L’appello




Recensione di Cristina Bruno


Autore: Alessandro D’Avenia

Editore: Mondadori

Genere: narrativa contemporanea

Pagine: 348

Anno di pubblicazione: 2020

Sinossi. E se l’appello non fosse un semplice elenco? Se pronunciare un nome significasse far esistere un po’ di più chi lo porta? Allora la risposta “presente!” conterrebbe il segreto per un’adesione coraggiosa alla vita. Questa è la scuola che Omero Romeo sogna. Quarantacinque anni, gli occhiali da sole sempre sul naso, Omero viene chiamato come supplente di Scienze in una classe che affronterà gli esami di maturità. Una classe-ghetto, in cui sono stati confinati i casi disperati della scuola. La sfida sembra impossibile per lui, che è diventato cieco e non sa se sarà mai più capace di insegnare, e forse persino di vivere. Non potendo vedere i volti degli alunni, inventa un nuovo modo di fare l’appello, convinto che per salvare il mondo occorra salvare ogni nome, anche se a portarlo sono una ragazza che nasconde una ferita inconfessabile, un rapper che vive in una casa famiglia, un nerd che entra in contatto con gli altri solo da dietro uno schermo, una figlia abbandonata, un aspirante pugile che sogna di diventare come Rocky… Nessuno li vedeva, eppure il professore che non ci vede ce la fa. A dieci anni da “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, Alessandro D’Avenia torna a raccontare la scuola come solo chi ci vive dentro può fare. E nella vicenda di Omero e dei suoi ragazzi distilla l’essenza del rapporto tra maestro e discepolo, una relazione dinamica in cui entrambi insegnano e imparano, disponibili a mettersi in gioco e a guardare il mondo con occhi nuovi.

Recensione

Omero Romeo, nomen omen, è un insegnante di Scienze di mezza età, divenuto cieco a causa di una malattia. Dopo una pausa per ritrovare se stesso riprende il suo amato lavoro e ottiene una supplenza in una classe “difficile”.

I pochi ragazzi che la compongono sono un concentrato di sfortuna e disgrazie esistenziali, archetipi di tutti i possibili disagi dell’adolescenza. Il compito che Omero si prefigge è quello di ascoltarli e di insegnare loro non attraverso una fredda lezione frontale, ma per mezzo di un procedimento socratico che li porti ad avere fiducia in se stessi e nel mondo.

Il suo approccio ai ragazzi avviene attraverso un appello che non è un mero elenco di nomi. Omero infatti non vedendo chiede loro di farsi riconoscere toccandone il volto con le mani e ascoltando le loro voci mentre parlano di un sé che non avevano mai svelato e di cui nessuno si era mai interessato. L’appello diventerà virale e porterà a una rivoluzione pacifica nell’universo contrastato e bistrattato della scuola.

Se nell’Ulysses di Joyce la scansione temporale aveva il breve orizzonte di una giornata e in Un’Odissea di Mendelsohn occupava tutta una vita, nel romanzo di D’Avenia il tempo è quello di un anno solare. Al suo interno sono contenuti i nove mesi dell’anno scolastico tanti quanti sono quelli di una gestazione, i mesi simbolicamente necessari ai Dieci ragazzi-eroi per partorire se stessi grazie al professore-maieuta Omero.

La narrazione affronta temi di attualità, dal potere dei media e dei social, alla mala politica, alla scuola in affanno, al disagio giovanile. I personaggi sono organizzati come in un racconto epico: Omero è il cantore cieco che dà voce ai suoi eroi, i dieci ragazzi, così fragili e così grandi, ognuno con il suo carico di tristezza e di responsabilità di fronte a una vita che non sanno ancora come affrontare. La scuola descritta nel libro è una scuola sconfitta che attende il momento della propria rinascita, ripiegata su se stessa.

Docenti e ragazzi sembrano contrapporsi sia dal punto di vista culturale che generazionale, incapaci e refrattari a qualsiasi forma di dialogo e il liceo sembra solo un noioso periodo da superare. Omero trasforma l’ora di Scienze in ora di Filosofia e dialogo sopra i Massimi Sistemi e decide che la priorità non è svolgere il programma ma dare spazio ai ragazzi e ai loro problemi. Ritroviamo l’annosa questione della contrapposizione tra una scuola che informa e una che forma, tra il docente che spiega e il maestro che insegna.

Contrapposizione di per sé fuorviante perché per arrivare a gustare il senso di Leopardi, di Catullo, di Sofocle, di Platone dobbiamo per forza passare per una formazione “noiosa” fatta di regole grammaticali, sintattiche, di date e di avvenimenti che ci conducono passo dopo passo a una comprensione che non sia solo un giocare con le parole ma che scaturisca dal profondo del nostro animo.

E altrettanto la fisica, la chimica, la matematica per essere comprese hanno bisogno dei fondamentali, hanno bisogno di esercitazioni che possono apparire tediose e inessenziali, tanto quanto gli esercizi tecnici di un musicista o di un atleta. Senza di questi però la nostra mente non riesce ad aprirsi e non può apprezzare la bellezza che si rivela in una composizione musicale piuttosto che nel teorema di incompletezza di Godel.

Senza fondamenta solide il sapere diventa un vuoto cicaleccio nel quale risuona l’eco della celebre affermazione di Wittgenstein nel suo “Tractacus”: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.” Ecco forse la scuola dovrebbe insegnare questo, che il genio è una lunga pazienza, che non esistono scorciatoie nell’apprendimento, che se vogliamo capire la realtà e affinare il nostro spirito critico dobbiamo fare fatica, perché venire al mondo è una fatica e vivere giorno dopo giorno è una fatica.

Un merito di questo libro è quello di far riflettere sul ruolo della scuola nella formazione dell’individuo e della collettività e sul senso del nome. L’appello diventa così una forma primitiva di conoscenza, poiché dare il nome alle cose significa in qualche modo possederle, conoscerne le intrinseche proprietà, ma senza dimenticare che in fondo, nella Bibbia, l’Uomo dà il nome ad ogni elemento del Creato eppure non conosce il nome di Dio. Sarà lui a rivelarglielo al momento opportuno con il precetto però di non nominarlo invano.

A cura di Cristina Bruno

http://fabulaeintreccio.blogspot.com/

Alessandro D’Avenia


quarantatré anni, dottore di ricerca in Lettere classiche, insegna Lettere al liceo ed è sceneggiatore. Dal suo romanzo d’esordio, Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori, 2010), è stato tratto nel 2013 l’omonimo film. Sempre per Mondadori ha pubblicato Cose che nessuno sa (2011), Ciò che inferno non è (2014, premio speciale del presidente nell’ambito del premio Mondello 2015), L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita (2016) e Ogni storia è una storia d’amore (2017). Da queste ultime due opere l’autore ha tratto un racconto teatrale che ha girato l’Italia con enorme successo, diretto da Gabriele Vacis e Roberto Tarasco.
Collabora all’edizione della Divina Commedia curata da Franco Nembrini e illustrata da Gabriele Dell’Otto.Ogni lunedì dalle pagine del “Corriere della Sera” dialoga con i lettori nella rubrica “Ultimo banco”. I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo.

 

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