra questa vicenda estrema attraverso la morte, la vita, e di nuovo la vita e la morte, e in altri piani dell’esistenza interiore, che noi non concepiamo, ma che possono essere anche al di là della morte. Per questo, mi sembrava che potesse meritare il titolo di canto, anche se chi parla è un poliziotto, un bestione, molto fisico. È un irriducibile, però, combatte sempre, viene continuamente sconfitto però non si arrende mai. Perciò, mi sembrava che le sue parole, anche se lui è un personaggio cosiddetto basso, meritassero questo epiteto alto di canto.

Io vorrei parlare della tradizione del thriller ad alta verticalità, con cui Moresco dimostra di aver avuto a che fare. Parlo di quelli in cui, oltre all’azione, compaiono metafore profonde, e questioni radicali per l’esistenza, che hanno un pubblico diverso da quello cui Moresco si rivolge, di solito. In Canto di D’Arco, le scene di lotta e di azione mi sono piaciute molto, per cui vorrei sapere come si è documentato Moresco e come le ha costruite, soprattutto perché non sono facili affatto… che film ha visto, come si è documentato anche sulle armi a tal punto di dimostrarsi un capacissimo thrillerista?

Non so se merito davvero questo elogio, però, come dicevo prima, io non sono schizzinoso nelle mie letture, per cui leggo anche molti libri thriller e polizieschi, da cui ho, diciamo così carpito una serie di cose. Mi è capitato di imbattermi in romanzi, thriller, noir, ecc. molto belli e sono attenti. In qualche caso, a mio parere, persino superiori anche a certi romanzi “letterari” che credono di essere migliori solo perché si pongono in una certa zona. È come se tu ti mettessi sul giaccone il marchio Pura Lana Vergine, e per questo ritenessi di essere migliore di tutti gli altri. Quello che io apprezzo negli scrittori di thriller più esperti è la capacità di costruire delle macchine narrative e di conoscenza forti che, a volte, non sempre lo scrittore letterario non è capace di fare, trasformando però questa sua incapacità in un valore, guardando dall’alto al basso quelli che lo sanno fare! Avete presente gli scrittori dell’Ottocento? Hugo, Dostojevski? Alla faccia, se erano capaci di costruire delle macchine narrative avvincenti! Arrivando dal basso, come livelli di studi (io sono un autodidatta) trovo intollerabile questa postura di superiorità, e di disprezzo. Bisogna vedere caso per caso… perciò, io leggo molti gialli, molti thriller, come quelli di Agatha Christie, Simenon, e quelli odierni, di autori come Deaver, Nesbo, Connolly, ecc. Posso dire di conoscerli più o meno tutti! Leggendo, io mi appassiono e trovo spesso cose molto belle e molto forti, per cui il mio atteggiamento è che nella letteratura non si butta via niente. Semmai, la si può spingere più in là, la si porta oltre. Negli anni scorsi, il cosiddetto modernismo letterario comprendeva tutto, perché lo afferrava e lo abbassava: niente è diverso da niente, non esiste l’alto e il basso, per cui livellava tutto verso il basso. A me, invece, interessa il movimento inverso, e portare su tutto, compresa la parte migliore e più forte di quella che viene chiamata narrativa di genere. Se leggo un thriller, un noir, dove esiste una figurazione del male e della sua presenza molto forti, come succede in qualcuno dei più grandi, io rimango conquistato e mi porto l’insegnamento a casa. Questo è quello che mi piace della letteratura di genere: si pone di fronte all’esistenza del male nel mondo, senza costruire un’idea della realtà, come spesso ha fatto la grande letteratura, dove il male viene espunto e lavora solo su meccanismi psicologici. Forse è il motivo per cui continua ad avere un successo così duraturo, la narrazione di genere, perché il male, la “medusa”, viene guardato in faccia. La grande letteratura, fino ad un certo punto, ha fatto così. La seconda cosa che mi colpisce è che, molto spesso, mentre la letteratura ridotta a sua volta al genere letteratura, produce libr piccini di 90 pagine, traendo la propria aristocrazia proprio da questo fatto, poiché sembra distillare le cose, facendo questi libri piccoli piccoli. Mentre gli scrittori cosiddetti di genere, ci danno dentro in modo incredibile! Hanno riconquistato il passo lunghissimo che ha sempre avuto la letteratura, la grande letteratura: i libri dei romanzieri russi dell’Ottocento, quelli di Dickens, di Hugo, di Balzac erano narrazioni sterminate! Gli scrittori di genere, come fantasy, thriller, noir, hanno riconquistato quel passo lungo, rioccupando la dimensione del tempo, portando ad un’estesa occupazione del tempo del lettore. Questo è quello che mi interessa maggiormente, molto meno le varie teorizzazioni che si sono succedute nel tempo, e che tendono a separare tutto e a creare gabbiette dove sistemare gli autori, ed etichettarli. Se sei Pura Lana Vergine, vai di là, se si parla di Successo di pubblico, vai dall’altra parte, ecc. se tu vai di là. Io non sopporto queste prigioni e quindi cerco di romperle! Cerco di creare vaso-comunicazione. Tornando alla tua domanda, io leggo narrativa e letteratura senza distinzione: a volte ci sono dei libri che mi appassionano e, se trovo cose che mi piacciono, mi rifiuto di dire che non è così. Uno scrittore si porta dietro tutto, come capitava ai musicisti del passato: se io ascolto Beethoven, Brahms, Mahler, ci trovo dentro anche le canzonette, senza essere schizzinosi. Non lo erano proprio, al contrario degli scrittori Pura Lana Vergine, gli abatini di questi anni.

