Intervista a A. Perissinotto




A tu per tu con l’autore


La prima domanda riguarda ovviamente ciò che molti di noi, amanti del thriller, ci chiediamo e cioè come mai ha deciso inizialmente di scrivere sotto pseudonimo e di rivelare poi il suo vero nome in questo secondo giallo?

Nell’atto dello scrivere, non si inventano solo personaggi e storie, ma, in qualche misura, si inventa anche l’immagine di chi scrive. Per capirlo meglio dobbiamo immaginare noi stessi quando leggiamo un romanzo di un autore che non conosciamo: al termine della lettura ci siamo fatti di lui una certa idea, gli abbiamo attribuito un’età, un aspetto fisico e così via; non è detto che questo corrisponda alla realtà, ma quello che importa è l’immagine che abbiamo costruito a partire dal testo. Per iniziare la serie delle inchieste del commissario Kurismaa volevo che i lettori costruissero l’immagine dell’autore senza essere influenzati da un nome che già conoscevano, senza essere condizionati da ciò che Alessandro Perissinotto aveva già scritto o detto, ed ecco che Arno Saar mi è venuto in aiuto per consentirmi questa nuova partenza “da zero”. E poi, c’era anche la voglia di mettermi alla prova: sarei stato capace di creare un autore “estone” credibile? Credo di avercela fatta, visto che il primo romanzo, “Il treno per Tallinn” è stato tradotto con successo in Estonia. Forse mi sarebbe piaciuto continuare a nascondermi dietro Arno, ma conservare i segreti non è sempre facile.

Il luogo di ritrovamento del cadavere

(foto di Alessandro Perissinotto)

Ci racconta come è nato il suo amore per l’Estonia? Dico “amore” perché dai suoi gialli si evince non solo una conoscenza approfondita del paese ma anche affetto e sintonia…

L’Estonia è un Paese che non lascia indifferenti, né dal punto di vista paesaggistico, né da quello umano. Mi sono innamorato dell’Estonia prima ancora di visitarla, poiché l’Università di Tartu (seconda città estone), per molto tempo, è stato un luogo fondamentale per la riflessione semiotica e linguistica e dunque, per me che di formazione sono semiologo, la cultura estone è sempre stata affascinante. Poi sono venuti i viaggi di lavoro e quelli per turismo, con la famiglia, e ogni volta è stata la scoperta di un nuovo aspetto, di una nuova realtà. Tallinn, oltre a essere una città storica con un centro monumentale da togliere il fiato, possiede quella dinamicità, quella voglia di vivere che è tipica dei luoghi che sono stati per troppo tempo sotto un giogo pesante. In generale, tutta l’Estonia porta i segni della dominazione sovietica e della voglia di sottrarsi ad essa e, naturalmente, porta con sé tutte le tensioni di questa condizione: basta entrare in una sauna pubblica a Tallinn e osservare la disposizione delle persone; gli estoni su una panca e i russofoni sull’altra, ognuno a parlare la propria lingua, ignorandosi reciprocamente, tutti nudi eppure tutti vestiti, anzi, corazzati della propria identità nazionale.

Quale “valore aggiunto” può portare uno scrittore italiano ad un thriller ambientato nei paesi in cui la neve e il freddo sono elementi dominanti della vita delle persone e del paesaggio?

Io sono italiano, certo, ma italiano di montagna, cresciuto tra la neve e il freddo e questo, per certi versi, mi rende molto affine agli estoni. Quando mi capita di essere in Estonia per lavoro in inverno, io vado a fare sci di fondo praticamente in riva al mare, a Pirita, che è un sobborgo di Tallinn. Il “valore aggiunto” di uno sguardo esterno è però l’attenzione ai particolari: quando raccontiamo i nostri luoghi, diamo per scontate molte cose, quando invece cerchiamo di entrare in un “altrove”, la nostra attenzione cresce, l’architettura delle case, anche di quelle semplici, in legno, tipiche dell’Estonia, desta meraviglia, la normalità (per gli estoni) di una scogliera coperta di ghiaccio diventa eccezione e stupore. Nessuno meglio di uno straniero può dirci quanto è bella casa nostra.

