Intervista a STEFANIA FORLANI




Le interpreti dallo svedese all’italiano non sono molte, ma noi abbiamo avuto l’opportunità di poter intervistare Stefania Forlani. Innamorata da sempre delle lingue, e con la passione per la linguistica, si occupa di traduzioni tecniche e letterarie. In passato ha lavorato presso importanti società informatiche, presso clienti come banche, assicurazioni, industrie e case editrici. Nel 2003 ha cominciato lo studio delle lingue laureandosi in svedese ed inglese e acquisendo inoltre una buona conoscenza passiva del danese, norvegese e spagnolo.
La passione per la ricerca linguistica l’ha portata dapprima a studiare gli Svedesi negli Stati Uniti, e attualmente a Berna per un dottorato di ricerca incentrato sugli Italiani in Missouri.

 

 

 

1) Come si diventa traduttore? O meglio, come lo sei diventata tu? Quando hai capito che questa era la tua strada? Quali difficoltà hai dovuto superare per riuscire ad affermarti in questo campo?

Io mi sono avvicinata alla traduzione quando ancora facevo un lavoro totalmente diverso. Le lingue mi hanno sempre appassionato, ho una fissazione per la linguistica, ma lavoravo in tutt’altro settore. Un giorno ho saputo che un’associazione culturale locale cercava volontari per tradurre un libro, la biografia di un’emigrante italiana negli Stati Uniti. Eravamo tutti dilettanti e il lavoro che venne fuori non era di prima qualità, ma io e altri due poi facemmo la revisione, e infine un editor professionista lo uniformò. Quella è stata la prima volta che ho tradotto qualcosa, ed è stato lì che mi sono resa conto che mi piaceva moltissimo entrare in un testo, inglese in questo caso, e trasportarlo in italiano. Mi sono quindi iscritta all’università e poi ho inviato lettere e curriculum alle case editrici, riuscendo per prima cosa fare schede di lettura. Non è stato semplice, e io non posso definirmi una traduttrice affermata, ad oggi. Ricevere una risposta dalle case editrici è molto difficile: inviare i curriculum, anche con lettere di presentazione ben articolate o con proposte di traduzione, non ottiene quasi mai effetto. Vale molto di più il passaparola e avere la fortuna di essere disponibile al momento giusto.
2) La tua tesi di laurea triennale era incentrata sul linguaggio usato nella serie TV “I Soprano”. Come mai questa scelta? Quali aspetti hai trovato più interessanti?

Ho diverse passioni, nate sempre per via del primo libro che ho tradotto (“Rosa, the life of an Italian immigrant” di Marie Hall Ets). M’interessa la storia dell’emigrazione, e anche la mia tesi magistrale è incentrata su questo argomento. Gli Stati Uniti sono uno dei paesi più importanti, da questo punto di vista, perché l’ondata migratoria verso gli USA è stata imponente. “I Soprano” è una delle serie televisive di maggior successo degli ultimi tempi, e io sono anche un’accanita spettatrice di serie televisive, non solo americane. Quindi mi è venuto spontaneo unire tutte le mie passioni e per la tesi ho analizzato i dialoghi di questa serie televisiva. Ho trovato molto interessante anche il “non detto” ovvero tutto l’insieme di gesti e di espressioni che comunicano qualcosa pur senza le parole. Nel caso della serie c’è tutta la gestualità associata tipicamente agli italoamericani e in particolare ai mafiosi. È stato interessante anche analizzare le parole italiane usate dai personaggi, poiché questa serie è molto realistica.
3) Vuoi dirci, in breve, quali libri hai tradotto? Generi diversi, lingue diverse

