Intervista a Massimo Cuomo




A tu per tu con l’autore


 

Innanzitutto benvenuto su Thrillernord a Massimo Cuomo, una delle mie ultime scoperte letterarie di cui sono più felice. Casa è dove fa male, edito E/O, è sicuramente uno dei migliori romanzi che mi sia capitato di leggere negli ultimi mesi. Ma nella recensione ho già parlato fin troppo bene sia del romanzo che del suo autore, tutte considerazioni meritatissime, quindi non mi perderò in chiacchiere e darò subito il via a una spero piacevole chiacchierata con l’artefice di questa deliziosa storia.


Non posso non cominciare dal principio. Da generazioni e generazioni ci tramandiamo il modo di dire “Ah, se queste mura potessero parlare…”, lasciando intendere che tutti, chi più chi meno, ci portiamo dentro casa i nostri segreti inconfessabili. Come ti è venuta l’idea di dare la parola all’appartamento, possessore per eccellenza di segreti?

A un certo punto, credo, ho avuto la sensazione di essere osservato. Ma ero solo, non c’era nessun altro con me. Allora ho cominciato a riflettere sulla possibilità di essere osservato dalla casa in cui vivo. E sulla possibilità che le case, i muri, oltre a guardare possano persino raccontare quello che guardano. Ricordo che in quel momento stavo pensando a una storia un po’ diversa, in cui lo sguardo della casa sarebbe stato solo un aspetto laterale. Poi questa idea ha preso il sopravvento: ho capito che mi interessava troppo esplorare questa possibilità e ho fatto diventare lo sguardo degli appartamenti sugli uomini, le donne e gli animali che li abitano il centro del racconto. Un pretesto letterario che mi ha concesso la straordinaria libertà di narrare solo il peggio: l’umanità che descrivo non è sempre sbagliata; è il palazzo, il narratore, che ci tiene a mostrare solo certi momenti. E se il lettore accetta il patto iniziale – che un condominio possa avere voce e pensieri e sentimenti – allora tutto quello che gli verrà raccontato, sebbene sul filo dell’inverosimile, risulterà credibile.

Nel tuo romanzo hai affrontato con sorprendente maestria svariati mali oscuri dell’animo umano: dalla solitudine alla depressione, dall’abbandono alla depravazione… Che tipo di lavoro hai fatto per riuscire a rendere tutto così credibile? O meglio, tutto così incredibile da risultare così estremamente credibile.

Mi limito a vivere e osservare la vita con sguardo attento ai dettagli e una sensibilità che mi costringe a tenere gli occhi puntati su certi guasti dell’esistenza umana. E’ una forma di rispetto che sento per la vita, per cui mi interrogo costantemente sulle vie che ci portano a rovinarla, sprecarla vivendo senza rischiare nulla e senza sognare o, peggio ancora, a distruggerla. Quando poi tocco certi argomenti, facendoli incarnare a un personaggio specifico, mi sforzo semplicemente di rendere quel personaggio il più coerente possibile col messaggio che veicola. Ma non c’è uno studio o una tecnica particolare: lo descrivo come sento che sia giusto, in genere riprendendo le caratteristiche di qualche persona vera, viva, di cui ho registrato le anomalie.

Il linguaggio che hai usato in questa tua ultima opera è un linguaggio spesso cinico, a volte quasi triste, ma sempre molto lucido. Quanto ti appartiene, nella vita vera, questo cinismo?

Il linguaggio delle mie storie è quasi sempre funzionale alla narrazione. Volevo che la voce narrante apparisse altèra nelle riflessioni e nelle parole stesse che sceglie di usare, per passare al lettore, tra le righe, la sensazione di partecipare alla confessione di un entità superiore.

La malinconia è invece un sottofondo costante nelle cose che penso e che scrivo anche quando utilizzo la chiave dell’ironia, come lo è quando vivo i momenti di maggiore divertimento e felicità, perché ne percepisco la fine nel momento in cui avvengono e per questo sono così preziosi.

Il cinismo mi appartiene nella misura in cui analizzo tutto quello che mi sta intorno e che mi accade cercando di capirne il senso più autentico, senza accettare passivamente le convenzioni sociali. Solo in questo modo, arrivando al nocciolo delle questioni, mi sembra di dare un senso alla mia vita. E forse solo in questo modo riesco a mettere su carta certe storie. 

Leggo nelle tue note biografiche che hai dedicato alcuni anni della tua vita al giornalismo. Molti giornalisti, soprattutto di cronaca, a un certo punto della loro carriera decidono di iniziare a raccontare le proprie storie e non più quelle dettate dagli altri. A te cosa ha spinto a fare questo salto da giornalista di cronaca a scrittore di romanzi?

Sono sempre stato uno scrittore, anche quando facevo il giornalista. Per questo in redazione mi tagliavano sempre le parti che preferivo, quelle in cui mi lasciavo andare all’espressione letteraria che, per la fredda cronaca, non andava bene. Ricordo che mi gettavo sulla cronaca nera con fame, curiosità, scavando nelle tragedie delle persone con rispetto e partecipazione. Ma poi ho cominciato a sentire che raccontare il fatto nudo e crudo non mi bastava e che sui giornali le emozioni che mi venivano concesse sembravano pettegolezzi. Nei romanzi la vita, cesellata con fantasia e uno stile efficace, diventa più vera.

Sono sempre molto curiosa di scoprire i gusti degli scrittori che mi conquistano. Ti va di parlarci delle tue prime letture, dei tuoi scrittori preferiti, di un episodio particolare, se c’è, che ti ha spinto a scrivere la tua prima storia?

È sempre una domanda un po’ scomoda perché ho cominciato a leggere tardi e mi sento ancora molto indietro, ma la mia risposta è sempre la stessa: il primo romanzo che mi ha fatto venire voglia di leggere e poi di scrivere è stato “Due di Due” di Andrea De Carlo. Lo lessi al liceo e mi riconobbi d’istinto nel protagonista, Guido Laremi. Molti anni dopo pensai che fosse arrivato il momento di  provare a scrivere qualcosa. Fui spinto dalla voglia di vedere un mio romanzo in libreria e soprattutto di fare i conti con un tratto della mia vita, i trent’anni, che avevo vissuto intensamente. Un paio di anni dopo il mio primo libro venne pubblicato e arrivò fra le mani di un lettore sconosciuto, che mi scrisse: “Era dai tempi di Guido Laremi che non mi affezionavo così al protagonista di una storia”. Mi parve un buon segno. 

Domande te ne farei ancora a decine ma dobbiamo purtroppo chiudere qui questa intervista. Ti ringrazio di cuore per la tua disponibilità, ti rinnovo i miei complimenti e ti lascio la parola per salutare i lettori di Thrillernord e per parlarci, se ci sono, dei tuoi progetti futuri. 

Dovrei rimettermi a scrivere, ma intanto continuo a ragionare su quale dovrebbe essere la prossima storia da raccontare, che è forse la parte più delicata e importante per me. Continuo a curare una rassegna letteraria all’interno di un importante gruppo bancario. Soprattutto, da oltre un anno lavoro a Romanzi.it, la mia Start-up: con altri tre soci abbiamo lanciato la prima “subscription box” di romanzi: in sintesi, ogni due mesi inviamo ai lettori una scatola bellissima, dedicata a un editore italiano, con due o tre romanzi sorprendenti che scegliamo insieme a un gruppo di librerie a cui doniamo parte degli utili.

Massimo Cuomo 

 

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