Intervista a Luana Troncanetti




A tu per tu con l’autore


 

Prima di iniziare, ci tenevo a dirti che nei tuoi libri ci sono entrata di petto, in modo travolgente e che ogni pagina mi ha trasmesso sensazioni ed emozioni travolgenti.
Loredana Cescutti 

Prima di rispondere alle domande, ci terrei a dirti che aver travolto una lettrice di grande esperienza come te mi fa sorridere da qui all’eternità. Grazie, davvero.

Luana Troncanetti 

Paolo è così, come si presenta, nella sua stazza imponente, nella sua aria perennemente schiva e silenziosa, un ragazzone attaccato ai suoi principi e alla famiglia e soprattutto, per chi ne ha l’opportunità, un amico fedele. Ernesto, dal canto suo, è un tassista chiacchierone, che compie più buone azioni di quelle che vorrebbe ammettere. Ci vuoi parlare di loro e di come e di quando, è arrivata l’idea di dar loro vita all’interno del tuo primo romanzo? 

Mi intenerisce pensare alla prima volta in cui Ernesto ha preso forma, ho maturato la convinzione che sia stato un regalo post mortem di mio padre: il luogo in cui è successo, a pochi passi dal bar che aveva gestito per tanti anni e a un mese preciso dalla sua scomparsa, la professione dell’uomo che mi ha ispirato il suo personaggio, la voglia improvvisa di scrivere un romanzo. Prima di allora avevo pubblicato soltanto racconti brevi e le duecento (o più) cartelle le avevo sempre considerate come un traguardo irraggiungibile. 

Eravamo intrappolati nel traffico del quartiere Trionfale. Alla guida c’era mio marito, io ero più nera del cielo. Non ho mai tollerato la pioggia, mi spegne. Quella sera ha avuto invece il pregio di illuminarmi. C’era un taxi affiancato alla nostra auto. Vedevo le labbra del conducente muoversi a mezza bocca per imprecare, forse. O magari stava parlando con i clienti a bordo, non saprei dirtelo. Mi sono detta che il suo era un mondo che conoscevo bene: dopo aver venduto il bar, negli ultimi vent’anni della sua vita mio padre è stato un tassinaro. Ho avuto un flash: scrivere racconti il cui teatro fosse un taxi e quindi trovare un filo logico che li collegasse. Volendo semplificare al massimo, un romanzo è più o meno questo. 

Ho pensato, lì per lì, di far risolvere il caso di omicidio a un tassista. Il primo capitolo che ho buttato giù è stato la scena in cui uno scultore muore torturato in modo orrendo, poi è arrivato il contorno legato alla vita di Ernesto. Nella storia c’era troppo nero e serviva una puntina di giallo per gestirla meglio; avevo bisogno di un poliziotto. Paolo è stato perciò l’espediente per sviluppare una narrazione che per lungo tempo ho definito “un’ape”. Quando mi chiedevano di incasellare Silenzio, il romanzo pubblicato con Amazon nel 2016, a metà fra il giallo e noir, rispondevo proprio così: è un’ape. Autoconclusivo, presentava tinte fosche e di certo non era un poliziesco e neppure un giallo classico. Aveva una struttura a puzzle, una narrazione fuori dagli schemi che ho mantenuto ne I silenzi di Roma.   

Non immaginavo che la Frilli l’avrebbe un giorno preso in considerazione e che l’avrei ripubblicato tagliando alcune scene, spostandone altre e irrobustendo la figura di Proietti fino a renderla co protagonista dell’indagine. 

Quel capoccione, fino a due settimane prima della consegna del testo revisionato, ha tenuto per sé il suo dolore. Tipico di lui. Ma alla fine ha ceduto: mi ha detto di Chicca, ho scritto a velocità folle tre nuovi capitoli ed è nato così l’appiglio per concepire un secondo caso da fargli risolvere.

