Lo stradone




Recensione di Francesco Morra


Autore: Francesco Pecoraro

Editore: Ponte alle Grazie

Genere: Narrativa

Pagine: 443

Anno di pubblicazione: 2019

Sinossi. Primi anni Venti di questo secolo nella «Città di Dio», decadente metropoli che assomiglia molto a Roma. Un uomo di circa settant’anni osserva dal settimo piano della sua palazzina le vicende dello «Stradone»; i tanti personaggi che lo percorrono incarnano tutte le forme del «Ristagno» della nostra società. Invecchiamento e conformismo, razzismo e sessismo, sopravvivenze popolari e «trentelli» rampanti, barbagli di verità, etnie in conflitto, il fantasma dell’integralismo islamico, la liquefazione di sinistre e destre e della classe media in un unico «Grande Ripieno»: nulla sfugge a questo narratore disordinato ma perspicace, che pare saper restituire meglio di chiunque – con ironia, cinismo, nostalgia, umorismo – il non senso del nostro presente. Racconta anche, l’uomo senza nome, la propria esistenza di «Novecentesco», aspirante storico dell’arte, funzionario di Ministero, uomo che ha creduto nel comunismo e poi si è fatto socialista e corrotto, con i suoi amori e, oggi, l’ossessione per la vecchiaia, la malattia, la pornografia; e ricostruisce infine con documenti veri o quasi-veri la storia di un quartiere i cui abitanti, operai e proletari, per secoli e fin oltre la metà del Ventesimo, hanno prodotto qui i mattoni di cui è fatta la Città: il quartiere più comunista e antifascista di tutti, forse visitato da Lenin – personaggio inatteso di queste pagine – nel 1908.

Recensione

Abito sullo stradone, dove la città fa una pausa. Ci abito da più di vent’anni, vent’anni di sofferenza percettiva, e sono convinto che ci morirò.

Si possono rintracciare almeno tre filoni su cui si dipana la trama nelle quasi 450 pagine.

Un racconto autobiografico dell’io narrante alternantesi con un discorso saggistico che tocca le idiosincrasie del protagonista e una descrizione della vita dello Stradone.

Il nostro “eroe” che non ci viene mai presentato quindi resterà una voce è un pensionato, laureato in storia dell’arte, deluso da una carriera accademica mai partita, strangolata dalle baronie professorali indi divenuto, suo malgrado, exdipendente e poi dirigente di ufficio ministeriale, un passacarte con stipendio e poi pensione sicuri. Il protagonista racconta dei suoi errori ed esperienze; una vera e propria confessione dissacrante. Rende un affresco dell’Italia dal boom economico agli anni ottanta passando per questi primi anni venti del ventesimo secolo.

Pochi oggi percepiscono la complessità dell’elaborazione filosofica antagonista al capitalismo, l’epicità di quegli avvenimenti, la bellezza terrificante delle società utopiche, la costruzione di un immaginario alternativo a quello occidentale, la tragedia del loro fallimento e ciò che significhererà per i prossimi cento anni.

Idiosincrasie della terza età, delusione, rarefazione valoriale, cinismo tutto messo su pagina con forza.

Vedo l’inutilità segreta delle vite immerse nel nulla pensionistico, cioè in un benefit di esistenza residuale, non realmente goduto (in quanto non godibile) e però retribuito.

Pecoraro ambienta il suo romanzo in una borgata di una grande città capitale della penisola e non la chiama Roma ma la Città di Dio. Lo stesso stradone è la Via Aurelia e la zona circostante è la Sacca. Lo stradone è una via che a farla tutta si arriva in Francia, un passaggio che però per gli abitanti sta lì, stanziale. Un terzo paesaggio desolato e rudere postindustriale. Freud- Darwin- Marx sono riferimenti di cui queste pagine sono pregne.

Volendo appoggiarsi alla buona sulle categorie/ enti concettuali freudiani, la Città di Dio espone nel proprio Io cosciente un inconscio in forma di pulsione distruttiva e un super- Io come vano voler essere di una compagine fisica continuamente ripensata re-immaginata riprogettata ri-scritta e descritta di nuovo, ancora e ancora, senza sosta.

Riporta testimonianze di figli e proletari che lavorano nelle fornaci di questa piccola Russia, anarchica più che strettamente comunista descrivendo anche un non accertato incontro di Lenin con questi operai.

L’io narrante è nella condizione di colui il quale analizza il presente quotidiano senza interessarsi del futuro ma il suo giudizio è gravido del peso della caduta delle ideologie e utopie che lo hanno animato e costruito.

Le sfaccettature della terza età sono affrontate puntualmente dalla sfera intima alle problematiche di un controllo spasmodico sulla salute, unico passatempo. Riflessioni senza scampo e censorie. Senza alcun buonismo di facciata.

Non c’è via di scampo. I pensionati sono i condottieri…

Hanno il passo incerto, questi uomini finiti, incespicanti, questi rottami arenati sulla battigia degli anni Venti, anni di cui a loro non importa nulla, di cui non capiscono nulla: preché tutti o quasi hanno lo sguardo Non capisco più nulla di voi, del mondo non me ne frega un cazzo della politica, penso solo a vivere. Penso solo a arrivare fino a domani. Uomini più vecchi di me, che non hanno nulla da dire a nessuno. La faccia piena di macchie nere, le mani chiazzate di scuro. Gli occhi liquidi, arrossati, come quelli di certi cani di razza, pelluti e remissivi. Uomini che, dopo aver vissuto la loro vita nel più lungo periodo di pace che la storia ricordi, sembrano lo stesso appena usciti da una catastrofe nucleare.

