Intervista a Fabio Girelli




A tu per tu con l’autore

 

 

Fabio, vorrei che tu ti presentassi al pubblico utilizzando alcuni aggettivi che ti caratterizzano come scrittore. E vorrei anche che tu ci raccontassi la tua nascita come scrittore. Cosa ti ha spinto a scrivere?

Farei una premessa: non sono uno scrittore. Penso che scrittore, generalizzando, possa dirsi solo chi di scrittura vive e non è il mio caso. Si potrebbe fare il paragone con chi va il mercoledì serra a giocare con gli amici a calcetto: questo fa di lui un calciatore? Certamente no. È una passione, certo, e un piacere, ovvio. Quindi piuttosto direi che sono uno che ha l’hobby di scrivere. Per questo mi viene difficile definirmi attraverso aggettivi o in altri modi. Però posso dire invece cosa mi abbia spinto a scrivere: la mia natura. Sin da bambino, quando vedevo un foglio bianco, sentivo il bisogno di riempirlo. Ho iniziato a scrivere poesie, canzoni e racconti già dalle elementari. È qualcosa che fa parte di me.

 

Quali sono, secondo te, gli intenti che uno scrittore deve perseguire, a parte quello di vendere libri?

Uno scrittore, uno vero, può avere moltissime ragioni, per scrivere, e i più vari intenti. Ma poi suppongo che, dovendo sintetizzare, la questione si possa ridurre alla necessità di comunicare qualcosa per egli importante, e di farlo al più vasto pubblico possibile, con il linguaggio più universale possibile, e più contemporaneo. Ma soprattutto uno scrittore ama la lingua e la letteratura. Non può dirsi scrittore chi non scriva anche per l’intento di vedere come una serie di parole stia meravigliosamente bene l’una accanto all’altra, come le note per un musicista. Dal canto mio, per quel che riguarda i miei libri, mi auguro principalmente che il lettore si diverta, con le mie storie. Che trascorra qualche ora piacevole, senza annoiarsi, ed è già molto, visto che per avere il mio libro tra le mani si è dovuto privare di alcuni euro che prima stavano nel suo portafogli.

 

Come è nato, invece, il protagonista dei tuoi romanzi, il vicequestore Andrea Castelli?

Castelli è la debolezza dell’uomo forte. È colui che non si cura del giudizio degli altri perché prima di tutto non giudica a sua volta. Castelli sa che ogni essere umano è un essere umano e null’altro. Non ha metri di giudizio per intendere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, rispetto alle debolezze che ci abitano. E per questo le mostra tutte, le sue, senza pensare all’effetto che produrrà questa esposizione negli occhi di chi guarda. Lui vive nell’unico modo in cui riesce a vivere: accettandosi senza capirsi. È proprio questa la sua forza: mostrarsi debole. Solo i sicuri di sé possono farlo, solo chi è amato o è stato amato non ha paura di stare nudo di fronte al mondo, di lasciarsi andare sulla zattera del proprio essere. È un naufrago alla deriva sull’oceano delle proprie pulsioni, delle proprie emozioni. Ma resta ritto a scrutare l’orizzonte, perché non ha paura e sa che da qualche parte, in un modo o nell’altro, si troverà un buon posto dove attraccare.
Castelli nasce da tutto questo, che in parte mi rispecchia, in parte è ciò che mi piacerebbe essere.

Direi che è un personaggio fuori dalle righe,  per alcune sue caratteristiche caratteriali e anche per il suo modo di vivere.  Un personaggio che tu stesso, nel tuo ultimo romanzo “La pelle del Lupo” definisci “ depresso, scontroso, malinconico, afflitto, turbato, tribolato,  meschino, vittimista” ed anche “egoista, egocentrico e inaffidabile”.  Come può un personaggio che racchiude in sé tutte queste caratteristiche che sono considerate generalmente negative a essere così amabile e irresistibile?

Ho usato tutti questi aggettivi per un solo personaggio in un solo libro? Ecco, questa è la dimostrazione che non sono uno scrittore (ride) (è interessante scrivere ride come se l’intervista fosse dal vivo, mentre me lo scrivo da solo, per via del fatto che un ahahahahah è un pugno nell’occhio, sulla pagina). Per rispondere, però, mi rifaccio a quanto detto sopra: sono le sue debolezze a farlo forte e amabile. Ci innamoriamo sempre di chi non ha paura. E appunto lui non ha timore di essere chi è, di dire cos’è. A suo modo è un condottiero.

 

Quale ruolo gioca, secondo te, la caratterizzazione del protagonista nel successo di un romanzo?

Direi che è essenziale, lo stesso ruolo che ha il ballerino in una danza. Senza non esisterebbe nulla. Se non avesse talento, la danza non sarebbe piacevole, e via dicendo.

 

Sei d’accordo nel dire che in un romanzo il personaggio azzeccato rende meno necessaria la presenza di una trama ineccepibile? O è vero il contrario?

