La montagna declinata per fiction … gotico, noir, storia ….




A tu per tu con gli autori

 

 

 

 

Luca D’Andrea, Ilaria Tuti, Anna Pavani … siete originari e vivete a Bolzano, Gemona del Friuli, Valpolicella Verona. I luoghi natii o si amano o si rifuggono. Voi, nei vostri romanzi, raccontate di questi luoghi. Quando avete iniziato ad immaginarli teatro di storie  e come pensate, se lo pensate, vi caratterizzino e abbiano influito su di voi come autori?

Luca D’Andrea. Nell’estate del 2012, durante le riprese della prima stagione di “Mountain Heroes”, un factual che raccontava in presa diretta il mondo del Soccorso Alpino. Ho passato circa tre mesi, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, fra elicotteri, verricellate, ossa rotte e “chiamate di soccorso spirituale” che in gergo significa che qualche sfortunato è arrivato al capolinea. Naturalmente ero del tutto impreparato ad affrontare una simile esperienza perché nessuno, nemmeno il soccorritore più addestrato al momento del suo “battesimo” lo è davvero, figurati un tizio armato di carta e penna… In quell’estate ho fatto un salto nel vuoto e la persona che ha toccato terra era diversa da quella che si era lanciata anche se, naturalmente, me ne sono accorto molto dopo. Vedi, in certi frangenti non puoi pescare la carta dell’esci gratis di prigione, ti tocca stare lì, osservare, ascoltare, devi trasformarti in una sorta di “scrittore da combattimento” che tiene premuto il tasto “Rec” del cervello anche quando quello che sta vedendo gli urla di voltarsi da un’altra parte. Per pudore, per orrore, per pietà o per disgusto. Tutto questo mi si è infilato sotto pelle cambiando il mio modo di pormi domande, di intendere la realtà e, di convesso, la mia idea di scrittura. D’altronde non credo di essere uno scrittore, piuttosto uno strano reporter, démodé nel modo di procedere, di ragionare e di porsi rispetto alla “cosa in sé”, cui capita di raccontare quel genere di contraddizione che di solito resta ai margini dello sguardo.

Ilaria Tuti. Ho iniziato a parlare del Friuli nei primi racconti, scoprendo per la prima volta molte sue bellezze. Mi sono resa conto che, pur vivendoci da sempre, non lo conoscevo bene e tutt’ora ci sono molti aspetti storici, culturali e geografici che devo ancora indagare. Così, attraverso le storie che scrivo, compio un viaggio assieme al lettore. Questo significa scavare nella storia, visitare luoghi conosciuti e altri remoti, ma soprattutto parlare con le persone e ascoltare le loro storie. Tra le esperienze dei suoi abitanti brillano i veri tesori di una terra: sono le memorie personali, che diventano collettive e infine storiche. L’ambiente forma, nel bene e nel male. Ho la fortuna di appartenere a una terra che, si può dire, mi ha educata tanto quanto la mia famiglia: sono cresciuta libera nella natura, ho assorbito la concretezza delle generazioni passate. Questo senso di appartenenza ha influenzato profondamente la mia scrittura.

Anna Pavani. In realtà per me, che sono nata come scrittrice d’avventura, sempre spinta dal desiderio e dalla curiosità di scoprire mondi nuovi e lontani, Voci nella nebbia è stato un ritorno a casa che si è tramutato in una riscoperta, dove proprio l’ambientazione ha avuto un ruolo determinante. Sono cresciuta all’ombra delle montagne, ne ho sempre ammirato e amato la bellezza e l’imponenza. Mi perdo con lo sguardo, incantata, sulle vette stagliate contro il cielo, e mi fanno sentire protetta. Ma tutto ciò cambia se provo a risalirle. Allora percepisco apprensione, mi sento piccola e umile e vulnerabile, provo quel rispetto generato dalla paura, o forse più precisamente: quella paura generata dal rispetto. Vedo la montagna come indiscussa protagonista, anche quando rimane sullo sfondo. In Voci nella nebbia non è stata la storia a scegliere la montagna come teatro, ma la montagna ad aver scelto la storia da raccontare.