Sono rimasta colpita dall’incrollabilità di D’Arco, per cui niente sembrava in grado di distruggerlo. Per tornare invece al modo di usare le parole, sono rimasta colpita dal modo in cui riesce a descrivere situazioni pesantissime, come nel caso dei bambini torturati e uccisi, che vengono profanati, e quelle che apparentemente sono contrapposizioni (bene, male, amore, luce, buio) andando oltre qualunque carica di sdegno o di giudizio. Come ci è riuscito?

Questo è un libro strano per me, perché io ho cominciato a fantasticare 5-6 anni fa, mentre stavo all’interno della Sardegna, su questo personaggio, D’Arco. La storia, in realtà, viene fuori da una cosa che avevo scritto molti, molti, anni fa; a 32- 33 anni ho scritto un romanzo che poi ho buttato via, perché mi sembrava che non fosse riuscito. Al suo interno c’era una breve storia poliziesca, il cui protagonista si chiamava proprio così, D’Arco. La storia e il personaggio mi sono rimasti dentro, per quanto non fossero riusciti, e ora li ho ripresi, cercando di portarli a termine, dove avevo mancato la prima volta. La cosa principale, con cui veniamo in contatto, nel romanzo, è la presenza del male nel mondo, a cui viene data anche la parola. Alla fine della prima parte, infatti, emerge la figura dell’Uomo di Luce, che è quello che tira le fila di tutto questo male. Qui può esprimere le proprie ragioni: aberranti finché si vuole, ma che contengono degli elementi di terribile verità, e quindi non viene visto in modo moralistico. Vengono fatte scontrare tutte le ragioni: quella del male, del cosiddetto bene, quelle della luce, quelle del buio che, nella  terza parte si assolutizza: c’è la luce, c’è il buio con le maree che si combattono, ecc. Io ho voluto fare affrontare questo problema senza rete, dando la parola anche al male, come hanno sempre fatto gli scrittori, senza mettersi in cattedra, sentendosi al sicuro perché si trovano in quella zona protetta che si chiama letteratura, che li mette su un piano morale più alto e quindi si possono sentire superiori e difendere dal male. Gli scrittori del passato, invece, non si sono mai sentiti al sicuro da niente, sono sempre stati in balia del bene del male, alcuni ci sono anche andati molto vicini. Se non ti avvicini e non ti scotti, non ti bruci, non riesci a fare un’operazione del genere. Quindi, io sono partito mettendo, nelle prime due parti una contro l’altra le due forze: quella del male, e non tanto quella del bene, quanto quella dell’amore. Questo mi sembra un modo migliore di creare contrapposizione nei confronti del male, perché la parola bene è astratta. Il personaggio protagonista attraversa le due dimensioni in una maniera drammatica, per poi soccombere e trovarsi in questa nuova città, che si chiama di Confine. I confini qui vengono continuamente spostati e lui stesso capisce, dopo un po’, di essere lui stesso il confine. Ciascuno di noi è o possiamo essere un confine, che si sposta continuamente, non è immobile: lo diventa se noi non ci facciamo confine e non lo spostiamo. Ma nel momento in cui il personaggio si trova nel punto massimo della sconfitta, qualcosa si apre, perché si merita che gli si apra una strada nel buio: è arrivato fino in fondo alla notte. Non saprei dirti, però, come ho fatto: quando scrivi, sei in balia di quello che scrivi, non sei padrone in casa tua. A