ZOCCA NOIR. Intervista a Valerio Varesi




ZOCCA NOIR

 

La due giorni in Appennino, dedicata al romanzo di genere

 

Leggere la realtà con uno sguardo noir, passarla al setaccio e offrire delle risposte attraverso la lente attenta della narrazione d’indagine (e non solo). È questo l’intento della Festa Cantiere Zocca Noir, organizzata dal Comune di Zocca e dall’Associazione “Giardino filosofico e inventificio poetico”, giunta quest’anno alla sua quinta edizione.

La scelta del termine “cantiere” non è affatto casuale – sottolinea Loriano Macchiavelli, nel discorso di apertura del festival – perché non si tratta solo di un’occasione per presentare romanzi eccellenti, quanto piuttosto di un momento di discussione e confronto (anche informale, durante i “Pranzi con l’autore”), per comprendere meglio il mestiere dello scrittore e le dinamiche attraverso cui il romanzo di genere si fa specchio e metafora dell’attualità.

Se poi vogliamo allargare il perimetro e mantenere una visione aperta del mondo, “in fondo tutto è noir” – osserva Sabina Macchiavelli. – “Non solo la letteratura, ma anche la musica, la fotografia, la Storia”. Ecco perché la Festa si apre con l’inaugurazione di “Sguardi Noir”, una collettiva per ospitare le mostre fotografiche di Fabrizio Carollo (“The Dark Kingdom”) e di Roberto Cerè (“In viaggio fra me e te”). Ecco perché include anche il concerto del bluesman Roberto Menabò, con la narrazione in musica delle sue “Mesdames a 78 giri”.

Tanti (e complessi) i temi affrontati in questa intensa due giorni nell’Appennino modenese, tanti i punti di contatto tra gli ospiti di Zocca Noir, dal padrino del Festival, Loriano Macchiavelli, a Ilaria Tuti e Andrea Cotti, da Antonio Pennacchi a Valerio Varesi. Come l’importanza di ricordare la Storia e il nostro passato, per trovare un’alternativa nel presente. Come la presa di coscienza che il male non si annidi solo nelle grandi metropoli, ma anche nelle piccole comunità. E poi, ancora: l’analisi dei meccanismi che scatenano la paura, la comprensione del reale, il non sottrarsi alla ricerca della verità, intesa come responsabilità civile.

Se l’obiettivo del Festival era quello di fare cultura, di sdoganare un genere, di avviare una riflessione sulla parte più oscura – noir, appunto – della Storia, della società e dei nostri tempi, se l’obiettivo era lavorare insieme per cercare una chiave di lettura, per capire meglio la realtà a partire dalla scrittura (e dalle altre arti), coinvolgendo nel dibattito tanto gli ospiti quanto il pubblico, non abbiamo dubbi: è stato raggiunto.

 

Photo Credits: Roberto Cerè

Gallery su Millecolline: www.millecolline.it/wordpress/2019/07/12/zocca-noir/

Zocca Noir: http://festacantierezoccanoir.blogspot.com/

 

 


LE INTERVISTE

Valerio Varesi

Sei un giornalista e uno scrittore. Quanto l’una cosa influenza l’altra, e in che modo?

Io penso che tutti quelli che scrivono si ispirino alla realtà. D’altra parte, la narrativa, la letteratura nasce dall’osservazione della realtà. Ne ricava in qualche modo un distillato. Perciò il lavoro che faccio al giornale mi porta a conoscere delle storie e dei personaggi che sono molto interessanti. Quando una storia è particolarmente emblematica del nostro tempo, la prendo e la faccio mia. La manipolo, perché poi il lavoro dello scrittore, al contrario di quello del giornalista, non è quello di informare, ma di deformare. Metto insieme le storie, faccio un collage dei personaggi. Secondo me gli scrittori sono tutti “ladri di vite altrui”, e anch’io lo sono. Conrad diceva che era difficile convincere la moglie che mentre guardava dalla finestra stava lavorando, no? In effetti è l’osservazione della realtà che ispira un sacco di storie, di vicende. Tutti gli scrittori si comportano in questo modo, io faccio anche un mestiere che mi facilita in questo senso. Il caso di Igor il Russo era una storia perfetta per raccontare la paura, la genesi della paura e le conseguenze della paura, che poi è una delle cifre del nostro vivere. Io non faccio la nera, ma ho seguito la vicenda, me la sono fatta raccontare dai miei colleghi. Che magari non scrivevano certe cose sul giornale, perché non era necessario, perché non potevi provarle. Però tutto questo materiale che non è stato pubblicato mi ha interessato molto, anche per inquadrare la figura di questo individuo.

