A tu per tu con l’autore
Cara Alice, eccoci qui, a distanza di poco più di un anno dall’ultimo libro che andava a concludere la storia di Vani e del suo stropicciato commissario Berganza e dall’intervista per gli amici di Thrillernord, dove entrambe in qualche modo abbiamo confessato qualche lacrima di commiato per questi due protagonisti. Sempre in quell’occasione però, tu ci avevi già anticipato che una miriade di idee erano già pronte da sviluppare esprimendoti così: “sono così tante le storie da raccontare…”.
Finalmente ci siamo, il momento è giunto e il tuo nuovo libro è finalmente fra le mani dei lettori e soprattutto è arrivato fra le mie. Tu non sai quanto ho scalpitato nell’attesa, per la curiosità di fare la conoscenza di Anita.
Vani e Anita. Simili per quanto riguarda una certa allergia alle imposizioni, ma molto diverse per quanto riguarda lo stile. La prima dark, alla stregua di Lizbeth Salander, la seconda, ovviamente anche tenendo conto del periodo storico in cui è collocata, appare molto più curata perché lei ci tiene a valorizzarsi e ad apparire. Diciamo che sa di essere bella e non lo nasconde, anche se il suo aspetto fisico spesso la mette in difficoltà perché, proprio in virtù del fatto che è bella, viene classificata il più delle volte, in modo scontato, come stupida. Quando e come è nata Anita, a chi ti sei ispirata e poi, anche a lei hai dato qualcosina di tuo?
Devi sapere (ma forse già lo sai) che, nel gergo, diciamo, narratologico, c’è una categoria di personaggi femminili che vengono definiti “Mary Sue”. Era il nome della protagonista (giovanissima, fichissima, vincentissima… e improbabilissima!) di un’antica fanfiction di Star Trek ed è passato a identificare tutte le protagoniste femminili nelle quali, come dire… si vede benissimo che l’autrice vorrebbe taaaanto tanto potersi identificare. Uno potrebbe dire che il problema delle Mary Sue è che sono troppo perfette, ma a volte – se adeguatamente corredate di qualche difetto che le renda più umane e simpatiche – si limitano a essere personaggi nei cui panni è divertentissimo stare, non foss’altro che per la durata di un’avventura. Ecco: Anita è un po’ una Mary Sue. E’ sveglia, furba, dotata di senso dell’umorismo e spiccia di modi – e soprattutto è bellissima. Anche Vani era un po’ una Mary Sue, sai?, perché, anche se non era così palesemente gnoccolona (termine tecnico), era una tosta e che si poteva permettere di fare e dire cose che noi comuni mortali ci scordiamo: stare nei suoi neri panni era molto catartico. E con Anita è la stessa cosa, forse anche più divertente: Anita ha capito che la gente vede solo la sua bellezza, e ha deciso di trarne vantaggio; farsi passare per una bella idiota le apre un sacco di porte, per esempio le permette di accedere a segreti e informazioni che nessuno protegge in sua presenza perché pensano che non ne valga la pena.
Anita, Clara, Candida, Mariele, quattro figure femminili sicuramente dissimili ma molto interessanti. Clara è la migliore amica di Anita, completamente diversa da lei per aspetto e per celluline grigie ma assieme si compensano, si supportano, si consigliano e riescono sempre a trovare un punto di equilibrio che le mantiene unite. Il merito di questa unione così forte va sicuramente attribuito a Candida, ex insegnante di entrambe che a suo tempo forse ha visto qualcosa nelle sue allieve e lo ha coltivato. Quest’ultima single, insegna dattilografia alla scuola professionale, assolutamente contro il regime, fuma come una ciminiera, legge libri proibiti e pur essendo finita la scuola ha mantenuto con queste due signorine un forte legame che le porta a ritrovarsi ogni domenica per il the e le letture libere a casa sua. E poi abbiamo Mariele, la mamma di Anita, che con la figlia ha un rapporto conflittuale a causa del suo carattere ribelle. Avrai avuto il tuo bel da fare nel costruire la parte psicologica di queste donne, così diverse, ma per certi versi anche abbastanza convergenti. Mentre ti documentavi sulla vita della figura femminile durante il fascismo, ti è mai venuto da pensare a come tu, Alice Basso, avresti potuto essere e vivere quel periodo?