differenza di quello che pensano alcuni, lo scrittore non è affatto padrone in casa propria, perché è in balia di qualcosa che lo pone in una trance, spingendolo a immaginare, creare, inventare. Posso dire che ho scritto questo libro in circa 4 anni, 4 anni e mezzo; ho scritto la prima parte che si intitolava L’addio, che ho rielaborato e riposizionato, credendo che fosse l’ultimo scritto da parte mia. Ero stufo, non di scrivere, ma del mondo che ci gravita attorno, ma in un secondo momento sono stato trascinato a scrivere la seconda parte, perché nella prima, sottotraccia, era presente una vicenda d’amore. Avevo voglia di tirarla fuori, di raccontarla e di farla vivere. Così come mi sembrava bello mettere in movimento i killer vestiti da sposi, anch’essi presenti come accenno in quella parte, e farli arrivare fino alla fine. Capivo poi, della necessità che ci fosse una terza parte che estremizzava tutto… ma mi sono detto: non ce la faccio. Non ce la faccio a portarla avanti mantenendo il meccanismo dell’azione romanzesca, non ce la faccio a quadrare il cerchio delle altre due! Mi sembrava di non riuscire a trovare il bandolo, mi sono fermato un anno, infatti… ad un certo punto credevo che questo sarebbe stato il mio primo e unico libro incompiuto, quello che non sarei riuscito a finire. E poi… sono ripartito!

La letteratura di genere è l’antidoto al post-modernismo?

Sì e no. No perché esistono grandi scrittori che non sono post modernisti e non fanno necessariamente una letteratura cosiddetta genere. Non è sicuramente l’unica strada… ma sì, un po’ mi sento di dire sì.

Delitto e castigo è un giallo?

Delitto e castigo è un giallo alla Colombo perché si scopre subito l’assassino, mentre ne I fratelli Karamazov, no: solo dopo una macchina di suspense pazzesca si capisce chi è. È una struttura filosofica che tiene anche perfettamente come giallo; molti altri libri del passato si potevano vedere come libri di genere, se vogliamo. I miserabili, per esempio, poteva essere attribuito al genere sociale sentimentale, mentre Moby Dick poteva appartenere al genere di avventure marine, che avevano un grande successo, ma prova a pensare a quanto più in là lo porta Melville. Per tornare alle domande di prima… sì, la letteratura di genere è un po’ un antidoto al post-modernismo, al fatto di non accettare di stare dentro le gabbie strette che creano un presunto valore, indipendentemente dalla cosa in sé. Esistono scrittori bravissimi, altri che sono grandi furbacchioni che mantengono una certa innocenza mentre dicono al lettore: guarda, ti racconto ancora questa storia, ti tengo qui avvinto, mentre altri affermano che non è più possibile fare una cosa del genere, è già stato detto tutto, per cui io ti immobilizzo qui, in un vicolo cieco, dicendoti che questa è, però, grande letteratura. A me piacciono quegli ingenui o finti ingenui, che ritengono impossibile che alle persone non piaccia più sentirsi raccontare storie e avventure. Sono quelli che non hanno paura della durata, come dicevamo prima, e anche della reiterazione, con lo stesso personaggio. Questo succedeva già in passato, un po’ dappertutto, pensiamo a Balzac e alle sue creazioni continue. C’era già l’idea di reiterare e radicalizzare un personaggio; se non si è schizzinosi, e si è disposti a imparare da tutto, si scoprono cose davvero meravigliose.