 

 

 

La montagna. Pace, silenzio, aria pulita, respiro quieto. Come si sposa questa immagine iconografica e senz’altro riduttiva, con lo stimolo creativo ad ambientarvi storie dai toni horror, gotico, thriller?

Luca D’Andrea. E’ uno stereotipo, proprio come dici tu. Non esiste, ad esempio, il silenzio in montagna. Anche a inerpicarsi sulla vetta più solitaria c’è sempre qualche animale o qualche insetto a riempire gli spazi bianchi lasciati dall’umanità. Se non ci sono gli animali, ci sono il vento, la neve, il ghiaccio, il rotolare delle pietre. E se non c’è neppure questa colonna sonora, c’è il suono più spaventoso di tutti: quello del tuo respiro, che ti costringe a riflettere in terza persona su ciò che sei. Esercizio salutare ma molto scomodo. Però la cosa bella degli stereotipi è che ci si può divertire a smontarli, ricombinarli, giocarci. Per quanto mi riguarda la natura è un corollario, importante, ma pur sempre un corollario. Quello che a me interessa delle storie che leggo, prima ancora di quelle che scrivo, sono i personaggi. L’ambientazione e il genere sono strumenti che di volta in volta reputo più efficaci per quel personaggio e per la sua storia.

Ilaria Tuti. La risposta, nel mio caso, nasce dalle fiabe, quelle della tradizione: per nulla benevole, spesso spietate, hanno tratti gotici e oscuri molto marcati. Erano un modo per parlare ai bambini del male, per descrivere un mondo che poteva, e può, divorare. Un simbolo potente spesso utilizzato nelle fiabe è la foresta, molto presente anche nei miei romanzi: il bosco è la vita, con le sue insidie e i suoi misteri, con le ombre e gli anfratti, ma è anche un cuore nero pulsante, fatto del calore degli animali, della loro magnifica spinta alla sopravvivenza. Racchiude suggestioni arcaiche che, con un certo senso del meraviglioso, possono assumere sfumature

Anna Pavani. Imponenza, solitudine, inquietudine sono le parole che mi viene spontaneo aggiungere. Le montagne sono l’espressione più maestosa della terra che si erge verso il cielo. Roccia nuda, impervia, vegetazione selvaggia, oscura, spesso ingannevole e mortale. La natura per me, che sia la montagna, o la giungla, o l’oceano, è l’ambientazione perfetta, perché rappresenta le paure ancestrali dell’uomo, il quale ne è fatalmente attratto.

 

 

 

 

Generalmente nelle piccole comunità, come possono esserlo quelle montane, ci si conosce tutti, o comunque, chi viene da fuori è notato e ben identificato. Che sfida rappresenta, e come la vincete, inventare colpi di scena convincenti ed una suspense che regga l’arco del romanzo, elementi che caratterizzano la vostra produzione letteraria?

Luca D’AndreaQuando inizio a costruire un romanzo non ragiono mai per colpi di scena, twist, turning point e nemmeno per generi. La prima cosa è sempre il o la protagonista. E’ dalla figura principale che nasce la storia, non viceversa. Altrimenti si rischia (o almeno così la vedo io) di ritrovarsi fra le mani una storia che “funziona” ma non “emoziona” e senza emozione cosa sono i libri? Tempo buttato. Se ragioni in questa maniera ti accorgi che non esiste uno spazio abbastanza angusto da poter impedire la nascita di una buona storia. Si possono raccontare storie ambientate in piccoli paesi di montagna come in grandi città così come in stanze d’albergo.