Paolo ed Ernesto: due personaggi a confronto. Il primo sta scontando da anni un senso di colpa scaturito da un ordine di servizio al quale lui non poteva disattendere, mentre il secondo ha vissuto un progressivo allontanamento dalla moglie dovuto a un qualcosa di incontrollabile, davanti al quale però nonostante tutto sente costantemente la sensazione di non aver fatto abbastanza. Perché, e soprattutto, come hanno fatto due persone così diverse, accomunate solamente dalla capacità di grandi silenzi sofferenti, a rimanere legate così a lungo, fra un inciampo e l’altro? In quale proporzione ti somigliano e chi ha prevalentemente assorbito una parte di te?

Come fanno certe amicizie a esistere (e resistere) a dispetto di tutto? Ho pensato a lungo che l’amore fosse un fenomeno inspiegabile, non l’amicizia. Sono invece in qualche modo faccende equivalenti, ne sono sempre più convinta, soprattutto andando avanti negli anni credo che funzionino in modo simile. Nascono spesso senza ragione ben specifica, sono sporche e lucenti di bene, hanno le stesse cocenti prospettive di delusione. Necessarie e vitali, salvifiche, possibili anche fra persone emulsionabili come l’olio e l’acqua. Certe amicizie ti fanno stare bene a prescindere dalle crepe, le divergenze e le incomprensioni. Inciampi che fanno parte del pacchetto, li accetti per amore dell’altro di cui hai bisogno – nei momenti sghembi – con la stessa intensità dell’aria, la stessa sete dell’acqua. Un vero amico sa farti respirare, riesce a dissetarti, spesso a stizzirti con i suoi difetti ai quali vai incontro modellandoti alle sue esigenze. Idem dall’altra parte. Questo venirsi incontro diventa perciò un bene comune, un tesoretto da condividere negli attimi di necessità. 

Riflettendoci su, credo che l’amicizia e l’amore fra persone troppo simili alla lunga possa spegnersi: difetti e pregi si sommano, amplificandosi fino a soffocare l’altro. La compensazione, quando le divergenze non sono troppe, è forse l’ingrediente segreto dei rapporti a lunga durata. 

Di Paolo ho la testardaggine, la pretesa di non aver bisogno di nessuno perché mi basterei da sola, il bisogno di trovare sempre un perché alle cose. Ho anche la sua memoria straordinaria, soprattutto per volti e nomi, la tendenza a non riuscire a superare le colpe, la capacità di essere accudente. 

Di Ernesto ho patito la stessa difficoltà a impormi in età adolescenziale e di conseguenza il rimpianto per non aver potuto frequentare il liceo artistico, ma per il resto non mi assomiglia granché. È adagiato nel suo dolore, in qualche modo rassegnato al destino, delega ad altri le sue responsabilità, è troppo accondiscendente: per terrore di ferire le persone finisce col fargli male il doppio. Io sono molto più diretta e mi spiace dipingerlo come un codardo; sotto sotto sono innamorata di lui. Le lettrici, invece, pendono tutte per il poliziotto. Colpa della faccia da mascalzone che gli ho attribuito, è un particolare piuttosto goloso. Confesso che a cena con loro due andrei volentieri, non fosse altro che per farli sorridere un po’. Glielo devo, li infilo sempre nel buio più cupo. 

Uno dei temi che arriva nitido attraverso i tuoi romanzi, è il concetto profondo dell’amicizia. Un legame che per Paolo ed Ernesto assume diverse sfaccettature. Si segna, si sbecca, si ferisce, si arricchisce di silenzi o di eccessive male parole ma, in qualche modo non finisce, magari si mette in pausa ma rimane sempre pronto a riprendere, magari più guardingo, però aspetta un segno, un gesto di distensione. Sempre. Cosa non deve mai mancare, per te, in un vero rapporto d’amicizia?

La fiducia, è imprescindibile secondo me. 