In questo libro, Canto di D’Arco, c’è una forte componente filosofica, con tantissimi elementi, il ritmo occidentale, che viene superato dal karma, da quello che viene prima, e quello che viene dopo, il confronto con sé stesso e l’altro da sé… in alcuni punti ci sono parecchie ripetizioni, quasi ossessive, del tipo: io sono qui su questo divano, in questo momento, ma sono davvero io che sono qui su questo divano, oppure è solo pensiero, ecc. E questo mi portava a farmi domande di questo genere un po’ per tutte le cose della mia vita. Perciò, la mia domanda è: questa ripetizione ha l’obiettivo di indurre una riflessione filosofica sul fatto di andare oltre?

La filosofia ha fatto a sua volta diventare un genere il pensiero stesso, ed è un po’ il mio conflitto con la filosofia. È un libro di azione, di amore e soprattutto di pensiero perché questo personaggio, attraverso passaggi radicali, compie un processo evolutivo di pensiero. La trama, inoltre, ha un valore espressivo profondo e un profondo significato perché, a seconda di come tu combini lo svolgersi dei fatti, tu dai un’idea della vita e del mondo. Ciascuno di noi porta dentro di sé una riflessione sul mondo e sul pensiero; quest’ultimo è una macchina che contiene, dentro di sé e il modo in cui procede, un elemento di suspense. Non riesco a concepire il fatto che libri come Moby Dick, non contengano meno pensiero di grandi libri di filosofia, e qui penso anche ad altri come Dostojevski, o Kafka. Solo che lo rappresentano in modo fluido e attraverso macchine di figurazioni di immagini e azione. Anche la filosofia, in fondo, quando vuole diventare particolarmente incisiva, deve entrare nella macchina figurale (l’esempio del mito della caverna). Il Processo, Moby Dick, le opere di Dostojevski, non sono libri di pensieri? Lo stesso Balzac è un pensatore, ma è anche un un romanziere che sfiora feuilleton e non ha paura di tenere insieme questi due estremi nella sua opera letteraria. Canti di D’Arco comincia proprio così, dalle prime pagine mette subito le carte in tavola, con il male, lo sbirro che affida la missione a D’Arco e che gli dice che non si espia solo il male che si è fatto, ma anche quello che si è subito, e questo è anche più duro. Se tu vuoi parlare profondamente della città dei vivi, la devi vedere attraverso la città dei morti. È lo scarto del fantastico che ti permette di vedere con altri occhi quello che non riesci più a vedere. Ed è qualcosa che riesce particolarmente bene alla letteratura, con il supporto del pensiero. I bambini, i selvaggi e primitivi pensano per immagini… si inventano le mitologie intere, ma questo non significa che ci sia meno pensiero lì di quello che viene poi codificato come filosofia. Quando si esprime così, a questo stadio, è ancora indivisibile, per uno scrittore è ancora indivisa questa caratteristica, e si riesce a comunicare attraverso l’azione romanzesca, la costruzione di immagini e di personaggi.

Qual è la funzione del romanzo oggigiorno, secondo lei? Ludica, sociale, didattica?