Ilaria Tuti. Il male che racconto solitamente nelle mie storie può essere ovunque, perché proviene da dentro, è depositato nella mente umana e non è legato alle grandi aggregazioni delle città, alla criminalità organizzata. È un’infezione del singolo, che cova lentamente nella solitudine. Le piccole comunità, per quanto paradisiache possano sembrare a prima vista, non hanno gli anticorpi per respingerlo. Tendono, però, a negarlo, come farebbe qualsiasi gruppo umano per spirito di conservazione. Chiamare l’altro “mostro”, per esempio, è un modo efficace per sentirlo distante, per tracciare un confine tra noi e lui, e assolverci. Credo che la suspense delle mie storie risieda soprattutto in elementi psicologici piuttosto foschi, che si riflettono nel modo in cui l’ambiente naturale viene percepitoe attraverso il quale parlo all’inconscio del lettore.

Anna Pavani. In genere, quando scrivo mi faccio una domanda: perché il lettore dovrebbe voler voltare pagina? Portare l’inconsueto nel consueto, l’imprevisto nel prevedibile, andare oltre l’apparenza è ciò che, a mio avviso, rende le cose, le situazioni, le persone, persino una piccola comunità, molto più profonde e stratificate di quanto possano apparire. Credo che la missione di uno scrittore sia attirare il lettore all’interno delle sue storie, fare in modo che si appassioni, che viva ciò che lui per primo immagina e scrive.

 

 

La natura. Convitato di pietra o protagonista agente? Quando e quanto madre e quando e quanto matrigna?

Luca D’AndreaLa natura è un’inarrestabile esplosione di vita che implica sofferenza e morte su scala industriale. Non guarda in faccia a nessuno e non segue né le regole che vogliamo imporle né, peggio ancora, la fumosa spiritualità che amiamo proiettarci sopra. Nel momento in cui si cede alla lusinga del credere che la natura sia il nostro specchio la cengia su cui siamo aggrappati crolla, la volpe che ci si è avvicinata morde, il torrente ci travolge. O un virus fa il salto della specie e riempie i camion di cadaveri. La natura è cieca eppure ci vede benissimo, è sorda eppure sa ascoltare ogni minimo sussurro, è muta eppure sa inventare un linguaggio diverso per ogni singolo essere vivente. La natura è un’eterna contraddizione che non puoi accettare né razionalmente né emotivamente, perché significherebbe accettare la leucemia infantile o la tragedia di quel mattatoio universale che è il ciclo nascita-morte. L’unica cosa che puoi fare è provare a farci surf sopra. Tenendo sempre a mente che anche questo esercizio è una fragile illusione.

Ilaria Tuti. Utilizzo spesso i termini “madre” e “matrigna” per descrivere il nostro rapporto con la natura. Tendiamo a umanizzarla, in qualche modo giudicandola, ma la natura non ha intento, se non quello di conservare la vita di una specie, e per farlo l’unico moto che la guida è quello di tentare ogni via possibile, di infilarsi in ogni percorso per dispiegarsi. In questo quadro, il singolo non ha significato, né valore assoluti, nemmeno se è un cucciolo. La natura, però, è stata anche la nostra prima culla. Nei miei romanzi c’è tutto questo, e in più un aspetto “sacro” che mi piace tenere ben presente. La natura che descrivo non è mai passiva, ha sempre qualcosa da “dire”, con grazia o con ferocia. È un elemento tangibile del grande mistero in cui siamo immersi.

Anna Pavani. Sempre madre e sempre protagonista. Non esiste il concetto di male e malvagio in natura. La natura non è malvagia, non è ingiusta né giusta. È semplicemente la natura. Spietata nel più puro significato del termine in ogni sua manifestazione; siamo noi a fare distinzioni che non le appartengono. La mia natura è viva, respira, emana e assorbe energie, restituisce ciò che riceve. Ed ecco, dove si è perpetrato il male, ne rimane l’ombra, come un’impronta nel tempo.

 

 

Quanto spazio ed importanza date alla ricerca documentaristica su folklore e Storia e cosa vi affascina di più indagare ed interpolare nelle pagine, la leggenda o i fatti storici?

