L’inverno di Giona




Recensione di Elvio Mac


Autore: Filippo Tapparelli

Editore: Mondadori

Genere: Narrativa contemporanea

Pagine: 190

Anno di pubblicazione: 2019

Sinossi. Io non temo il buio, anzi. Nel buio più profondo anche la paura procede a tentoni e io, invece, ho imparato a vederci. “Non ti ho mai conosciuto davvero, padre. Uomo sparito, fantasma di un fantasma. Hai carne di vento, pelle di nebbia. Non ti riconosco eppure sei me centomila volte al giorno.” Siamo su una montagna ostile, fa molto freddo. Giona non ha ricordi. Ha poco più di quattordici anni e vive in un villaggio aspro e desolato insieme al nonno Alvise. Il vecchio, spietato e rigoroso, è l’uomo domina il paese e impone al ragazzo compiti apparentemente assurdi e punizioni mortificanti. In possesso unicamente di un logoro maglione rosso, Giona esegue con angosciata meticolosità gli ordini del vecchio, sempre gli stessi gesti, fino a quando, un giorno, non riesce a scappare. La fuga si rivelerà per lui un’inesorabile caduta agli inferi, inframmezzata da ricordi della sua famiglia, che sembrano appartenere a una vita precedente, e da apparizioni stravolte. In un clima di allucinata sospensione temporale, il paese è in procinto di crollare su se stesso e la terra sembra sprofondare pian piano sotto i piedi del ragazzo. La verità è quella che appare? Solo un decisivo cambio di passo consentirà al lettore di raggiungere la svolta finale e comprendere davvero che cos’è l’inverno di Giona. Filippo Tapparelli, qui al suo esordio letterario, ha scritto un giallo onirico lontano da virtuosismi stilistici e intriso di atmosfere di perturbante ambiguità, descritte con una potenza evocativa straordinaria.

Recensione

Questo racconto è il percorso greve della memoria di Giona, della sua mancanza. Il ragazzino vive con il nonno Alvise in un angolo remoto del mondo. Il paese è qualcosa di desolante, nebbioso e angosciante. I personaggi che lo popolano sono pochissimi e sfuggenti, tutti temono Alvise, il nonno adottivo, ma non si capisce a cosa sia dovuta questa forma timorosa di rispetto.

La vita di Giona è un tormento di routine e precisione, i suoi gesti devono essere compiuti secondo le richieste del nonno, non può prendere alcuna iniziativa, non può deviare mai la sua traiettoria, il suo comportamento deve essere irreprensibile secondo i dettami di Alvise che si accorge di qualsiasi sbavatura, sembra che veda Giona anche quando non è a portata di sguardo.

Il nonno gli dice che la sapienza si acquisisce attraverso la sofferenza, quindi gliela infligge ogni volta, ad ogni errore. Lo picchia per inchiodare la consapevolezze nelle sue ossa, solo con il dolore si impara.

Viene da chiedersi se quello che stiamo leggendo è reale o frutto della fantasia del ragazzo intrappolato in un mondo vicino alla condizione di schiavo. Si arriva ad odiare Alvise per le punizioni che infligge e per il comportamento violento, per ogni suo respiro percepito. Si fa il tifo per una reazione di Giona, si spera nell’arrivo di un evento che possa dare una svolta, cambiare la situazione e dare speranza per qualsiasi cosa diversa da quella che stiamo leggendo.

Solo quando Giona farà una scelta volontaria, ritroverà flashback dei suoi ricordi e potrà inoltrarsi nella rievocazione di fatti smarriti. Tutto lentamente tornerà a farsi strada nella sua vita desolata e solitaria.

Le cose che credeva di conoscere e le voci che percepisce dalle figure che immagina, assumeranno un nuovo significato, avranno un senso diverso e inatteso. Proprio perché Giona non ha mai avuto la possibilità di scegliere, la sfida più grande sarà quella di varcare una condizione esistenziale, ma anche questa è una minaccia imposta da Alvise e comunque vada ci saranno conseguenze.

Quasi tutto è raccontato in prima persona dal protagonista senza ricordi, tracce che a sprazzi tornano nella sua mente. Giona rivive i giorni con mamma e papà e finalmente il lettore percepisce sollievo, sembra di uscire dal fosco, tornano i colori e le sensazioni, il sole il calore, gli odori sembrano fare breccia in un denso e cupo grigio che copre il paese, un posto che avvolge e che non ti fa uscire.

E’ confortante leggere che Giona ha avuto giornate normali, forse non felici, ma ha vissuto momenti ordinari che ogni bambino del mondo dovrebbe avere. Ma è proprio in questi ricordi che trova le cause della sua condizione attuale.

Alcuni passaggi della storia sono un supplizio da accettare, visto che sono riferiti alla condizione di vita di un ragazzino:

“È così tanto tempo che tengo la testa chinata a cucire che mi sembra di non averla mai avuta sollevata. Vivrò il resto dei miei giorni a rimirarmi le punte dei piedi. Imparerò tutto sulle ginocchia, sui sassi e sui pavimenti degli scantinati…”

E’ stato difficile farsi portare dal racconto per così tante pagine, ma ho voluto fidarmi. Il freddo e le visioni vere o presunte di Giona accompagnano il lettore, ho faticato a distinguere il reale dall’immaginario, il nonno sembra il mostro cattivo di una fiaba terribile, la povertà e l’essenzialità sono potenti, ma una volta arrivati all’epilogo tutto assume un senso e le domande trovano risposte, i ricordi sfondano l’inquietante risvolto della vicenda.

Credo sia molto rischioso scrivere una storia di questo tipo perché c’è il rischio molto elevato che il lettore resti nella sfera dell’inspiegabile, invece esige soluzioni e definizioni, proprio per questo consiglio di arrivare fino in fondo.

A cura di Elvio Mac

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Filippo Tapparelli


Filippo Tapparelli (Verona, 1974) lavora in un’azienda veronese. In passato è stato istruttore di scherma, pilota di parapendio e artista di strada. Ha studiato letteratura inglese e russa all’università. Questo è il suo primo romanzo.