Una limpida analisi nel capitolo Comunista silente è una lezione per molti che si interrogano su cosa sia la sinistra e le sue derive…

La caduta delle ideologie e il non aver saputo conservarle ha svuotato di senso questa società in cui ci si muove e si vaga. I roboti ovvero i lavoratori sono preda del consumo, la comfort zone delle nostre esistenze.

Non importa cosa ho provato/non ho provato, le mie emozioni non sono interessanti nemmeno per me: mentre camminavo stavo pensando ai libri letti e alle cose fatte nelle nostre esistenze e ho capito che al cospetto di quest’uomo, che non so chi sia, importa il nostro fallimento politico, importa la nostra sconfitta storica, importa il nostro, di uomini e donne del Ventesimo Secolo, non saper più raccontate ai perdenti il loro stato di domani nati e non saper più indicare loro il nemico politico da combattere e non saper più organizzare in forza politica e non saper più condurre una lotta efficace contro il disinteresse l’abbandono la povertà lo sfruttamento lo schiavismo la prostituzione, lo sperdimento di milioni di umani. Occuparsi di loro lo sanno ormai fare solo i cattolici, ma si tratta di caritas, che è comunque qualcosa, rispetto al nulla…

Tutto è destrutturato e spurio

Così la cultura del corpo, assieme a quella della qualificazione e del curriculum, della laurea triennale con festa di laurea e tocco in testa, ha soppiantato la cultura- cultura, quella del liceo dove la mente aveva un suo peso, come sapere, ricordare applicarsi

Lo scrittore quindi tra sue riflessioni e manie, come la sua lotta quotidiana alle blatte, parla di tutto ciò gli è accaduto e che lo porta a vivere giorno per giorno, sopportando il conto alla rovescia che lo restituirà al nulla. Tutto è armonico alto e basso si compenetrano restituendoci l’autenticità.

I capitoli sono sassi lanciati al lettore, ne sono una quarantina con il bonus track dell’Epilogo, non vi è lieto fine, Pecoraro racconta, ricorda in un soliloquio scritto. Un flusso di coscienza torrenziale che disarma e avvince. La lingua in Pecoraro ne è elemento originale utilizza e inframmezza inflessioni del gergo romanesco con italiano forbito e termini tecnici e ci fa calare così nella borgata, ma non si esaurisce solo in questo. Utilizzo di una interpunzione volta ad una lettura fluviale, dove l’utilizzo della virgola è centellinato. Espediente geniale i corsivi con espressioni estemporanee e fuori contesto dei veri e propri tweets, come se i ragionamenti del libro fossero interrotti o come se la mente dello scrittore ragionasse a voce alta e passando di fianco alle persone comuni ne assorbissero parte di ragionamenti e conversazioni. Ulteriori pagine memorabili sono gli elenchi e descrizioni presenti; uno per tutti quello su cosa definisca l’essere anziano, un fiume di connotazioni sul non più giovane…

Tutto falso e il falso-vero sono più veri dell’autenticamente vivente, del davvero risalente. L’autenticità non è necessaria per la gente dello Stradone, abituata all’andarsene delle cose e ormai aggrappata alla verità dell’unica cosa condivisa, il linguaggio.

Abbiamo aspettato con pazienza e Francesco Pecoraro ha sfornato e condiviso con tutti noi un capolavoro che ricorda e vivifica la prosa pasoliniana e gaddiana. La città come resa plastica di ciò che siamo, la frantumazione delle ideologie e utopie. La vittoria del capitalismo e la terza età come non retorica fase della saggezza; sono solo alcuni degli elementi che fanno di questo libro un testo da leggere e rileggere.

Mentre chiudo per sfinimento scrive nelle ultime battute, proprio così quanto da lui espresso è uno sforzo, un gravoso prendere coscienza del circostante.

Originalità pura e una portata questo testo tale che sconquassa e scardina l’ottimismo a prescindere di facciata costruito da una dogmatica retorica. Una critica nel senso più proprio del lemma che riesce ad aprire le nostre menti e ne sì, in questo caso, struttura un disagio e costruisce un dissenso per ciò che vediamo e accettiamo mansueti e anestetizzati. Le pagine sono dense e portano a una sete di riscatto di cui abbiamo enorme necessità.

A cura di Francesco Morra

www.youtube.com/user/Vetriera

Francesco Pecoraro


Francesco Pecoraro: Scrittore italiano (Roma 1945). Architetto urbanista presso il comune di Roma, da vent’anni scrive su diverse riviste specializzate saggi su arte e architettura. Nel 2007 ha pubblicato i racconti di Dove credi di andare (Premio Napoli e Premio Berto) e nel 2012 le poesie di Primordio vertebrale. Nel 2013 ha pubblicato il suo primo romanzo, La vita in tempo di pace, finalista al Premio Strega del 2014, cui ha fatto seguito nel 2019 Lo stradone, finalista Premio Campiello.

 

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