Intervista a Salvatore Lecce e Cataldo Cazzato




A tu per tu con gli autori


Com’è nata l’idea di iniziare a scrivere a quattro mani? Continuerete a farlo anche in futuro?

L’inizio del nostro sodalizio di scrittura è nato quasi per caso, una decina di anni fa. Entrambi avevamo un sogno da cullare, un bel romanzo da scrivere, ma ci sembrava una montagna troppo ardua da scalare. Animati da una passione speciale per la letteratura, abbiamo unito le forze ed è così nata la nostra prima opera, un romanzo d’avventura imperniato sulla figura di Alarico, re dei Visigoti. L’inversione di genere si è consolidata con il trascorrere degli anni, di pari passo con il desiderio di misurarci nella stesura di storie a tinte giallo e noir. I risultati conseguiti, frutto di una costante e attenta perseveranza nel lavoro, sono stati più che lusinghieri, benzina importante per continuare verso il raggiungimento di traguardi sempre più ambiziosi.

La via del silenzio è un thriller particolare perché trae spunto dalla vicenda del serial killer Ted Bundy, come mai avete deciso di ispirarvi a un assassino realmente esistito?

Come abbiamo evidenziato negli approfondimenti in appendice a “La via del silenzio”, la storia è “vagamente” ispirata a quella del sanguinario assassino seriale statunitense, certamente per l’efferatezza dei delitti commessi e per la tipologia delle vittime selezionate. Per quanto riguarda modus operandi e firma, abbiamo preferito lavorare di fantasia, come di fantasia risultano anche impianto narrativo e i personaggi che vi gravitano attorno. Ciò non toglie che tutti gli scrittori, in un modo o nell’altro, si lasciano suggestionare dai fatti di cronaca nera. Basarsi su storie realmente accadute, infatti, conferisce maggiore credibilità e verosimiglianza alle opere che si intendono presentare ai lettori.

È molto difficile non provare empatia nei confronti del capitano Coleman visti anche i suoi trascorsi familiari, com’è nato il suo personaggio?

Coleman è un normalissimo padre di famiglia, a cui la vita ha riservato il dolore di perdere una persona cara. Ci piaceva l’idea di un uomo che dividesse i suoi problemi di lavoro con la vita privata, un uomo credente in Dio, la cui fede, circuita dal male, a un certo punto comincia a vacillare.

Nel romanzo si fa spesso riferimento a Dio e alla fede, voi siete credenti?

Sì, lo siamo. Ognuno di noi, anche chi sostiene di non credere in nulla, ha bisogno di aggrapparsi a cose ultraterrene, soprattutto nei momenti in cui si è costretti a confrontarci con le difficoltà, quali la malattia o la solitudine, per citarne alcune. Ci sono spiegazioni che a volte non riusciamo a comprendere, come ad esempio l’essenza stessa dell’esistenza. E il personaggio del capitano Coleman rientra appieno nel ritratto del buon cristiano.

Altro tema del libro sono i vari episodi di bullismo, secondo voi si riuscirà un giorno ad arrivare alla cessazione di queste vicende imparando finalmente ad accettare le persone per quelle che sono?

È difficile. Soprattutto in età adolescenziale non si ha la piena maturità per capire certe diversità, anche quando queste derivano da contesti sociali di disagio, senza dimenticare poi quello familiare, là dove determinati comportamenti vengono taciuti nel tempo, spesso per paura o vergogna. È proprio in questo tessuto educativo lacerato, infatti, che trovano terreno fertile i meccanismi psicologici destinati a delineare la personalità disturbata dei serial killer.

C’è una domanda di rito, alla quale nessun autore può sottrarsi… conoscete il genere del thriller nordico? C’è un autore in particolare che seguite?
Lo conosciamo e lo troviamo oltremodo affascinante. Crediamo che Jo Nesbø sia l’autore più rappresentativo del genere, quello che in particolare ci ha colpito per ritmo narrativo, personaggi e completezza delle trame.

A cura di Anna Grippo

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