Faccio un esempio, ma potrei farne a migliaia: Anna Karenina. Personaggio direi piuttosto azzeccato, no? (ride, vedi sopra). E trama incredibilmente complessa e perfetta. Quindi direi che solo se volessi scrivere un brutto romanzo potrei pensare che la trama può essere meno essenziale. Un po’ come se volessi costruire un’ auto e, dal momento che il motore mi è uscito benissimo, prestante come quello di una Ferrari, possa a quel punto pensare Vabbé, la carrozzeria chissenefrega, ci metto sopra quella della Panda, tanto senti che motore.

 

Di Castelli amo tutto! E’ un personaggio, a mio parere, davvero unico e incredibilmente empatico.
Il particolare che più mi ha colpito è quel suo parlare attraverso la Poesia,  un modo per sopperire alla razionalità che spesso si inceppa davanti alla personificazione del male in ogni sua forma.
Si dice che la Poesia sia un balsamo per l’anima: cosa pensi a  questo proposito?  Che ruolo ha la Poesia nella società odierna? E in che modo possiamo tenerla sempre viva e presente?

La poesia è la prima forma di letteratura a cui mi sono avvicinato in modo diciamo accademico, studiandola e amandola. La poesia è un modo per raccontare la realtà, sempre che essa esista, guardandola con occhiali diversi e definendola con una grammatica che allo stesso tempo sia chiara e imperscrutabile. Come diceva Montale: “Questo possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”,  quindi al poeta non resta che la possibilità di interpretare la realtà al pari della veggente che nei tarocchi legga i segni di un futuro che le appare attraverso simboli ermetici, indefinito e indeterminabile, in cui il solo fatto di tentarne una lettura lo modifica, come accade nella fisica quantistica: è la natura stessa a porre i limiti della nostra comprensione. Ci resta un senso di vaghezza che forse solo una metafora, più che un numero, riesce a dischiudere nell’essenza. La poesia è l’unico strumento puro che ci resta, l’unica lente non deformante per guardarci attraverso. La poesia è l’Aleph di Borges.
Castelli è un uomo pragmatico e disordinato al tempo stesso. Ma nel suo disordine, in tutte le possibili accezioni, riesce sempre a intuire la chiave di volte di un delitto. Qual è secondo te l’ingrediente che non deve mancare ad un buon investigatore?

Facile: la capacità di attirare grandissime botte di culo. Questo nella letteratura (leggo di certe indagini che, voglio dire, se il poliziotto di turno invece di andare a cercare gli assassini quel giorno fosse andato in tabaccheria a giocare al Superenalotto forse forse vinceva sia il montepremi italiano che quello francese).
Nella realtà invece penso che la qualità essenziale sia la stessa che dovrebbe accomunare ogni persona che svolga un ruolo di responsabilità: grande professionalità.

 

In “La pelle del Lupo” torna ad essere protagonista la magia e l’esoterismo, che evidentemente ti affascinano, in qualche modo. Come nasce questo interesse per il “mistero”?

Credo che la migliore risposta a questa domanda l’abbia data parlando della poesia: i misterucoli esoterici in cui si imbatte Castelli sono solo un’immagine, un’atmosfera per parlare del più grande mistero che ogni giorno abbiamo di fronte, ovvero noi stessi.

 

Nel tuo ultimo romanzo troviamo una folta fauna di personaggi originali. E dire “fauna” non è fuorviante, anzi, direi più che azzeccato! Come è nata in te l’idea di questa indagine così particolare che affonda le sue radici nella storia e nella superstizione?

Si tratta di una domanda che prevede una vasta risposta. Diciamo, per amore di sintesi, che volevo parlare di certe figure e di certi personaggi che hanno popolato la mia infanzia, individui disseminati tra le vallate che mi hanno generato e nutrito, molto più simili alla natura che li ha prodotti che alla civiltà da cui non sembrano esser stati raggiunti. Uomini e donne più vicini alla mitologia che al pragmatismo contemporaneo, alla favola e appunto alla leggenda. Ma si tratta di una mitologia sporca, impastata nel fango e nel letame, da cui sorgono figure storte e  derelitte, senza direzione, che rotolano nella vita come massi dalla montagna. Tutto questo mi ha fatto pensare ai bestiari medievali e a Castelli come a un esploratore di anime nere, che dovesse scoprirle e catalogarle senza però comprenderle.

 

Infine, da scrittore di thriller, vorrei sapere cosa pensi dei thriller del nord Europa. E quali sono gli autori di genere che più apprezzi.

Ho amato moltissimo Larsson, per il suo stile meraviglioso, la secchezza delle frasi, la preponderanza dei dialoghi e la ricerca approfondita che è alla base della storia. Si vede che parlava di qualcosa che conosceva. In un certo senso mi ricorda Don Winslow. Poi ne ho letti altri, da Nesbo a Kepler, dalla Lackberg a Mankell, ma non mi hanno lasciato molto, se devo essere sincero. Il fatto è che non mi piace identificare un genere attraverso la geografia o per mezzo di altri recinti. Ogni scrittore ha le sue peculiarità, ciò che conta è che sia dannatamente bravo a fare il suo mestiere e ami follemente le parole. Ho bisogno di sentire questo, per innamorarmi.

Fabio Girelli

Laura Salvadori


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