Entrando nello specifico di “Omicidio alla Garbatella”, tema caldo del romanzo è quello dell’immigrazione e dello sfruttamento sessuale, che tu qui con tatto, ma in modo deciso racconti, dando voce a Prudence, a cui hai permesso di raccontare la sua storia, che in realtà potrebbe essere la storia di molte altre ragazze. Raccontaci il tuo incontro con Prudence e il suo mondo e cosa ha significato per te questo viaggio.

Prudence l’ho incontrata circa sette anni fa, era una delle clienti di Ernesto in Silenzio (poi diventato I silenzi di Roma). Un cameo di poche pagine che decisi di tagliare, non erano funzionali alla prima indagine e meritavano un respiro più ampio. 

Per costruire tutta la trama sono partita proprio da lei: “Comincia da qui, Luana Troncanetti, comincia facendo qualcosa che pochi fanno non tanto nei romanzi quanto nella realtà: dà voce a una vittima.”, così scrive Andrea Cotti nella prefazione. Raccontare la sua voce è stato difficile, ho pensato spesso a Pru come a una figlia. Temevo di farmi influenzare dal mio sentimento, di renderla poco credibile attribuendole qualcosa di mio così come succede con altri personaggi. 

Durante le tante revisioni avevo quasi imparato a memoria il romanzo ad eccezione dei tre brevi capitoli in cui Prudence narra chi l’ha uccisa e perché. Sono gli unici che non ho riletto virgola per virgola prima di affidarli alle cure di Athena Barbera, la mia meravigliosa editor. L’ho fatto a distanza di tempo e mi sono sentita male, come se non conoscessi la sua storia. Allora ho capito di aver trovato il giusto equilibrio per renderla autonoma da me: è stata capace di commuovere la persona che per prima ha ascoltato la sua voce, di trasportarla nel suo viaggio per la seconda volta e di sorprenderla.    

In privato qualcosa ci siamo già dette, ma sia perché io voglio approfondire perché sono molto molto curiosa, sia perché mi farebbe piacere condividere con gli altri, molto semplicemente, vuoi parlarci di Gabriella, personaggio di contorno che però rende tutto ancora più bello e sincero, in pratica il personaggio, che all’interno di questa storia “fa”?

È in qualche modo la mentore di Proietti, una strega buona che sa annusare la sua malinconia, una che “fa”. Fa tanto per lui anche se scambiano soltanto poche frasi occasionali. Staziona spesso sotto casa di Paolo, è una clochard che intona le canzoni di Gabriella Ferri e regala bigliettini con stralci dei pensieri di Alda Merini a chi le dona qualche spicciolo. Poetica, struggente, folle, caustica come tutte le persone ferite a morte. Sarcastica, una peculiarità del mio popolo.  

Questo personaggio mi permette di mettere in luce due aspetti fraintesi o poco conosciuti della mia città: il primo è il linguaggio. Gabriella, al pari di Marzio il barista e Raffaele il meccanico, si esprime in romanesco stretto. Eppure dalla sua bocca non esce un improperio. Il suo parlare è scevro delle imprecazioni onnipresenti nei film di cassetta o sui meme dei social, altrimenti si sarebbe “romani a metà”. Non è necessario inserire volgarità gratuita per raccontarci: infilare mortacci tua random nei discorsi non è romanità, così come posporre la S a tutte le parole non riproduce la lingua spagnola. 

Il secondo aspetto è il proverbiale cinismo capitolino, una posa in molte circostanze. Il romano deve apparire cinico e il dileggio tagliente è spesso è un’arma di difesa per non scoprire troppo il cuore. Questa presunta cattiveria di fondo non ci impedisce di adottare i senza tetto nei vari quartieri. Ho chiesto un po’ in giro, sembra (lo scrivo con il beneficio del dubbio) che prendersi cura dei clochard rappresenti una realtà tutta romana, perlomeno in altre città il fenomeno non è così frequente.  

