Intervista a Lorenza Ghinelli




A tu per tu con l’autore


 

Ciao Lorenza! Mi complimento con te per il percorso artistico che hai svolto fino ad ora, inanellando brillanti storie una dopo l’altra. Sono passati anni dal tuo debutto eccezionale” Il Divoratore”. Com’è cambiata la tua scrittura durante questi anni?

Ciao Roberto! Leggendo, studiando, ho imparato a fidarmi sempre più delle parole. La vera sfida è mantenere la propria visione e affinarla, abbandonando l’ingenuità che credo caratterizzi quasi tutti gli esordi. Avevo ventisette anni quando scrissi Il divoratore. Oggi ne ho trentanove e la vita mi ha cambiata, permettendomi di riorganizzare il mio pensiero, di cambiare opinioni, e tutto questo si riflette inevitabilmente nella scrittura: credo che la mia sia diventata più chirurgica, abrasiva, lirica solo se serve davvero. Il tempo è un dono immenso e mi auguro di averne ancora, perché desidero migliorarmi ed esplorare.

L’infanzia è un tema molto delicato che troviamo presente nelle tue opere in maniera prorompente, mai narrato banalmente e senza stereotipi. Ci presenti la debolezza e la forza nascosta di un’età particolare, laddove sogni ed incubi prendono forma. Quanto c’è del tuo passato nei personaggi dei tuoi libri? E da cosa trai ispirazione per spaventare i tuoi lettori?

Nei miei romanzi c’è tanto passato e tanto possibile. La scrittura fu, in anni davvero bui, l’unica gomena che mi sentii di afferrare. Non l’ho più lasciata. È prima di tutto un mediatore, mi consente di accedere alle zone più buie che non sono solo mie, ci affratellano. In quei luoghi c’è tutto ciò che serve per terrorizzare a morte chiunque, ma anche per lenire il dolore. Nelle tecniche di narrazione ho trovato l’unica disciplina possibile. Come scrittrice desidero essere autentica, sempre. Ma mai spontanea. La scrittura richiede devozione. Non ci si può avventurare in selve così oscure improvvisando.

“Bunny Boy” è il tuo nuovo libro appena uscito e devo dire che lo attendevo da quando ho terminato “Tracce dal Silenzio”. Nina è cresciuta e si prepara ad affrontare lo specchio dell’incubo, con un’ottica non più innocente. La forza visiva che contraddistingue i tuoi libri qui diventa viscerale. Ogni singolo sguardo, azione e reazione sembrano un film che vorresti non finisse mai. Che differenza c’è tra lo scrivere un libro come questo e il tuo approccio di sceneggiatrice in tv?

La mia mente è affollata di immagini. Ne produco in continuazione e chiedono di essere interpretate. Non ci è richiesto di capirle, né tantomeno di ridurle o di spiegarle: un’immagine non è mai solo tale, proprio come, citando Lynch, i gufi non sono quello che sembrano. Sono simboli, e credo che in qualche modo siano portali capaci di portarci in un altrove in grado di cambiarci. Ho letto con trasporto Il Libro Rosso, di Jung. E se dicessi di averlo capito mentirei. Ma l’ho sentito, anzi, l’ho riconosciuto. Scrivere sceneggiature e romanzi significa mettere il proprio mestiere a servizio di queste visioni. È così che nascono le mie storie.

In questi ultimi anni l’Italia si è scoperta come grande sorella del romanzo thriller americano sfornando degli ottimi libri e portando questo genere ai primi posti della classifica. Eppure, leggendo anche Bunny Boy ci troviamo davanti a un thriller anomalo, leggermente contornato di sottile magia e crudeltà, ma anche di amore e relazioni. Cosa ti ha spinto a procedere con la storia di Nina e soprattutto, quali aspetti della sua vita volevi esplorare? 

Se parliamo di amore, di magia e di crudeltà, non possiamo prescindere dalle relazioni. Posso raccontare storie perturbanti e terrifiche, ma non esiste un solo valido motivo per escludere la tenerezza e la compassione. Siamo creature complesse e da un genere come il noir, che ha la pretesa di indagare l’oscurità che è dentro di noi, mi aspetto anche il coraggio di raccontare il resto, che spesso ci fa persino più paura.

Concludo questa chiacchierata ringraziandoti, ma non posso assentarmi prima di averti fatto una domanda che faccio spesso agli scrittori che mi piacciono molto, e credo che sia anche una domanda che avvicina molto il lettore al libro. Qual è la colonna sonora ideale della tua vita e quella da mettere in sottofondo leggendo “Bunny Boy”?

La colonna sonora della mia vita è un insieme di canzoni improbabili, così diverse e incompatibili da lasciare attonita persino me, ma la colonna sonora di Bunny Boy potrebbe essere un mix caldo e cupo di album che amo molto: Symbols and Clouds dei Death in June, Ghosteen di Nick Cave, 50 words for Snow di Kate Bush. Poi senz’altro c’è la sigla di Ken il Guerriero e la canzone Snow of ’85 del gruppo rock italiano Klimt 1918.

Lorenza Ghinelli 

A cura di Rob Forconi

 

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