Io non riesco a dirne una sola di quelle che hai elencato tu, nel senso che c’entrano tutte in qualche modo. Ti potrei rispondere con la famosa definizione di Kafka, che dice che un romanzo deve essere come un’ascia che spacca il mare di ghiaccio che è dentro di noi, e secondo me, ha detto veramente tutto. Poi come sia questo mare di ghiaccio per ciascuno, può essere diverso, da uno all’altro, ma se tu metti in movimento una cosa dentro di te, metti in movimento tutto. E questo va contro quel nichilismo soft che si è andato affermando nel tardo Novecento che chiude tutto in gabbie e in immobilità, dicendo che non c’è più nulla. Ecco perché io leggevo poeti e scrittori, perchè avevo bisogno di portare l’insurrezione dentro nella mia vita, dentro il mondo, per farmi svegliare dalla morte cui la società mi condannava dicendomi: tu, per essere adatto a vivere in queste città, devi essere morto. Se tu non sei morto, non accetti di essere morto, ti scontri con tutto un mondo che ti dice che sei fuori posto. Cosa ci fai, qui? Devi andare tra i morti… Ti mette in crisi nei confronti del mondo, ma ti risveglia tutto. La mia vita è una serie di stratificazioni, poiché ho avuto esperienze di vario genere e tipo: ho fatto tre anni di seminario, perché mi ci hanno messo, ma questo mi ha permesso di conoscere una serie di cose che non avrei scoperto altrimenti. Dopodiché ho fatto dieci lunghi anni di militanza politica, e poi, dopo, ho trovato la strada della letteratura. Tutti questi strati sono coesistenti dentro di me, perciò mi interessano tutti gli aspetti del romanzo cui hai accennato prima.

Parliamo un momento del lettore, dopo aver parlato di chi è lo scrittore e cosa fa. Lei diceva di leggere tanto, da ragazzo, per portare insurrezione nella sua vita. Lo fa ancora?

Altroché!

C’è stata un’evoluzione in questa lettura per portare l’insurrezione? E’ qualcosa di cui abbiamo bisogno anche noi lettori?

Io personalmente ne ho bisogno perché è così che concepisco la vita. Quello che spesso non vogliamo sapere, facciamo finta di niente, e che anche il mondo politico cerca di ignorare e cancellare è che tutti noi abbiamo bisogno di insurrezione, e di una grande invenzione, una metamorfosi, altrimenti… non ce la facciamo. La letteratura è una fessura un po’ meno sorvegliata, poiché si ritiene che non conti affatto, e che si parli ancora di intrattenimento, ma non è affatto così. Pensiamo al passato, che dai momenti di chiusura partiva un movimento di poesia, letteratura e musica che davano idee forti, altre visioni del mondo, e che poi venivano trasportati anche in altri campi. Secondo me la letteratura è un passaggio, una fessura nel muro che ti permette di spaccarlo e di evadere dalla prigione dove tutti noi siamo rinchiusi. C’è bisogno di questo, adesso, è plateale: o ci inventiamo qualcosa, e ci trasformiamo, anche a livello di specie, di esseri umani, a livello mentale e direi anche corporeo, o non sopravviviamo. Siamo una piccola specie che si diverte a combattersi, per questione di colori di pelle, con pochissima creatività, che permette ad altri di prosperare sulle sue lotte. Noi dobbiamo attingere a forze segrete, che abbiamo, pur non essendo consapevoli, per potenziarci in una metamorfosi che è sicuramente possibile… perché solo la nostra specie dev’essere un vicolo cieco, che non riesce a trasformarsi e a cambiare? Mentre tutte le altre specie lo hanno fatto, più volte? In passato sono scritti poemi su poemi su questa capacità metamorfica che tanti, ora, si ostinano a negare, ma è una potenza vera e propria che ci permetterebbe una vita nuova.

Antonio Moresco

Loredana Gasparri

 

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