A Monteverde, per dirtene una, nel 2015 morì Evasio, er “mezza piotta”. Tutto il quartiere in lutto, si era spenta un’istituzione che con la sua Vespa aveva segnato l’infanzia dei quarantenni di allora. Accettava soltanto le 50 lire (a Roma la “mezza piotta”) e quel nomignolo gli è rimasto cucito addosso nonostante l’euro. La chiesa colma di gente “perché se lo meritava” e della sua condizione non si era mai vergognato. Vivere per strada era stata una sua scelta, trasferì un’idea di libertà a chiunque lo abbia conosciuto. Al suo funerale partecipò anche il presidente del Municipio XI, durante la funzione religiosa spese parole lusinghiere nei suoi confronti.  

Un ritratto e una piccola poesia dei Poeti e Pittori del Trullo raccontano Evasio come un uomo “Mai disadattato e nimmanco disadatto, dignitoso nel viver tua disdetta, accettanno l’aiuto e mai l’accatto. Mai più patirai er callo o er gelo mo’ che scorazzi libbero n’er cielo.”

(Mai disadattato e neppure adattato, dignitoso nel vivere la tua disdetta, accettando l’aiuto e mai l’elemosina. Non patirai più il caldo o il gelo, adesso che scorrazzi libero nel cielo.)

La prefazione del tuo nuovo libro porta una firma importante, ossia quella di Andrea Cotti, che ha interpretato a mio avviso benissimo il tuo lavoro ma anche te, scrivendo: “I bravi scrittori non raccontano solo storie, raccontano mondi. Raccontano cioè uno spazio che non è soltanto fisico, ma emotivo, sociale, umano. Ecco, Luana Troncanetti è una brava scrittrice e racconta un mondo, Roma, che tutti credono di conoscere, ma che pochissimi (compresi gli stessi romani) vedono oltre la pelle ammaliante della superficie.” Vuoi dirci cosa rappresenta per te questa città e, quanto è forte il tuo legame con lei?

L’amore resta forte anche se ho perso di vista il centro storico da tempo, è successo quando mi sono trasferita in un quartiere periferico circa 24 anni fa. La amo tanto da poter raccontare in modo (dicono) efficace i quartieri che ho frequentato più a lungo per studio o lavoro; i luoghi della mia infanzia e poi quelli della gioventù mi mancano in modo a volte doloroso. Roma è sicuramente cambiata da allora, in quale misura non so dirtelo con esattezza. 

Ci frequentiamo poco, ma il nostro legame posso raccontartelo così: tutte le volte in cui torno da lei, senza la fretta di dover andare al lavoro oppure a scuola e l’autobus è in ritardo, senza quella sensazione di soffocamento che ti dà una metropoli enorme al punto che nessun romano riuscirebbe a conoscerne ogni quartiere neanche vivendo mille volte, io mi commuovo. 

È di una bellezza devastante, resto a fissarla col naso all’insù e la bocca spalancata dei turisti. E non sto parlando soltanto dei monumenti, sarebbe banale. Mi riferisco a quel respiro lento del Tevere che ipnotizza, per esempio. Alle costole che sono rimaste al riparo dallo scorrere del tempo, agli angoli in cui esiste ancora il carattere più genuino dei suoi abitanti, ai posti dove si corre meno. Uno di questi luoghi è la Garbatella, l’ho riscoperta di recente e me ne sono innamorata come una pazza.

Soprattutto ne “I silenzi di Roma”, ma anche nel nuovo romanzo, quando si parla di cucina e di cibo in generale, con te si apre un mondo di sensazioni, un’esplosione di gusto che il mio io, di lettrice, percepisce in modo travolgente. Tu non solo descrivi, ma rendi quasi reale ogni passaggio tanto da arrivare a permettermi di percepire gusti e odori, e credimi, mi fai venire veramente fame e soprattutto una gola pazzesca. Tu scrivi noir, ma hai anche pubblicato un romanzo che si intitola “La cuoca”. So che ami stare ai fornelli. Come si conciliano queste due, assolutamente diverse, passioni?