Sebbene a me interessi molto la saggistica, in realtà ho tradotto perlopiù romanzi gialli, dallo svedese. Dopo Stieg Larsson sono diventati molto di moda e ci sono scrittori molto prolifici, anche se poi non tutti i loro romanzi vengono tradotti in italiano. Ad esempio, Anna Jansson ha scritto diversi libri gialli, ma solo i primi due sono stati tradotti in italiano. E il traduttore non ha voce in capitolo, da questo punto di vista. Ho anche tradotto dialoghi per una miniserie TV: è un lavoro totalmente diverso e ha ritmi più veloci rispetto alla traduzione editoriale. A me è piaciuto moltissimo e spero di poter ripetere l’esperienza.
4) Dallo svedese hai tradotto anche libri per bambini (“Dio probabilmente non esiste” e “La gita di classe”). Trovi che ci sia differenza nel modo in cui gli scrittori svedesi si approcciano ai bambini, rispetto a quelli italiani o inglesi?

“La gita di classe” (Moni Nilsson, ed. Qudulibri), è frutto di una traduzione in collaborazione con altri traduttori e aspiranti tali durante un laboratorio durato un anno, e finanziato da Kulturrådet (Swedish Arts Council) e FILI (Finnish Literature Exchange), incentrato proprio sulla letteratura per bambini. “Dio probabilmente non esiste” (Patrik Lindenfors, ed. Nessun Dogma), invece, non è un romanzo, come si evince dal titolo, ma un saggio che spiega le religioni e l’ateismo ai bambini, in maniera molto elementare. Non posso dire di essere un’esperta di libri per bambini: le mie letture relative alla letteratura per l’infanzia si fermano ai grandi classici, italiani e inglesi, che ho letto da bambina. La particolarità degli scrittori svedesi, secondo me, è quella di sapersi mettere nei panni dei bambini e ragazzi, di rivolgersi a loro in un tono meno didascalico, non dall’alto in basso. Però non sono al passo con i tempi per quanto riguarda gli scrittori italiani, perciò può essere un’impressione errata.
5) Quali sono secondo te i traduttori italiani “storici”, che hanno fatto scuola, da cui c’è sempre qualcosa da imparare? (Esistono dei premi dedicati alla traduzione?)

Il primo traduttore che mi viene in mente, perché mi ha fatto conoscere Stephen King e l’America, è Tullio Dobner. Non ci ho mai interagito e tantomeno parlato, ma è grazie a lui che ho potuto leggere Stephen King quando non sapevo l’inglese, immergendomi in quelle atmosfere tipicamente americane dei suoi libri. Però secondo me c’è sempre da imparare da tutti i colleghi. Una delle cose più importanti è lo scambio, quando ci si sente arenati su un particolare termine o su una frase. Ci sono mailing list dedicate ai traduttori ed è sempre incredibile vedere come, quando qualcuno ha un dubbio, decine di colleghi rispondano offrendo soluzioni diverse, tra cui quella a cui non si era arrivati. Siamo fortunati a vivere in quest’era dove è così facile comunicare.
6) Ti capita di consultarti con gli autori dei libri che traduci, per capire meglio? Vuoi raccontarci qualche episodio particolare?

Sì, mi è capitato. Un episodio simpatico è stato durante la traduzione di “La casa segreta in fondo al bosco” di Christoffer Carlsson. Il libro era abbastanza facile dal punto di vista terminologico, ma poi sono arrivata a un punto in cui si parlava di un pittore, della sua vita e delle sue opere, descrivendole in maniera molto dettagliata. Carlsson usava termini tecnici relativi alla pittura e all’arte e quindi ho dovuto cercare parecchio nei glossari online, perché il dizionario svedese-italiano è molto generico e tradurre dallo svedese comporta molta più fatica che tradurre dall’inglese. Insomma, alla fine non trovavo notizie su questo pittore e sulla sua vita, né in italiano né in inglese. Mi è venuto il dubbio che fosse tutto inventato e così ho chiesto conferma all’autore che sì, mi ha confermato che il pittore non esisteva, era frutto della sua fantasia. Molto ben riuscito, devo dire. Alla fine mi ha fatto i complimenti per il mio lavoro.
7) Sei d’accordo con questa affermazione di Claudio Magris sul lavoro del traduttore “Bisogna essere capaci di piccole infedeltà materiali per raggiungere una fedeltà più profonda”?