 

 

 

Il tema del romanzo, lo dicevi prima e lo rivela anche il titolo [La paura nell’anima, N.d.R.], è la paura. E trovo che questo sia un argomento di straordinaria attualità, in un momento in cui la paura è spesso strumentalizzata. Nel tuo libro descrivi la paura nella vita di paese, che mina la fiducia e le relazioni tra le persone nel quotidiano, ma anche la paura che viaggia via social network. Come sei riuscito a rendere così bene l’atmosfera della paura?

Perché sono partito dal fatto che una comunità tranquilla, come poteva essere quella di Budrio, perturbata da una presenza estranea, potesse in qualche modo creare quello che è il sospetto. Mentre negli anni Settanta e Ottanta c’era sì la paura dello stragismo, delle bombe – e si sa che la paura è uno instrumentum regni, vale a dire: ti tengo sotto scacco per introdurre regole più limitanti della tua libertà – ma la violenza era una violenza politica, l’avversario era bene individuato. Nel caso di Igor non è così. Igor non si è mai visto, per due mesi hanno dato la caccia a un fantasma. E proprio il fatto che fosse un fantasma lo rendeva ancora più inquietante, perché non vederlo lo rendeva ubiquo. Il sospetto ha finito per rendere la comunità una comunità di persone paurose e diffidenti, corrompendo i rapporti sociali. Ti chiedi, ad esempio, perché il vicino compri più pane: forse ha qualcuno a cui deve dare da mangiare. Quello che va in farmacia e compra le bende, perché le compra? Quell’altro che parla una lingua straniera, con chi sta parlando? Poi c’è tutto l’apparato di precauzioni introdotte dalla militarizzazione: i posti di blocco, il consiglio di non uscire di sera. La paura è fatta di queste piccole cose. Come diceva un verso di Bertolucci: “assenza più acuta presenza”. Quello che ci fa più paura è proprio quello che immaginiamo, la paura è un fermento del nostro cervello, non l’atto di sangue in sé. E io ho cercato di renderla in questo modo. Poi questo è un bandito molto moderno, per cui sfrutta anche i social, si fa i selfie nei centri commerciali dove c’è il wi-fi e lo mette su Facebook. Il carabiniere vede solo un’immagine virtuale e questo è ancora più frustrante, perché il “cattivo” c’è, ma non si riesce a catturare.

 

Photo Credits: Roberto Cerè

L’abbiamo detto anche prima, il tuo romanzo – come quelli di Ilaria Tuti, come Il delitto di Agora di Pennacchi – è ambientato in un paesino. Da un lato sembra che questi paesi diventino un po’ la metafora del Paese – Italia, dall’altro in queste realtà piccole, claustrofobiche, succedono crimini più efferati che nelle metropoli. Perciò ti chiedo, questa ambientazione è stata funzionale proprio per descrivere nel modo che ci hai raccontato i meccanismi della paura o c’è dell’altro?

C’è anche un po’ dell’altro, perché volevo allontanarmi dalla cronaca nuda e cruda. Il caso di Igor si svolge tutto nella bassa tra Bologna e Ferrara, io ho voluto trasferirlo in un paesino di montagna, in una comunità ancora più chiusa. Ma quello che succede nelle comunità chiuse è più significativo, perché più sorprendente. L’elemento della paura è più accentuato, dal fatto che non te lo aspetti. Poi la gente si conosce, non è come nelle grandi città, e questo ti lascia ancora più sgomento. E comunque le piccole comunità, da un punto di vista narrativo, si prestano al fatto di essere esperimenti in vitro: se succede nel piccolo, succede anche nel grande. È chiaro che nelle metropoli il male è stato più metabolizzato, le persone già di per sé sono diffidenti verso l’altro. Per questo credo che le piccole comunità si prestino per esperimenti di questo genere. Funzionano proprio narrativamente.

 

 

 

Hai detto in diverse occasioni che l’indagine poliziesca, ti serve in realtà per parlare di altro. È questa la potenzialità che vedi nel noir?