Considero la cucina come una forma espressiva non troppo distante dalla scrittura, perlomeno non dalla mia. Difficilmente racconto come sono vestiti i miei personaggi, non ribadisco il colore dei loro occhi né la foggia dei capelli, non mi perdo in minuziose descrizioni sul come li “preparo”, non sciorino i loro ingredienti così come una cuoca non svelerebbe mai la sua ricetta. 

Provo a fare un’altra cosa: ecco, questo è il loro odore. Questo il sapore delle lacrime, qui invece c’è la dolcezza dei loro gesti, qui ancora l’aspro dei segreti e poi qui, se leggi fra le righe, anche se non te lo dico apertamente, puoi trovare la freschezza di un minuto di pace, la morbidezza dell’affetto materno, il croccante di un’amicizia bizzarra, il piccante di quei due che si rotolano nel letto.

Siamo giunti alla domanda che tutti temono in Thrillernord… scherzetto!!! Tu sei scrittrice, ma da lettrice quanto e cosa leggi normalmente? Vi è un genere che prediligi o ti piace spaziare qua e là seguendo l’ispirazione del momento? Fra gli autori di tuo gradimento, ce n’è qualcuno anche di provenienza nordica?

Il quanto varia in proporzione agli impegni, in linea di massima un romanzo a settimana (dipende dalla foliazione, in genere le 200 pagine sono la mia dimensione ideale ma se la storia mi prende arrivo anche a 600 senza problemi) se non sono costretta a leggere altro per mera documentazione. Quando sono sotto scrittura devo diradare un po’ il ritmo e ne soffro parecchio. 

Sul cosa ti dico che da sempre mi affascina un tema raccontato in tutte le declinazioni: saghe familiari, famiglie disfunzionali, romanzi di formazione in cui ci sia un elemento – non necessariamente un familiare ma qualcuno che faccia “famiglia” – responsabile dell’evoluzione di un personaggio.  I romanzi in cui la tematica diventa prevalente sono i miei preferiti. Appassionata quindi di un argomento, più che di un genere letterario.  

Alcuni titoli che posso menzionarti, diversissimi fra di loro: “Un albero cresce a Brooklin” di Betty Smith, “La casa degli spiriti” della Allende, l’incredibile “Trilogia della città di K” di Ágota Kristóf, “Middlesex” di Jeffrey Eugenides, “Bella mia” di Donatella Di Pietrantonio.

Leggo molto gli italiani, adoro gli autori della e/o (primi fra tutti Patrizia Rinaldi, Luigi Romolo Carrino e Sasha Naspini), mi piacciono le ambientazioni che posso in qualche modo riconoscere ed è per questo che mi sposto di rado all’estero, non sono particolarmente affascinata dai gialli classici mentre amo il noir. Due generi che ho provato tanto a leggere, senza grande successo, sono il fantasy e il romance. 

Amo le biografie, soprattutto quelle di personaggi storici distanti dalla nostra epoca, apprezzo l’umorismo ben scritto e l’ho trovato spesso nei lavori auto prodotti, più che negli scritti griffati dalle grandi case editrici. Mi piace molto l’erotico raffinato. Fra i romanzi classici prediligo la produzione inglese. Apprezzo visceralmente i racconti brevi: mi appassiona leggerli e adoro scriverli. 

Sui nordici sono scarsina, fra le mie letture posso annoverare soltanto la trilogia “Millenium” di Stieg Larsson e un paio di romanzi di Jo Nesbø. Verrò pertanto bandita per sempre dal gruppo Facebook e questa intervista (rido) non verrà mai pubblicata per incompatibilità di gusto letterario. 

A nome mio e di Thrillernord, grazie per il tempo che ci hai dedicato.

Loredana Cescutti

Il tuo interesse alla mia penna, Loredana, è stato splendido. Il tempo che vi ho dedicato è il minimo per ricambiare quello che tu hai donato a me. 

Luana Troncanetti 

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