Sì, senz’altro. Lo dice anche Eco nel suo “Dire quasi la stessa cosa”. È difficile spiegare a chi proprio non sa niente di traduzione che certe cose non sono errori di comprensione o infedeltà, ma sono scelte, in alcuni casi volute, in altri forzate, che servono allo scopo di rendere meglio l’idea generale, a essere più fedeli al testo.
8) Difficilmente i lettori leggono un libro in due traduzioni diverse; ti è capitato di pensare che una traduzione fosse fatta male (non vogliamo certo i nomi! Vogliamo solo capire se a un ‘orecchio’ allenato saltano agli occhi (perdona il gioco di parole) forzature nella traduzione).

Mi è capitato di trovare errori d’interpretazione di qualche frase, che mi suonava strana in italiano ma che, conoscendo la lingua di partenza (inglese o svedese) riuscivo a ricostruire. Però traduzioni di libri fatte male non ne ho mai lette.
9) C’è qualche autore di lingua svedese o inglese non ancora tradotto in Italia che hai letto e che ritieni adatto ai lettori italiani (tieni conto che noi siamo appassionati di thriller…)?

No, nel senso che quando vedo qualche autore che mi colpisce, poi scopro che qualche casa editrice italiana ha già comprato i diritti, perché è il loro mestiere, in fin dei conti, quello di essere sempre a caccia di nuovi scrittori.
10) Quale autore italiano vedresti bene nelle librerie svedesi/americane?

I miei scrittori italiani preferiti sono quelli dei classici: sono tutti morti, e sono già stati tradotti all’estero. L’unica che mi sembra sconosciuta all’estero, e che io ho a cuore, è Bianca Pitzorno. Un suo libro del 1979, “Extraterrestre alla pari”, mi ha aperto gli occhi sui ruoli che la nostra società ci assegna, ed è ancora molto attuale quasi quarant’anni dopo. Mi piacerebbe che fosse tradotta.
11) Quanto ti aiuta viaggiare per migliorare nel tuo lavoro? Svezia, USA, Italia: che differenze hai riscontrato nel rapporto con i libri e la lettura in genere?

Viaggiare aiuta, sì. Aiuta linguisticamente ma soprattutto aiuta a capire la cultura del posto, e intendo “cultura” nel suo significato più ampio. Per quanto si sappia bene una lingua, è solo andando sul posto che ci si rende conto di certe usanze, comportamenti, particolarità di quel luogo che poi tornano utili nella traduzione. Com’è fatto un diner? Com’è fatta una chiesa svedese? Io ho bisogno, quando traduco, di visualizzare e immaginarmi la scena. Devo poter ricostruire. Mi piace viaggiare in posti non turistici. Mi piace vedere come sono fatti i supermercati, cosa compra la gente, come sono le case all’interno, le scuole, gli ospedali. Mi piace mischiarmi agli abitanti del luogo e osservare come si comportano, essere una di loro per il periodo in cui sono lì. E queste cose poi tornano utili. Per mia esperienza personale, mi pare che gli italiani leggano molto meno delle persone di pari fascia sociale in Svezia e Stati Uniti. Lo deduco dalle discussioni che ho modo di fare con i miei conoscenti. O forse leggono peggio. Però è difficile dare un parere: nonostante io sia quotidianamente in contatto con diversi stranieri non è detto che siano un campione significativo dal punto di vista statistico. I dati sulla lettura in Italia, però, non sono confortanti, anche se ho letto recentemente un articolo che smentisce questa convinzione, affermando che i lettori sono stabili ma è il mercato editoriale ad essere saturo di libri.

 

Intervista a cura di Elisa Puntelli e Maria Sole Bramanti