Recensione di Maria Sole Bramanti
Autore: Ian Manook
Editore: Fazi
Collana: Dark Side
Traduttore: Maurizio Ferrara
Pagine: 381
Genere: Noir
Anno di pubblicazione: 2018
Yeruldelgger è sempre Yeruldelgger!
E “La morte nomade” conferma la forza dell’ambientazione così originale scelta da Ian Manook.
Questa saga ha il chiaro intento di far conoscere un paese dalle mille sfaccettature, attraverso i suoi paesaggi, la sua storia e i suoi abitanti. Tema centrale del terzo capitolo è lo sfruttamento minerario delle terre mongole. Se è vero che la Mongolia è considerata la più grande miniera del mondo, e che gli investimenti per l’estrazione di rame e oro hanno portato molto lavoro e un aumento della ricchezza del paese, è anche vero che il terreno è stato colpito duramente da questo sfruttamento, che la ricchezza è rimasta in mano a pochi e che il paese rischia la decadenza a causa dell’inquinamento di terre fin qui inesplorate e pure.
Ancora più dei romanzi precedenti “Yeruldelgger. La morte nomade” racconta più il paese che i personaggi, gli intrighi e le bassezze e la corruzione della classe politica, asservita alle multinazionali.
Sinceramente non so quanto il becero indotto delle miniere descritto da Manook sia vero e quanto sia iperbolico; non so quanto siano realmente accadute le ribellioni contro lo sfruttamento. Quello che so è che, ancora una volta, questa storia mi ha aperto gli occhi su un mondo lontano, che poi così lontano non è.
E se la figura di Yeruldelgger si perde un po’ all’ombra di tutto questo e in quell’immenso deserto, è anche vero che la sua presenza si percepisce sempre, tanto da trasformarlo, volente o nolente, in un novello Che Guevara (e qui, l’iperbole mi sembra lampante).
Detto ciò, devo ammettere che ho avuto maggiori difficoltà a seguire la trama, rispetto ai precedenti capitoli. Ho trovato una certa frammentazione nella storia che, almeno inizialmente, mi ha disorientata. E questo Delgger Khan stanco, che vive più nell’idea di Yeruldelgger che nel suo vero essere, mi ha lasciato un po’ di nostalgia.
In conclusione, un noir complesso, che ci porta dalla Mongolia, a New York, a Perth attraverso una girandola di personaggi variegati. Originale come Manook ci ha abituato.
“Yeruldelgger 3. La morte nomade” è assolutamente un romanzo da leggere perché conclude un ciclo che merita di essere completato.
La figura di Yeruldelgger
(A cura di Maria Sole Bramanti)
Ogni mattina…Yeruldelgger si alzava mongolo, erede di un impero enorme e vuoto… e un attimo dopo si infilava la sua divisa da poliziotto che raccoglieva anime disfatte e si tormentava tutto il giorno per tentare di capire quello che le aveva distrutte. Tanto per non pensare più all’impero enorme e vuoto a immagine della sua vita.
Yeruldelgger è la Mongolia.
L’originale personaggio nato dalla penna di Ian Manook incarna le asperità di un paese vasto e fragile. E come il suo paese, è senza mezzi termini: suscita terrore o il più grande degli amori.
In Morte nella steppa conosciamo uno Yeruldelgger abbrutito, morto dentro, che cerca i suoi istinti dimenticati e riscopre la serenità della solitudine, la forza del suo addestramento, la voglia di vivere.
In lotta con se stesso e con il suo passato, pieno di una collera tanto intensa che il Nerguii la percepisce nel gemito del vento delle steppe. Una rabbia legata alla morte della sua piccola figlia, Kushi.
È un uomo molto solo, che riesce a trovare un po’ di pace solo rientrando al monastero e riavvicinandosi all’insegnamento Shaolin. Più che pace, forza. La forza di affrontare il nemico, sia esso interiore o esteriore, avanzando sempre verso di esso mettendosi fuori asse.
Il viaggio nella steppa e tra le pagine del libro porta il protagonista a riprendere in mano la sua vita e anche a innamorarsi, perché finalmente sente di meritare di amare.
Manook non ci dà molti particolari fisici di questo grande, intenso, uomo. Ce lo presenta descrivendo solo le sue mani, lasciando a chi legge la possibilità di immaginarlo.
Quando, in Tempi selvaggi, ho letto il dialogo tra Yeruldelgger e il professore, incentrato sulla letteratura francese, e in cui viene citato Jean Valjean, non ho potuto fare a meno di sovrapporre l’immagine del poliziotto mongolo con quella dell’ex galeotto, eroe tragico di Hugo. Nella mia testa, Yeruldelgger è così.
Se alla fine del secondo libro, Yeruldelgger sembra aver trovato la sua vendetta, nella Morte nomade lo incontriamo ormai ex-poliziotto, nel Gobi, alla ricerca di un po’ di pace, almeno con se stesso.
Ma questa pace sembra impossibile da raggiungere: ovunque vada, Yeruldelgger incontra e si scontra con le brutture di chi invade e sfrutta il suo paese.
Chiunque, sia chi lo ama, sia chi lo odia, subisce il grande fascino di quest’uomo dilaniato dalla perdita e che ancora una volta dovrà affrontare il dolore. Vede morire piano piano il suo paese, vede morire le persone che ama.
Nei tre romanzi che lo vedono protagonista, Yeruldelgger diventa sempre più una figura mitica, un’idea, il simbolo di un paese complesso e lontano; l’archetipo degli uomini che lottano contro se stessi.
Dentro non ho più dolore. Sono morto dentro di me da un bel pezzo. Non c’è più nessuno che possa ferirmi, nemmeno tu, angelo mio.
Ian Manook
Ian Manook, pseudonimo di Patrick Manoukian, è nato a Meudon, Francia, nel 1949. Giornalista ed editore, ha pubblicato il romanzo Yeruldelgger, Morte nella steppa (2016) primo capitolo di una trilogia con lo stesso protagonista al quale segue Yeruldelgger, Tempi selvaggi (2017) e Yeruldelgger, La morte nomade (2018), poi premiato con vari riconoscimenti, fra cui il Prix SNCF du polar. la serie è stata pubblicata in Italia da Fazi. Il 27 Settembre uscirà, sempre per Fazi Editore, il suo ultimo romanzo “Mato grosso”.
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