Tu mi alzi la palla per una risposta tutta colorata, piena di descrizioni di caratteri femminili, come dici tu, molto diversi ma spesso convergenti, perché a ben guardare tutte queste signore, nel bene e nel male, una cosa in comune ce l’hanno: un certo bel caratterino. Ma invece io ti risponderò in un’altra maniera, cioè con una riflessione molto seria (ohibò! Ebbene sì, qualche volta pure io…). Quando dici “come avresti potuto vivere tu in quel periodo” io non posso che dirti che c’è un grande, enorme domandone terrificante che aleggia sulle teste di tutti noi, non solo la mia (lo so per certo), quando ci confrontiamo con i racconti di quegli anni: “io sarei stata capace di oppormi o avrei finito per chinare la testa come peraltro la stragrande maggioranza delle persone che mi sarei trovata intorno?” Non possiamo dirlo, ma è molto, molto presuntuoso partire dal presupposto che saremmo stati tutti degli eroi. Dunque, io non lo so cosa sarei stata in quegli anni, se un’Anita o una Mariele. Quello però che posso fare è ascoltare le storie di tutte le Anite di cui mi hanno raccontato – perché un sacco di nostre nonne e mamme sono state delle Anite! – e applaudirle e stimarle.
Anita, per l’epoca, è sicuramente un personaggio fuori dagli schemi e lo dimostra il modo in cui risponderà al suo fidanzato, nel momento in cui quest’ultimo le farà la tanto attesa, di solito, proposta di matrimonio: “Lo voglio! Ma… voglio anche lavorare”. Inizialmente non viene presa sul serio, ma poi stupirà tutti per il profondo cambiamento interiore che, anche se tenterà di nascondere (ai lettori dico, capirete leggendo il libro), apparirà evidente. Si trasforma, assimila, scopre cose nuove e addirittura si stupirà da sola per il piacere che si può provare nell’imparare, nel conoscere e nel capire che ognuno di noi, nel suo piccolo, può tentare di cambiare le cose, un passo alla volta. Meglio uno che nessuno. È stata Anita a guidarti durante il suo processo di cambiamento, o sei stata più tu a indirizzare lei?
Be’, lo sapevo già quando ho inventato la trama, che Anita avrebbe avuto quel percorso… Mi spiego meglio: io sono di quegli scrittori che la trama se l’organizzano tutta prima. Dunque, non è che mi sono limitata a immaginare Anita e poi iniziare a scriverne vedendo cosa avrebbe fatto sua sponte: sin dall’inizio ho inventato la storia e sapevo che nella storia Anita avrebbe fatto quelle cose lì, intrapreso quel percorso lì. (Posso essere sincera, anche un po’ str… anche un po’ Vani, mettiamola così? Gli scrittori che creano il personaggio e poi lasciano “che sia lui a guidarli” mi mettono sempre un po’ a disagio. Mi sembra un po’ la sindrome di Dio: faccio Adamo e poi sto a guardare. Ma inventare la storia è la parte più divertente! Mica vogliamo lasciarla fare tutta al nostro personaggio!)
Anche Sebastiano Satta Ascona si presenta come un personaggio alquanto pittoresco. Fascista, fidanzato con la figlia del fiduciario del gruppo rionale del fascio, unico traduttore e scrittore della rivista Saturnalia, nonché capo di Anita. Non ride mai, non fa emergere mai il suo vero carattere, non da confidenza e anche lui, come spesso accade, ha un lato nascosto. Ha dei segreti importanti alle spalle e ci tiene a farli rimanere nell’ombra. Diciamo che però non sempre tutto è come appare. Com’è è arrivato questo personaggio? Quando hai capito che poteva essere “l’altra metà” della storia”?
Subito. Il morso della vipera nasce dall’incontro di due storie: la storia dell’emancipazione femminile attraverso la professione della dattilografa – e questa è la fetta di Anita – e la storia del rapporto dei gialli col fascismo – e questa è la fetta di Sebastiano. Tu che frequenti giallisti a tutto spiano per via del blog lo sai benissimo: la nostra debolezza (sì, persino dei “giallognolisti” come me, che scriviamo gialli per modo di dire) è sperare sempre di essere dei fichissimi rivoluzionari, quelli che denunciano, quelli che mostrano lo sporco sotto il tappeto. Be’: sotto il fascismo, guarda un po’, era proprio così. Per il solo fatto di essere un giallista, eri automaticamente percepito dal regime anche come un pericoloso rivoluzionario che rivelava l’esistenza, anzi, la permanenza, di crimini e delitti che il regime cercava di far credere di avere debellato. Sebastiano è in questa scomoda posizione: vorrebbe essere un giallista vero, di quelli che denunciano e alzano angolini di tappeti, ma il regime glielo impedisce e cerca di incasellarlo e reprimerlo. E Sebastiano si trova in una posizione scomodissima, ma molto, molto interessante da esplorare. Aggiungerei un’altra cosa: all’inizio nominavi Berganza, il commissario coprotagonista di Vani. Berganza era – diciamocelo – l’uomo perfetto: granitico, posato, rassicurante, protettivo, una roccia. Sebastiano invece è più… più “colorato” (senza nulla togliere a quel figo di Bergy, ovviamente): è più giovane, più tormentato, ha qualche difetto, è pieno di rimorsi per i compromessi a cui deve scendere (anche se lo fa per difendere altre persone). Però è anche uno che sa chiedere scusa e sa riconoscere quando qualcuno – persino una donna – è migliore di lui. E per questo, in un’epoca di maschi ipervirili che pensano che essere uomo significhi essere un maledetto macho maschilista, Sebastiano è eccezionale, letteralmente.