Penso che costruire oggi un giallo classico, conandoyliano, sarebbe fuori dal tempo, e anche un po’ scontato. Le grandi trame sono tutte già state inventate. Pensa all’Edipo Re: che trama si può inventare più complessa di quella? Ci sono poi i “gialli – non gialli”, romanzi straordinari come Delitto e castigo. Secondo me la strada giusta per la letteratura noir dovrebbe essere quella di rappresentare l’oggi. La vedo come genere narrativo molto dentro la realtà. Prende l’indagine come struttura narrativa, ma l’oggetto dell’indagine non è solo il delitto, è anche molto altro, tutto quello che sta attorno al delitto. Quello che Gadda chiamava “la depressione ciclonica”, tutta una serie di altre forze che fanno sì che il delitto accada, al di là del libero arbitrio di chi uccide. A me interessa più sapere perché qualcuno uccide, che chi è stato a uccidere. Mettendosi da questo punto di vista, che è quello del noir, esce fuori un’altra visione della realtà. Il contesto di Sciascia, le ragioni sociali, le ragioni psicologiche. E queste ragioni hanno a che fare con un’epoca, con un tempo. Allargando il perimetro finisce per essere un romanzo sociale. Ecco, secondo me il noir oggi copre quel vuoto che si è creato dopo gli anni Settanta, quando il romanzo ha un po’ abbandonato l’impegno dentro la realtà per dedicarsi ad altre tematiche. Poi, a partire dagli anni Novanta, la migliore accezione del noir ritorna a essere quello che era il romanzo della realtà. Pasolini, ad esempio. Secondo me è questa la strada che deve percorrere questo tipo di narrativa, per essere al passo coi tempi. Sciascia, Scerbanenco, Gadda – o se andiamo all’estero, Izzo, Chandler, eccetera – raccontavano tutti il loro tempo. Io non credo in una letteratura sganciata dalla realtà, tutte le grandi opere hanno parlato del loro tempo e cercato di interpretarlo. Tirarsene fuori non ha senso.

 

Photo Credits: Roberto Cerè

Parliamo ora del tuo personaggio. Quanto c’è di Valerio Varesi nel commissario Soneri?

Ce n’è parecchio. Le nostre vite non coincidono, ma il mio punto di vista è molto simile al suo. Diciamo che gli ho dato la mia visione del mondo. Del resto, per me era più facile. Se avessi creato un personaggio del tutto diverso da me, avrei dovuto fare uno sforzo in più per entrare nella sua testa. Sarebbe stato più faticoso. Comunque, al di là di questo, ci tenevo proprio a trasmettergli quello che penso io… Secondo me un romanzo deve avere tre caratteristiche: un plot narrativo, che è utile, anche se non indispensabile, possibilmente dei personaggi che rimangano impressi, e la terza cosa è la visione della realtà dell’autore. Voglio che uno scrittore mi trasmetta la sua visione del mondo, che cosa pensa. Poi magari non sono d’accordo, ma voglio capire cosa pensa, che ci sia un impegno interpretativo.

 

 

 

Che effetto ti ha fatto vederlo interpretato in “Nebbie e delitti” da Luca Barbareschi?

Mi ha dato molta soddisfazione, è inutile negarlo. Fa sempre piacere vedere le proprie storie, i propri personaggi, trasferiti in un altro linguaggio. E fa piacere soprattutto perché i libri non hanno una grande penetrazione dal punto di vista del mercato, mentre la televisione arriva a più persone. Nel mio caso, quindi, è successo che le mie storie e il personaggio di Soneri sono conosciute nell’immaginario collettivo, il sottoscritto molto meno. D’altro canto, è anche vero che c’è una forma di gelosia, rispetto a quello che si è scritto. Fisicamente non mi immaginavo così Soneri, perché Barbareschi è un uomo attraente. Da un punto di vista interpretativo, invece, è stato bravissimo, l’ha reso come un personaggio chandleriano. E mi è piaciuta anche l’ambientazione delle prime due stagioni, con la nebbia… Certo, il contenuto è stato un po’ semplificato, pastorizzato diciamo, hanno reso la trama più lineare per adeguarla al linguaggio televisivo e al pubblico.

Valerio Varesi

 

A cura di Chiara Alaia

 

 

Valerio Varesi


Valerio Varesi, nato a Torino nel 1959, vive a Parma e lavora nella redazione de la Repubblica di Bologna. Romanziere eclettico, è il creatore del commissario Soneri, protagonista dei polizieschi che hanno ispirato le tre serie televisive Nebbie e delitti con Luca Barbareschi. I romanzi con Soneri sono stati tradotti in tutto il mondo e nel 2011 l’autore è stato finalista al CWA International Dagger, il prestigioso premio per la narrativa gialla. Nel 2017 ha vinto il premio Violeta Negra per il miglior romanzo noir.