Intervista a Francesca Gerbi




A tu per tu con l’autore


 

Ciao Francesca, ho letto con piacere il tuo romanzo “È stato Baudelaire”. Com’è nata l’idea di questo libro? Ti sei ispirata a un fatto di cronaca o è frutto della tua fantasia?
Ottima domanda! A cui rispondo con piacere! In realtà, ciascuno è figlio del suo tempo: vede e vive ciò che è conosciuto. Dunque dire che non sono stata ispirata da quel che, nella vita, mi è stato raccontato, giorno dopo giorno, sarebbe un’ipocrisia. Ricordo la mia docente universitaria di Storia dell’italiano, quando disse: “Poeti e scrittori sono sarti: cuciono perfettamente ciò che hanno letto”. Ho parecchie lacune, infinite, ma nel mio trentennio ho studiato molto, moltissimo. I miei libri sono frutto della conoscenza folcloristica, un attaccamento forte, viscerale, verso quel che mi hanno sapientemente raccontato. Sono figlia di questa terra: racconto tutto, per promuoverla. Soprattutto, racconto, di questa terra curiosa.

Mi hanno colpito i luoghi in cui la vicenda è ambientata. Sei stata molto abile nel rendere l’atmosfera della vita di paese, contrapponendola alla città, dove invece si muovono i protagonisti. Perché hai scelto questo tipo di ambientazione?
Ci fu un tempo in cui una giornalista famosa, mia amica, mi disse: “Mio nonno affermava che si può scrivere benissimo, ma occorre parlare dei luoghi di cui si conosce, quelli veri, incontrati”. Ci ho creduto. Conosco la campagna. Sono figlia di contadini. Conosco bene la terra gelida d’inverno, il caldo afoso d’estate, quando batti la meliga, fai il fieno. Respiro l’alito pesante dei vitelli, lo riconosco, lo so riconoscere. Vivo le colline, amo correre, su queste colline. Per lavoro faccio la scrittrice, più la giornalista. Quel che sempre tendo è promuovere il mio territorio, attraverso quel che so fare, la scrittura. Tutto questo ha fatto di me la sintesi di ciò che sono: una donna intellettuale (sì, mi definisco così!) innamorata della terra, senza sconti, conosco la città e il paese palmo a palmo.

Collegandomi alla domanda precedente, qual è il tuo rapporto con la tua terra di origine?
È amore puro, viscerale. Sai cosa pensano, cosa fanno, cosa dicono al bar, di fronte a un bicchiere di Arneis. Io li conosco, tutti. La terra? Centimetro per centimetro: la porosità delle rocche del Roero, le “albre” del Monferrato, le vigne langhette…

La protagonista femminile del romanzo è una giornalista, come te. Ci sono altri tratti di te in Fulvia Grimaldi?
In realtà, con me, ha solamente la professione e l’attaccamento per il territorio. In altro caso no. È bella, ha i capelli biondi, curati, un outfit preciso, elegante, io no. Io mi vesto sempre di nero e ho i capelli rossi e ricci.

Perché hai scelto Baudelaire come firma dell’assassino? Cosa rappresenta per te?
Baudelaire è lo scapigliato che vorrei essere, il poeta maledetto. L’amore per l’estetismo, il bello di vivere. Il francese che amo, come amo le altre lingua, che studio e parlo compulsivamente. Parlo, e scrivo, quotidianamente, in piemontese, francese, tedesco, spagnolo e italiano e inglese, interagisco con il modo, e poi ho delle preferenze: il francese.

Pensi di scrivere un nuovo romanzo con il maresciallo Antonio Rodda come protagonista?
Assolutamente sì, vorrei fosse il Montalbano piemontese. Vorrei che Rodda vivesse. E poi si, ci sono altri due romanzi, con lui protagonista, che sono state scritte…

Quali sono i tuoi piani per il futuro, relativamente alla scrittura? 
Io scrivo, quotodianamente. È terapeutico, vita, linfa vitale: come potrei non respirare? La mia vita, da trentenne, è stata sufficientemente dura. Un tumore mi ha colpita dagli 8 ai 26 anni. Ecco, mi sono ripromessa di fare solo, e unicamente, ciò che mi piace: scrivere, seguitem

Francesca Gerbi

Chiara Alaia

 

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