“Ma io penso che sia più coraggioso strapparsi il lupo di dosso e lottare con lui alla luce, per strada, tra polvere e ululati di dolore. La lingua può essere indisciplinata, ma il silenzio avvelena l’anima.” Questo brano che tu hai citato spesso nel libro (tratto da “Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters) mi è piaciuto molto e mi ha colpita, oltre ovviamente a trovarmi concorde. Praticamente si rivela essere l’inno di questo tuo nuovo romanzo e incita in modo potente a non subire e, a non accettare certi soprusi in modo condiscendente, senza provare a cambiare le cose. A mio avviso, uno dei pregi de “Il morso della vipera” è proprio il messaggio che arriva forte e chiaro sull’importanza dell’informazione, del lasciare traccia scritta e orale per chi verrà dopo di noi nel bene e nel male, per non spegnere la memoria su ciò che è stato. In poche parole, citandoti “Parole che non hanno paura, che alzano il tappeto e mostrano lo sporco che c’è sotto…”. Credi fermamente in questo principio e cerchi il più possibile di mantenerlo vivo nella vita di tutti i giorni? In che modo?
Il personaggio di Candida a un certo punto dice una cosa molto semplice ma che si rivela illuminante per Anita: se smetti di raccontare una storia, quella storia smette di esistere; se continui a raccontarla, questa resta in vita. Raccontare storie ha questo potere pazzesco di tenere vive le fiamme, di soffiare sul fuoco. E’ la ragione per la quale per esempio io adoro i romanzi storici: raccontandoti in maniera fluente e accattivante cose realmente successe, biografie eccezionali, gesta memorabili, le tiene vive, ce le fa tenere presenti (che è un’espressione per niente casuale, se ci si pensa). E questo è il potere principale della letteratura, della parola!
Ho letto che tu conduci spesso corsi sul giallo e sul noir nelle librerie e soprattutto nelle scuole. Sicuramente poter ampliare le conoscenze di giovani menti e, soprattutto, riuscire a farlo coinvolgendoli il più possibile, in un periodo come questo, dove spesso le nuove generazioni sono più attratte da un video gioco o dai social piuttosto che da un buon libro può sembrare un’impresa complicata. Quanto è difficile riuscire a mantenere alta l’attenzione degli adolescenti, e soprattutto, a livello umano, cosa significa per te dialogare con loro?
Qui ci vorrebbe la colonna sonora di quello spot pubblicitario di qualche anno fa: “Ti piace vincere facile? Bon-ci bon-ci bo bo bo”. (La stai canticchiando nella testa, vero? Anch’io.) Vedi, le – chiamiamole – “lezioni” che tengo io riguardano la nascita del giallo e poi del noir, generi letterari che a scuola non si studiano ma che in filigrana raccontano meravigliosamente la storia sociale e anche la storia-Storia, con la maiuscola, delle epoche in cui fioriscono. La cosa bellissima, però, è che il caso vuole che le vite dei grandi giallisti della storia siano piene così, ma proprio traboccanti!, di aneddoti affascinanti, che vanno dal divertente da spanciarsi al commovente da farti piangere. Ecco: io infarcisco le mie “lezioni” di aneddoti su Conan Doyle, Agatha Christie, Raymond Chandler e via dicendo, più che di spiegazioni delle loro opere, e il risultato è che finiamo tutti a fare “Oooh!” e “Aaaah!” e “Ma non mi dire!” per due ore. Con i giallisti non ci si annoia mai!
