Intervista a Enrico Pandiani




A tu per tu con l’autore

A cura di François Morlupi 


 

 

 

 

Per quale motivo in questa indagine hai voluto mettere al centro della storia degli emarginati?

Più che emarginati, io li considero persone, le vere persone, quelle che faticano a vivere, che nessuno si sogna di aiutare. Non lo fanno le istituzioni e, soprattutto non lo fa la politica. E quelle poche persone che si occupano delle periferie, spesso volontari, si trovano spesso il bastone tra le ruote. Come è successo con i centri di accoglienza che sono stati chiusi dalla destra nel breve periodo in cui ha governato. Ho voluto raccontare le periferie, come in parte avevo fatto con Polvere, perché penso che con tutte le loro contraddizioni, le difficoltà e le tensioni, rimangano posti estremamente affascinanti. Posti dove oggi puoi trovare tante storie, dove la speranza in un futuro migliore è ancora una realtà. Credo che la gente che abita nei centri città dovrebbe recarsi nelle periferie, ogni tanto, per conoscerle e conoscere la gente che le abita. Potrebbe essere un inizio. Lintegrazione passa attraverso la conoscenza; solo se si conoscono le reciproche storie si può pensare di diventare amici.

 

Il lettore che ti conosce sa quanto tu ami strizzare l’occhio alla Francia e ai suoi valori. Sapresti dirci, se esistono, quali sono le differenze tra il noir italiano e francese? E più in generale, cosa invidi al paese e alla cultura transalpina?

Guarda, la cosa che invidio di più ai francesi è la presenza forte dello Stato, cosa che ti dà lidea che, al contrario di ciò che succede qui, qualcuno abbia a cuore la tua vita e il tuo destino. Anche se questa non è una certezza, di certo limpressione ti permette di affrontare le cose in maniera più energica e reale. Quando un francese si lamenta della politica del suo paese vorrei dirgli: prova a venire qui in Italia, vieni ad abitarci una decina danni, poi ne riparliamo. E questa mia sensazione si riflette anche nel Noir. Ho sempre amato i romanzi francesi, Manchette, Japrisot, la Manotti e tanti altri. Sanno mescolare politica e sociale, sanno raccontare le storie della gente comune, ti sanno raccontare un paese complesso, con una storia molto più lunga della nostra. Questo è sempre successo, fin dai tempi di Victor Hugo o Dumas o Zola. Per non parlare di Céline.

 

Il messaggio del tuo romanzo è universale: hai davvero la percezione che in questo paese le cose stiano peggiorando? E se sì, pensi che uno scrittore noir, come alcuni tuoi colleghi (Mankell, Markaris) debba schierarsi e evidenziare i cambiamenti sociali, economici o morali del proprio paese?

Questo paese appare senza alcuna speranza. Quando in un momento come questo, quando una pandemia mondiale ha messo il mondo in ginocchio, vedi la politica litigare per quattro poltrone e poco altro, capisci che tra la gente e chi dovrebbe governarla c’è uno scollamento totale. Non hanno la più pallida idea di quanto male stia la maggior parte delle persone, di quanto sia frustrante vedere che nessuno ha interesse a occuparsi di loro. Per uno scrittore, oggi, credo sia obbligatorio schierarsi dalla parte dei più deboli e raccontare la vita di tutti i giorni, con le sue difficoltà, le frustrazioni, le promesse non mantenute, i miglioramenti mai arrivati a compimento. Purtroppo c’è chi butta benzina sul fuoco per sfruttare il malcontento per spingere chi ha poco contro chi ha ancora meno, E questo non potrà portare che altra sofferenza e peggioramenti.

 

 

Qual è il tuo rapporto con Torino?

Torino, come ho anche scritto da qualche parte, è una città che riesce a sorprenderti anche se la abiti da oltre sessantanni. Sembra austera, ma in realtà è la sua bellezza a renderla apparentemente distante; se la conosci e la vivi e cammini per le sue strade, capisci che non è così. In realtà Torino è avvolgente, affettuosa, accogliente. E ha le più belle periferie del mondo. Sono loro, per dire la verità, a essere affascinanti, per via della loro origine operaia, per la stratificazione di culture che si è creata nel corso di successive immigrazioni. Ci sono tanti contrasti, non lo si può negare, ma molte persone lavorano e fanno volontariato perché le contraddizioni, le difficoltà e le tensioni possano essere smussate. Torino è una grande officina, la migliore per che vuole raccontare la città.

 

La scelta di protagoniste di sesso femminile è sicuramente voluta. Quant’è difficile creare un personaggio femminile e quali sono le differenze col creare un personaggio maschile? Perché hai scelto un duo femminile e non maschile?

La difficoltà principale nel raccontare un personaggio femminile, per un autore maschile, è cercare di non rendere un uomo vestito da donna. Voglio dire che  tutto è differente, tra i due sessi, il modo di pensare, di agire, di comportarsi di fronte alle difficoltà. Al contrario dei personaggi maschili, le donne hanno quasi sempre i piedi ben saldi per terra, sanno che un compito va portato a termine anche quando è terribilmente faticoso, non cercano le scorciatoie facili, come fanno gli uomini. Ovviamente non è giusto generalizzare, i deficienti ci sono da entrambe le parti, così come le persone in gamba. Ma mentre leroe mascile è sempre molto standardizzato, quello femminile è più sfaccettato, difficile da inquadrare, sorprendente e capace di unumanità priva di interesse. Per questo romanzo ho scelto due donne perché mi sembravano più adatte al discorso che avevo intenzione di fare. Da una parte perché un certo tipo di volontariato è femminile, dallaltra perché certi atteggiamenti di ristrettezza mentale in un uomo si danno per scontati, in una donna lo sono molto meno.

Enrico Pandiani

 

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