Luca D’Andrea. Ci sono stati romanzi, come Lissy, che mi hanno richiesto molti mesi di preparazione fra libri e chiacchiere con chi certe cose le ha sentite sulla propria pelle, non solo per ciò che dicevano (preziosissimo, naturalmente) ma soprattutto per come lo dicevano. Che è molto più importante a mio parere. Non sono un fan del realismo, ma della verosimiglianza. Il realismo è una mezza menzogna, un compromesso in un labirinto di punti interrogativi e, in ogni caso, dal realismo non si ricavano mai buoni personaggi né buone storie. La verosimiglianza è molto più difficile da raggiungere. Significa possedere ed elaborare un assunto, una chiave di violino, attraverso cui leggere la realtà. Significa possedere un punto di vista, cosa che diamo per scontato ma che non lo è. Nel mondo di oggi, tutti nudi di fronte agli altri, tutti spaventati dall’idea del pubblico ludibrio, in cui tutti vogliono vivere la vita gridando a squarciagola la propria intimità per paura di non esistere, è affare parecchio pericoloso possederne uno. Ma è questo quello che chiedo quando leggo un libro o guardo un film: uno sguardo sul mondo diverso dal mio. Ed è, di riflesso, quello che cerco di offrire ai lettori.

Ilaria Tuti. La ricerca è di importanza cruciale e occupa uno spazio enorme nella costruzione della storia, perché mi piace inserire particolari veri all’interno del romanzo. Nel corso delle mie letture annoto sempre qualche aneddoto che trovo curioso o suggestivo; so che, prima o poi, potrebbe tornare utile. Indago sia la Storia che le leggende, adoro intrecciarle. Il Friuli è terra di confine, per millenni vi sono passati popoli diversissimi tra loro e ciascuno ha lasciato qualcosa della propria cultura. Mi affascina collegare punti così distanti nello spazio e nel tempo per ricavarne una storia attuale conle radici, però, ben affondate nel passato.

Anna Pavani. La ricerca storica è commisurata a ciò che si scrive. Se la nostra storia si abbarbica al passato e a eventi realmente accaduti, la documentazione non è solo essenziale, è doverosa. Tuttavia, mantiene un’importanza fondamentale anche laddove la storia non sia ispirata alla realtà, poiché ci permette di dare alla fantasia una base veritiera e credibile. E solo rendendola tale, possiamo coinvolgere chi legge e far sì che si immerga in essa. Io amo molto la fase pre-stesura di documentazione storica, mi permette di scoprire e conoscere luoghi, usanze e dettagli preziosi, di calarmi in prima persona nel mondo e nel momento in cui si svolge la mia storia.


A cura di Sabrina De Bastiani 

Luca D’Andrea


è nato a Bolzano, dove vive, nel 1979. Per Einaudi ha pubblicato La sostanza del male (2016 e 2017), Lissy (2017 e 2018), entrambi bestseller internazionali, e Il respiro del sangue (2019).

Ilaria Tuti


vive a Gemona del Friuli, in provincia di Udine. Da ragazzina voleva fare la fotografa, ma ha studiato Economia. Ama il mare, ma vive in montagna. Appassionata di pittura, nel tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Ama i romanzi di Donato Carrisi. Nel 2014 ha vinto il Premio Gran Giallo Città di Cattolica.

Anna Pavani


Vive nello splendido scenario della Valpolicella, in provincia di Verona. Ama la natura e gli animali, ha un cavallo, un cane e due gatti, tutti salvati e adottati. Appassionata di pittura, nel tempo libero dipinge e realizza quadri e trompe-l’oeil con soggetti ispirati ai paesaggi che la circondano e al mare, che ama sin da bambina. È autrice di romanzi d’avventura, pubblicati sotto pseudonimo. Voci nella nebbia è il suo romanzo d’esordio con la Narrativa Italiana Mondadori.