In uno dei tuoi ultimi post pre-uscita de “Il morso della vipera” tu scrivevi che dal momento in cui hai deciso di voler raccontare la storia di Anita, avevi materiale in mano per cinque libri. Già in precedenza avevi detto che non ami le serie troppo lunghe, ed infatti anche per Vani e Berganza hai da subito avuto in mente un inizio ed una fine ben precisi. Alla luce di ciò ti chiedo, avremo la possibilità di leggere una nuova pentalogia anche per quanto riguarda la signorina Bo? E se sì, ne risentiremo parlare a breve o ti dedicherai prima al lavoro che avevi praticamente già finito e che hai accantonato per dare poi la precedenza alla storia di Anita?
Guarda, è andata così: all’inizio della serie di Vani, ho deciso subito che si sarebbe trattato di una serie di cinque libri e ho scritto subito tutte e cinque le trame. Questo perché, come hai detto tu, io sono una accanita sostenitrice delle serie pensate in maniera “organica” e progettate “a pacchetto completo”, in modo che nell’ultimo volume tutte le fila vengano tirate e ci sia un finalone degno di questo nome. Poi, dopo aver finito di scrivere il quinto libro di vani, mi era venuta un’idea per un romanzo autoconclusivo (o “stand alone”, come dicono oggi – scusa, è riemersa un attimo la vecchia purista che ho dentro). L’ho scritto, l’ho amato, riguardava anche un tema a me molto caro (la ricerca del lavoro)… e poi, proprio mentre stavo ultimando l’ultimo capitolo, un giorno due cose che stavo studiando per altre ragioni (la storia delle dattilografe nel Ventennio, per uno spettacolo che mi avevano commissionato, e la storia dei giallisti sotto il fascismo, per i corsi di cui abbiamo parlato prima) hanno fatto una pazzesca collisione nella mia testa. E da quella collisione è nata l’idea della storia di Anita, la dattilografa antifascista, che va a lavorare per Sebastiano, il giallista che deve sottostare alle imposizioni del regime. Basta, addio: da quel momento non sono più riuscita a pensare ad altro. Presente certi colpi di fulmine disperati? Da quel momento la testa mi si è riempita solo di spunti da esplorare e trame da seguire con protagonisti Anita e Sebastiano. E così ho imbastito nn un nuovo libro, ma proprio una nuova serie – anche questa di cinque libri, perché mi ci son trovata bene la prima volta! Quindi, la risposta è sì: se tutto va bene, Anita ce la dovremmo tenere, pure lei come Vani, per cinque libri.
Non ti chiedo nulla di Vani e Berganza perché ho avuto notizie confortanti, ma com’è stato il lockdown di Alice? Ho seguito la tua prova di coraggio estrema, mi riferisco al taglio di capelli fai da te che io non ho avuto il coraggio di mettere in pratica, tant’è che ho aspettato il 12 giugno (giorno dell’agognato appuntamento) come si potrebbe aspettare un regalo speciale. Oltre a ciò, come sono trascorsi questi mesi di clausura forzata? Hai avvertito in te qualche cambiamento nel modo di vedere e affrontare la vita?
Ahah! Tagliarmi i capelli da sola è una cosa che mi fa sempre passare per una temeraria intrepida! In verità non oserei mai tagliare i capelli a qualcun altro, per dire, mettiamo in chiaro subito i limiti del mio coraggio… Comunque, io durante questo lockdown ho sperimentato tutte le sfumature emotive che abbiamo visto fiorire attorno a noi: ho provato la paura, la paura-che-rischia-di-sfociare-in-paranoia, la paura ma-non-per-me-semmai-per-mio-padre-che-è-anziano, la paura che “però adesso basta, che palle, mi sono scocciata di avere paura”; sono passata per le fasi “ah, che bello però essere a casa”, “non ne posso più di essere a casa, santa polenta!” e “oh mio Dio, ma siamo proprio sicuri di poter GIA’ uscire di casa?!”; ho pensato “adesso perlomeno leggerò e scriverò l’impossibile!” e guardato in faccia il blocco non solo dello scrittore ma persino del lettore (fortunatamente poi passati entrambi); ho sperato che ne saremmo usciti migliori e fatto battutacce sulla disillusione conseguente; insomma, tutto il campionario. Quello che posso dirti è che ora stanno ripresentandosi le occasioni per girare, per uscire e viaggiare e andare a presentare Anita ad eventi pubblici in parchi o grandi spazi, e io sono super, super felice!, perché mi mancava così tanto vedere in faccia le persone e abbracciarle anche solo con un sorriso.
A cura di Loredana Cescutti
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