Recensione di Katia Fortunato
Autore: Kealan Patrick Burke
Traduzione: Raffaella Arnaldi
Editore: Nua
Genere: Antologia Horror
Pagine: 350
Anno di Pubblicazione: 2021
Sinossi. In seguito alla tragica morte della figlia piccola, Steve Brannigan fatica a rimettere insieme i pezzi. Separato dalla moglie, che si rifiuta di vivere nella casa dove è successo l’impensabile, e incapace di lavorare, cerca sollievo in una sequenza infinita di vecchie sit-com e nel bourbon. Finché, una notte, sente un rumore dalla cameretta che era della figlia, una stanza ormai spoglia di qualsiasi cosa la identificasse come sua… a parte la copertina affettuosamente chiamata Blanky. Blanky, vecchia e logora, con il suo obsoleto patchwork di coniglietti cuciti malamente, e i cui bottoni neri paiono tanti occhi che sembrano fissare chi li guarda… Blanky, acquistata da uno strano signore anziano a un banchetto di antiquariato che vendeva “Abittini Bebè” scontati. La presenza di Blanky nella cameretta della figlia morta non preannuncia altro che un incubo ineffabile, che minaccia di spegnere quel poco di luce ancora rimasta nel mondo infranto di Steve. La figlioletta amava così tanto Blanky… Steve aveva seppellito la copertina insieme a lei. Sour Candy. A un primo sguardo, Phil Pendleton e suo figlio Adam sono un padre e un figlio come tanti, non diversi dagli altri. Fanno passeggiate insieme al parco, visitano fiere, musei e zoo e mangiano davanti al lago. Si potrebbe dire che il padre è un po’ troppo accomodante, vista la mancanza di disciplina quando il bambino perde le staffe in pubblico. Si potrebbe dire che vizia suo figlio, concedendogli di mangiare caramelle quando gli pare e di andare a letto agli orari che preferisce. Si potrebbe anche dire che tanta indulgenza comincia a pesargli, visto il modo in cui la sua salute è peggiorata. Quello che nessuno sa è che Phil è un prigioniero, e che fino a un incontro fortuito in un negozio, avvenuto poche settimane prima, non aveva mai visto il bambino in vita sua.
Recensione
Stephen King diceva che
“un racconto non è come un libro, è un’altra cosa. Un racconto è come un bacio veloce, nel buio, ricevuto da uno sconosciuto”.
Ecco, l’effetto che mi ha fatto leggere questi due racconti è stato proprio questo: gelo, inquietudine, ansia…
Fil rouge, di questi due racconti è la paternità; voluta, cercata, scansata, oppressiva e tanto altro…
Parliamo del primo racconto. Steve si trova a convivere con la morte della figlia piccolissima senza poter dividere il peso del dolore con sua moglie che in seguito alla disgrazia lo lascia. Lui cerca in tutti i modi un ravvicinamento che avverrà grazie a una copertina che sarà poi fonte di guai e ulteriori problemi.
Nel secondo invece troviamo Phil. Phil non ha nessuna intenzione di diventare papà (tant’è che il primo matrimonio finisce per questo motivo), ma si ritrova ad esserlo suo malgrado.
Se nel primo racconto mi sono ritrovata con una lettura molto più rilassante anche se inquietante, nel secondo, l’ansia ha raggiunto livelli altissimi con un finale che sembrava quasi un happy ending. Il “problema” è proprio che lo SEMBRAVA solamente .
Onore al merito all’autore che ha partorito (mi sembra proprio il caso di dirlo) due racconti che mi faranno guardare i bambini in modo decisamente diverso, da ora in poi.
Complimenti!
Kealan Patrick Burke
Nato e cresciuto in una piccola città portuale nel sud dell’Irlanda, Kealan Patrick Burke ha capito fin da giovanissimo che sarebbe diventato scrittore di horror. La combinazione tra posti antichi, una madre amante del genere e una famiglia di narratori ha reso inevitabile che finisse a raccontare storie per mestiere. Da quegli anni formativi ha scritto cinque romanzi, più di un centinaio di racconti, sei raccolte, e ha curato quattro acclamate antologie. Nel 2004 è stato insignito del Bram Stoker Award per la novella The Turtle Boy.
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