A differenza di molti dei thriller ambientati nel Nord Europa, in cui i commissari e gli ispettori sono uomini soli, con un passato amoroso tormentato, Kurismaa vive nella sicurezza di un amore travolgente, anche se segreto, con la collega Kristina, una donna forte e determinata, che nel libro quasi un ruolo da co-protagonista. Ci racconta com’è nata l’idea di questo personaggio?

I personaggi del poliziesco sono spesso personaggi tormentati e questo perché fanno un mestiere che li porta a contatto con la morte. Marko Kurismaa alla morte non ci ha ancora fatto l’abitudine, né ha ancora accettato la morte di suo padre, avvenuta in un campo di rieducazione sovietico molti anni prima, dunque ha già molte ragioni per essere tormentato, che almeno la vita sentimentale gli sorrida! Kristina nasce da molte donne che conosco, donne capaci nel loro lavoro, donne decise che però non perdono la tenerezza. In un momento come questo, di continui femminicidi, il ruolo di Kristina, che dirige la Sezione Crimini Domestici e Violenze sulle Donne, mi sembrava importante. La storia tra lei è Marko è passionale, intensa e, al tempo stesso, non è bruciata dalla passione: tra loro l’intesa è sicura e duratura.

Nel libro il commissario Kurismaa dice: “Quando inventeranno un asocial network io sarò il primo a iscrivermi, e naturalmente, spero anche l’unico”. Internet, nel libro, è rappresentato inoltre come mezzo pericoloso che incrementa il giro di affari dell’illegalità. Com’è il suo rapporto con Internet e con i social network?

Il mio rapporto con i nuovi media è complesso. Sono sempre stato appassionato di computer (fin dai primi anni ’80) e ho insegnato comunicazione multimediale per molti anni all’università. Proprio perché internet e i social fanno parte del mio universo lavorativo, ne colgo la grandezza, ma anche i limiti: sono strumenti di grande potenza e, proprio per questo, richiederebbero un’immensa attenzione nell’uso. Invece quasi tutti li utilizzano con leggerezza, come se una frase postata su Facebook avesse lo stesso peso di una chiacchiera al bar con tre amici, o come se la rete fosse un mezzo impersonale, che non ci obbliga alle normali regole di cortesia. Quando io recensisco in rete un ristorante, un libro o un film, cerco di non dimenticare mai un sano principio di netiquette: “Non scrivere in rete nulla che non diresti, con il sorriso sulle labbra, di persona”. E poi, naturalmente, come ogni strumento potente, quando la rete cade nelle mani della criminalità, si trasforma in un’arma micidiale e ciò che accade alle ragazze che sono al centro di “La neve sotto la neve” lo dimostra.

Ho trovato davvero interessante il richiamo storico alla tragedia degli ebrei estoni deportati nel campo di concentramento di Klooga, di cui pochi probabilmente conoscono l’esistenza, rispetto ai più tristemente conosciuti campi di sterminio nazisti. Cosa ci può raccontare a proposito?

Di Klooga non si sa molto e forse non è importante conoscere i dettagli di questo particolare campo di sterminio: la logica concentrazionaria era più o meno simile ovunque. Mi interessava però citarne l’esistenza perché nella nostra memoria la tragedia dei lager sembra ridursi a due o tre nomi e a due o tre luoghi, mentre lo sterminio degli ebrei, con il suo portato di piccole e grandi complicità locali, fu un fenomeno ben più complesso.

Quali sono i suoi autori e romanzi “nordici” preferiti?

Liza Marklund, Anne Holt, Gunnar Staalsen, Arnaldur Indridason e, naturalmente, il compianto capostipite dei giallisti scandinavi, Henning Mankell. Ma questo libro deve qualcosa anche al Martin Cruz Smith di “Gorky Park”, e al Peter Høeg di “Il senso di Smilla per la neve”, sebbene le indicazioni più preziose per trasformare la neve da elemento di sfondo a chiave del mistero io le abbia ricevute dal signor Luigi, quello che mi prepara gli sci da fondo scegliendo la sciolina dopo aver preso tra le dita una manciata di neve e averne valutate tutte le caratteristiche.

Alessandro Perissinotto 

Lucia Cavaliere

Acquista su Amazon.it: