Il purgatorio dell’angelo




Recensione di Sabrina De Bastiani


Autore: Maurizio de Giovanni

Editore: Einaudi

Collana: Stile libero big.

Genere: Noir

Pagine: 304 p.

Anno di pubblicazione: 2018

SINOSSI

La nuova indagine del commissario Ricciardi.

Perché qualcuno dovrebbe uccidere un angelo? Perché qualcuno dovrebbe sposare un dannato?

«Il bacio del commissario Ricciardi è più forte d’un colpo di pistola».Massimo Vincenzi, Tuttolibri

È maggio, e la città si risveglia per avviarsi verso la stagione più bella. Eppure il male non si concede pause. Su una lingua di tufo che si allunga nel mare di Posillipo viene trovato il cadavere di un anziano prete. Qualcuno lo ha barbaramente ucciso. È inspiegabile, perché padre Angelo, la vittima, era amato da tutti. Un santo, dicono. Un fine teologo, un uomo che nella vita ha donato conforto a tante persone. Un confessore. È maggio, e anche se il sole e la luna sono un incanto, Ricciardi è più inquieto che mai. Lui ed Enrica hanno cominciato a incontrarsi, ma il commissario non può continuare a nasconderle la propria natura, il segreto che a lungo lo ha tenuto lontano da lei. È maggio, e i rapinatori sembrano diventati così abili che il brigadiere Maione rischia di perdere la testa nel tentativo di catturarli. Forse perché sente profonda la mancanza di Luca, il figlio morto, e vorrebbe spiegarlo alla moglie. Ma non è bravo con le parole.
È maggio, è tempo di confessioni.

RECENSIONE

Ma tu, Bruno, ci credi al potere della confessione? Pensi che, confidandoli a qualcuno, i peccati pesino di meno?

Io credo che, anche se li confessi, i peccati se ne rimangono buoni buoni in mezzo alla coscienza. Magari bastasse recitarli in una litania: un segno di croce all’inizio e uno alla fine, una dozzina di Pater, Ave, Gloria e via felici, lindi e puliti come bambini. Non penso sia così facile.

Ruota tutto intorno a questa riflessione, Il Purgatorio dell’angelo, il più introspettivo, e allo stesso tempo esternante, dei romanzi della serie del commissario Ricciardi.

Il voler confessare peccati, intenti, condizioni, motivazioni, l’urgenza di farlo, è caratteristica fondante di più di un personaggio, ed è il fil rouge che accompagna ogni capitolo e azione.

L’incognita, l’indecisione non sta nel farlo o no, ma sul quando parlare, sul come dire e a chi.

Magistrale davvero Maurizio De Giovanni, che in questa prova supera se stesso, realizzando un parallelo perfetto tra il momento personale di Ricciardi e una trama gialla perfettamente congegnata e sorprendente nella sua risoluzione.

La simmetria perfetta tra l’ambientazione del caso a Posillipo, pausa dal dolore, e la sensazione di trovarsi in un Purgatorio, condizione, luogo di transizione, tra i due estremi Inferno e Paradiso, anziché generare una sospensione nel ritmo, nella tensione, nella suspense, ne è il detonatore.

E pensò che il suo purgatorio,  fatto di morti e di dolore e di sussurri e urla, era forse eterno, e in questo caso si chiamava inferno. Perché l’inferno esiste solo per chi ha provato un attimo di paradiso

perché di fronte a una condizione per definizione di passaggio, ma che si avverte stare incancrenendosi in staticità, dirompe prepotente il bisogno, come aria da respirare, di saltare il fosso, di uscire dalla zona grigia, di affermarsi, in un senso o nell’altro, sia per le vittime che per i carnefici, che lo sono, qui, prima di tutto di se stessi.

(….) Uno che per mestiere raccoglie i peccati del prossimo alla fine potrebbe pagarne le conseguenze, no?

E le paga, le conseguenze, Don Angelo, prete confessore amato e stimato dalla comunità e dai fedeli, trovato ucciso, il corpo su una lingua di roccia impervia, a strapiombo sul mare. A Posillipo.

Le indagini si sventagliano a tappeto, nei luoghi di culto, nella comunità religiosa, tra i fedeli. Unanime il plauso verso un padre spirituale reputato un santo benefattore, l’unica voce fuori dal coro scagionata (?) per lo scarso acume e per un alibi inconfutabile.

Ciò nonostante, proprio la sete di confessione di Ricciardi, consapevole di non potere né volere più portare sulle sole proprie spalle il fardello del suo dono, guiderà il commissario alla risoluzione del caso, che troverà il suo senso, il senso del dolore, – parafrasando un titolo di questa serie – in una confessione, inimmaginabile, impensabile, fino all’ultima riga.

Lascio in bianco, volutamente, ciò che accade o non accade, tra Ricciardi ed Enrica.

Perché, e prendo a prestito le parole dell’Autore, questa città negli anni Trenta, il commissario dagli occhi verdi e il suo mondo, sono entrati nel cuore di tanta gente, profondamente, con forza e dolcezza, e trovo giusto che ciascun lettore viva questa emozione senza filtri.

Mi soffermo invece sui personaggi accanto a Ricciardi – impossibile definirli secondari – per la caratterizzazione così viva e dimensionale che, talvolta anche in poche righe, Maurizio De Giovanni riesce a dare di ciascuno.

Penso a Raffaele Maione, che, con congruenza umana e di cuore, arriva dopo tanti anni passati a occuparsi delle emozioni e del dolore della moglie, a misurare su se stesso l’impatto della perdita del figlio Luca, quasi che finalmente “guardare” questa morte straziante lo aiuti a misurarsi con l’esterno.

Penso alla finezza con cui l’Autore rende questo passaggio mentale importante, dandogli la sfumatura della paura di dimenticare, alla quale si reagisce dapprima con una sorta di inganno dell’occhio.

A Raffaele non era mia capitato di avere la sensazione di vedere Luca, dopo la sua morte. (….) Eppure quella giovane guardia dai capelli rossi e il viso pieno di lentiggini era letteralmente Luca redivivo

per arrivare alla consapevolezza che l’unico sguardo possibile e inamovibile è quello del cuore.

Penso a Lucia, sua moglie, alla sua forza ritrovata, alla sua solidità.

Lucia era allo stesso tempo la direttrice dell’orchestra e l’orchestra stessa.

Penso a una comprimaria, la Marchesa Maria Civita Berardelli, che, in pochi passaggi, mi ha regalato le risate più cristalline e intelligenti di sempre, e che ha la caratura di una vera protagonista.

Penso, infine, più di tutti, a Nelide.

Un personaggio che, dalla sua entrata in scena nei precedenti romanzi, portatrice di un’eredità pesante, quella di sostituire la mai dimenticata Rosa, è cresciuto in maniera esponenziale; e il ruolo attivo che si guadagna in questo episodio è tappa significativa e meravigliosa della sua crescita. Tanto che, ante litteram, ho trovato in lei, in embrione, un germe di Sara Morozzi (Sara al tramonto, altra serie, storia, ambientazione).

Trovo vicinanza in queste due meravigliose figure, nell’essere, in maniera diversa, certo, donne di sostanza e non di apparenza, ma più di tutto nello sguardo che “vede”, nella capacità non di leggere il pensiero, ma di leggere nei gesti i pensieri.

Siamo giunti qui al penultimo atto di questa serie. Ancora uno di più, non uno di meno, in questo ciclo, perfetto.

E la bravura immensa di Maurizio Di Giovanni, che si fa già attesa del prossimo libro, trova le parole che, come un abito di taglia perfetta, non possono che vestire il sentire di chi legge

(…) rideva di se stesso. Forse (…) per aver creduto che le cose potessero andare in maniera diversa, (…) eppure non aveva dubbi che quella risata fosse peggio di un pianto dirotto.

Maurizio de Giovanni


nasce nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora.