INTERVISTA AL TRADUTTORE FABIO CREMONESI




A tu per tu con il traduttore

 

 

A tu per tu oggi è interamente dedicato ad un traduttore, Fabio Cremonesi, conosciuto soprattutto come voce italiana delle opere di Kent Haruf. Ma Cremonesi vanta una grande esperienza e un curriculum molto vasto ed interessante, ed è stato un onore per noi di Thrillernord aver avuto la possibilità di fare una lunga chiacchierata, in cui ci ha raccontato i retroscena del lavoro di traduzione e moltissimo altro… date un’occhiata.

 

 

1) Fabio, hai vinto il premio come Traduttore dell’anno 2017  per la giuria di qualità de “La Lettura”,  grazie alla tua traduzione de “Le nostre anime di notte” di Kent Haruf; sei riconosciuto ed apprezzato per aver tradotto, dello stesso autore, l’intera Trilogia di Holt:  “Canto della pianura” “Crepuscolo” e “Benedizione”. Come sei diventato la sua voce italiana? In particolare, prima di affrontare la traduzione di “Canto della pianura”, l’unico già edito in Italia, hai letto la versione che ne aveva dato Fabrizio Ascari o hai preferito non farlo, forse per evitare di esserne in qualche modo influenzato?

Ad Haruf sono arrivato per caso, come succedono sempre le cose nella vita.
A  Milano stava nascendo questa nuova casa editrice, la NNE, sono miei amici, mi chiedono di fargli delle proposte, delle letture. Io non faccio quasi mai letture, perché sono un lettore lentissimo , riflessivo, non sono adatto per queste consulenze.  Comunque proprio perché sono degli amici e la cosa sta nascendo in quel momento, mi faccio dare  dei testi da leggere. Tra questo materiale c’era  “Benedizione”,  comincio a leggerlo  e mi entusiasmo.  Normalmente i grandi libri, o i libri con un grande potenziale commerciale, finiscono prima sulla scrivania dei grandi editori, se questi li rifiutano, scendono di un gradino e da questo punto di vista, una casa editrice come la NNE,  che non era ancora sul mercato, rappresenta l’ultimo gradino della scala sociale. Appena finito di leggere “Benedizione” , (una volta tanto ho letto molto in fretta, divorandolo), erano le 7 del mattino, ho mandato un whatsapp all’editrice dicendole testualmente: “guarda qui rischiamo di avere un gran colpo di fortuna, perché non solo abbiamo un libro bellissimo, ma è un miracolo che sia arrivato a noi”. Era il periodo della fiera libraria di Londra, l’editrice era lì, costretta a passare un’ulteriore notte a Stansted, in quanto le era stato cancellato il volo del rientro. Legge “Benedizione”  in una notte e ne rimane entusiasta anche lei.  Fa un’offerta per i diritti, che il giorno dopo viene accettata… comincia così il viaggio italiano di Kent Haruf. O meglio ricomincia dopo la falsa partenza del primo edito in Italia “Canto della pianura” . Sono cose che spesso succedono. E’ stato anche il caso di Carver,  che prima di essere “riscoperto” è stato per anni un Autore negletto in Italia. Fondamentalmente dipende dal fatto che c’è un editore per ogni libro. Bisogna che si incontrino libro giusto ed editore adatto.
“Benedizione” è dunque stato il primo libro edito da NNE e a noi piaceva molto che il primo titolo fosse proprio “Benedizione, perché ci sembrava di buon augurio.Quando ho approcciato “Canto della pianura”, avevo dunque già tradotto “Benedizione”.  Lo ho affrontato leggendolo tutto in inglese, poi l’ho tradotto in italiano,  e  solo in quel momento  ho preso la traduzione del collega Ascari, seguendola proprio parola per parola, da cima a fondo, perché, a mio avviso, se un libro ha già una sua storia traduttiva in un paese, sarebbe un po’ un assurdo non tenerne conto. Oltretutto, mi son detto, fermo restando che la traduzione è mia, se sulla singola parola il collega ha trovato un traducente migliore del mio, ma perché non lo dovrei usare? Trovo, di fatto, la tua  domanda  molto pertinente, perché, nella mia carriera di traduttore, mi è capitato anche in un’altra occasione di ritradurre un libro che aveva già una traduzione precedente, mi sono mosso così come descritto prima e questa mia scelta è stata duramente contestata dall’editor con cui lavoravo: lui sosteneva che, nell’ottica di una autorialità del traduttore,  quest’ultimo non possa permettersi di utilizzare parti di lavoro di altri. Io resto convinto che la mia posizione sia quella giusta, ma evidentemente mi sono molto messo in discussione su questa cosa.  In ogni caso,  la traduzione di Ascari e la mia sono molto diverse, nel senso che il mio lavoro è stato molto più facile del suo, perché c’è una linea evolutiva evidentissima nella trilogia, che si snoda da “Canto della pianura ” a “Crepuscolo”,  fino a “Benedizione”. E questa   linea evolutiva io la conoscevo, avendo già tradotto “Benedizione”, che è il punto di approdo di questo percorso stilistico. Il collega no, per il semplice fatto che “Crepuscolo” e “Benedizione” non erano ancora stati scritti. Per cui io avevo molto chiaro in testa verso dove stava andando la scrittura di Haruf, e nel dubbio tra il scegliere una soluzione più didascalica o una più asciutta, indubbiamente sceglievo sempre la seconda, perché sapevo che l’Autore aveva preso quella direzione. Circa il risultato, ovvero se sia migliore la mia traduzione o quella del collega, ammesso che abbia senso fare un ragionamento del genere, non sta a me dirlo. Ognuno ha la sua penna, il suo modo di lavorare. Ascari poi è un traduttore con un curriculum lunghissimo, soprattutto come francesista,  ed è  molto stimato; siamo due professionisti che fanno il loro lavoro.

 

 

2) Hai studiato arte, hai lavorato a contatto con i librai, hai fondato una tua casa editrice, sei diventato traduttore, traducendo dal tedesco, dallo spagnolo e dall’inglese (aggiunge “anche dal catalano” ndr): cosa c’è dietro questo meraviglioso fermento culturale? Il piacere della sperimentazione o la ricerca del “lavoro perfetto”?

A quanto hai elencato vanno aggiunti 14 o 15 anni di lavoro in Azienda, in  8 o 9 città diverse.   Dietro tutto questo c’è una persona in un certo senso volubile,  che ha  sempre bisogno di novità e che si annoia un po’ a fare sempre la stessa cosa. Penso che ci siano persone di profondità e  persone di ampiezza, dove per profondità e ampiezza intendo dire gente che approfondisce un solo filone e gente che resta più in superficie,  ma ha un campo visivo più ampio. Ecco, io certamente appartengo a questa seconda categoria di persone,  piene di curiosità e che  hanno bisogno di orizzonti ampi, anche a costo di essere un po’ più “superficiali”

 

 

3)  Nonostante alle medie e ad al liceo avessi studiato Francese e Tedesco, all’Università presi la  decisione di specializzarmi in Inglese, pur avendone fatto poche ore in corsi opzionali. Ricordo ancora oggi con precisione un  momento che per me è stato topico. Leggevo “The wings of the dove” di Henry James, andando avanti praticamente alla semi-cieca, nel senso senza interrompere la lettura  per cercare termini di cui non conoscevo il traducente.  Ad un certo punto, verso metà libro, quasi senza rendermene conto ho cominciato a “capire”, a svoltare. E’ stato un passaggio per me fondamentale, ero “dentro”. Ed e’ stata anche una sensazione unica, bellissima. Mi è tornato alla mente questo episodio leggendo una tua dichiarazione dove dicevi che uno dei momenti più belli per  un traduttore è “quello in cui si riesce a trovare la voce del testo, a entrarci davvero”. E mi sono resa conto, in un certo qual modo, di averla provata sulla pelle. Come trovare la chiave di un codice. Penso sia bellissimo avere la possibilità di provare questa emozione più volte, e credo che nella tua professione ciò sia alla base. Traducendo Haruf  hai dovuto modulare la voce diversamente a seconda dei romanzi?  Con quale hai fatto più fatica e con quale ti è risultato più immediato? E’ vero che maggiore è la fatica maggiore è la soddisfazione?

Mettiamola così, più che essere maggiore la soddisfazione, lo è la paura che ti togli dalla schiena!  Ho tradotto l’anno scorso un memoir  della scrittrice inglese Jenny Diski,  una specie di figlia adottiva di Doris Lessing, che ha scritto un libro secondo me straordinariamente bello, di una ricchezza umana e di una profondità di ragionamento decisamente non comuni. Ma è anche  un libro che da tradurre è una “rogna” spaventosa (ride). Avevo “stanziato” tre mesi di tempo per tradurlo e ce ne ho messi sei. Ti lascio immaginare gli effetti, perché i traduttori non sono pagati a tempo, ma  a pagina, per cui se ci metto il doppio del tempo a tradurre un libro è un problema mio, ovviamente. Cara grazia che l’editore non mi abbia preso a calci (ride) perché c’è  una vagonata di lavoro da calendarizzare  dopo che è stata consegnata la traduzione. Non è che si consegna la traduzione e il giorno dopo il libro è in libreria. C’è da farne la revisione, da rimandarla indietro al traduttore, da fare le bozze, rimandarle nuovamente al traduttore, dopodiché quando ci sono delle buone bozze c’è l’ufficio stampa che deve cominciare a farlo girare tra i giornalisti, poi c’è da stampare, rilegare e far viaggiare il libro. Il traduttore è una rotella in quell’ingranaggio che è il lavoro di team. Tornando a quello che mi chiedevi, il problema vero, soprattutto quando ti capita un  libro con cui fai molta fatica a ingranare,  come è  stato per me all’inizio con Jenny Diski, al di là della soddisfazione quando finalmente ingrani, c’è proprio il fatto che ti togli di dosso un’angoscia, perché ad un certo punto sei lì che dici: io non ne uscirò mai da questo libro, non troverò mai una fluidità.  E in più, quando finalmente pensi di aver trovato la voce giusta, devi ricominciare da capo. Nel senso che devi andare a rileggere quello che avevi scritto fino a quel momento e rimettere tutto a posto. Ora, se  questa cosa ti succede a pagina 20 poco male, se ti succede a pagina  150 è un’altra valanga di lavoro. Di fatto non è che butti via e riparti da zero, però rileggi tutto sotto un’altra ottica.  Tra l’altro, soprattutto con i  libri lunghi e complessi, già la fase della rilettura è, perlomeno per me, una fase angosciosissima, perché quando finisco un libro ne sono saturo e vorrei veramente staccarmene. Adesso sto traducendo un’ autrice  tedesca, di origini russe, il libro ha 400 pagine ed è  molto impegnativo,  nel senso che è un libro parlatissimo, scritto con uno stile molto informale, colloquiale,  pieno di   giochi di parole e ovviamente deve “funzionare”. Nel senso che quando lo leggi deve essere morbido, scorrevole, fluido, spiritoso.  La difficoltà aggiuntiva sta anche nel fatto che è un libro che oscilla tra 4 lingue, essendo  la storia di questa  donna nata in Russia da una famiglia  ebraica, cresciuta in Germania e poi trapiantata ad Istanbul.  Da un certo punto di vista è un libro magico, perché in questa specie di folle universo linguistico ci sono dei “giochi” per cui una stessa parola, a seconda che sia scritta in caratteri latini o cirillici, significa due cose diverse. Ovviamente questo non c’è in nota,  lo si deve far capire dal contesto. E’ una sfida impegnativa, ma mi sta divertendo moltissimo, però siamo sempre lì, alle prese con un lavoro dove se non trovi la voce giusta, rischi veramente di perdere un sacco di tempo. Per cui ribadisco, trovare la chiave non è solo felicità, ma anche la fine di un incubo (ride).  Tornando ad Haruf,  diciamo che il libro più impegnativo dei quattro suoi che ho tradotto finora  è stato  “Benedizione”, che, fatalità, è il primo che ho tradotto, Questo perché è un libro di  una semplicità disarmante e, come spesso accade, se c’è una cosa difficile da rendere è la semplicità, in quanto frutto di un lavoro  certosino  di semplificazione del lessico. “Benedizione” mi ha dato la sensazione di un libro nato di 400 pagine e poi distillato a 200 in revisioni successive.Proprio per via di questo lessico ridottissimo,   le parole si ripetono, e si ripetono in contesti diversi. Ad un certo punto arrivi a pagina 130 e il traducente che avevi dato in altre cinque occasioni nelle 130 pagine precedenti, a pagina 131 non funziona più. Questo vuol dire tornare indietro a tutte le occorrenze di quel termine e trovarne uno che vada bene per tutti i casi a seguire. Io normalmente non sono particolarmente  purista in queste cose, non ho l’ossessione che una stessa parola debba avere sempre lo stesso traducente, per carità, però in un contesto particolare come quello di “Benedizione” in cui proprio lo “senti” che l’intento  dell’Autore è  stato quello di arrivare ad  un lessico  francescano ridottissimo, in questo caso, appunto, una volta tanto, ci si  deve stare proprio attenti. Poi, soprattutto in “Canto della pianura” c’è tantissima terminologia gergale degli allevatori di bestiame  lì diventa una faccenda ostica, nel senso che ci sono parole che non trovi sui dizionari, oppure  le trovi “tecniche”,  mentre Haruf usa sempre dei termini che sono abbastanza colloquiali. Per di più nei rari casi in cui trovi  uno di questi termini, 9 volte su 10 non sai che cosa vogliano dire neanche in italiano. Io faccio un altro mestiere (ride)  nel senso io non ne so niente di allevamento del bestiame, di come si chiami  il forcipe che serve per tirar fuori i vitelli dalla mucca nel caso di un parto difficile. Questo ovviamente succede in ogni libro. Ma se il libro tratta di mestieri abbastanza diffusi è chiaramente più semplice ottenere informazioni: qualcuno nelle cerchia di amici o  amici di amici, a cui chiedere lo si  trova. Nei casi più ostici occorre  attingere al web, alla rete. Se vuoi, questa è proprio una delle cose divertenti del mio lavoro, ogni libro è un mondo che ti si spalanca davanti. Fermo restando che essere  traduttore resta pur sempre un lavoro pedante. Poi, sai per me è una medicina, esaurisco così la pedanteria che ho dentro e  poi quando spengo il computer  e inizia  la mia vita non lavorativa,  forse  riesco ad essere un po’ meno rompiscatole (ride). Seriamente, ognuno ambisce ad un lavoro che superficialmente gli  piaccia,  ma la cosa più importante, credo sia avere un lavoro che,  più in profondità , sia veramente un po’ una medicina per combattere i propri mali e i propri fantasmi.

 

 

4) Il rapporto autore – traduttore incuriosisce sempre il lettore, ma stavolta vorrei farti una domanda un po’ scomoda. TI è mai capitato di avvertire una sorta di competizione con lo scrittore? Di trovarti in  una situazione in cui hai pensato che forse quella storia, quel dialogo,  li avresti scritti meglio tu ?

Io non ho mai avuto la benché minima ambizione di scrivere in vita mia. Quindi, ad istinto ti risponderei di no, perché a me non interessa scrivere.  Detto ciò, ci sono  casi particolari. Ma non mi riferisco a  questioni di “competizione”, piuttosto di avere chiaro in mente che è vero che il traduttore lavora per l’editore, ma alla fine chi ci mette i soldi è il lettore, e la qualità è importante.
Mi spiego nel dettaglio. Io di gialli in vita mia ne ho tradotti pochissimi e in generale  narrativa di genere ne ho fatta  poca, però lì ci sono dei casi in cui è l’editore stesso che chiede esplicitamente al traduttore di migliorare un testo. Questo perché  l’editore compra e decide di pubblicare un giallo perché ha una bella trama ed ha venduto molto bene nel suo paese di origine. Non è detto però che ciò significhi che il libro è ben scritto. Per cui viene detto in soldoni  al traduttore: guarda questo libro è bello ma mal scritto, cerca di dargli una “aggiustata”. Oppure, anche se non  viene chiesto direttamente , mi capita talvolta di mettere qualcosa nelle note destinate a  chi farà la revisione, ad esempio  “questa immagine è veramente bruttina, secondo me potremmo toglierla”.  Perché anche i migliori autori ogni tanto scrivono cose brutte, diciamolo.  Io faccio la proposta, ovviamente  solo  se una cosa è irrilevante nell’economia del libro. Ti faccio un esempio, un po’ scurrile,  del libro che sto traducendo ora.  Ho scoperto che esiste un termine tedesco, lingua di  una precisione maniacale, che identifica  la presenza di aria nello stomaco e nell’intestino a prescindere dall’orifizio da cui poi quest’aria sfoga. In italiano questa parola non ha equivalente, perché nella nostra lingua può diventare “peto” oppure “rutto”. Nel libro che sto traducendo ad un certo punto c’è un “gioco” su questo termine, che ovviamente nel romanzo non ha importanza fondamentale;  nell’originale funziona bene, in italiano, dove questa parola non esiste,  per rendere quell’ immagine, mi ci sono dovuto soffermare per due righe e mezzo, dando quindi un’enfasi che nell’originale non c’è. Io diligentemente ho fatto il compitino e la ho tradotta, ma  ho messo un commento per la redazione: “guardate se questa frase la togliamo non facciamo nessun danno….” Se poi decideranno di tenerla la terremo e  se decideranno di toglierla, evviva, la toglieremo. In ogni caso,  questi interventi sono molto limitati. Quindi, per tornare al punto di partenza, almeno nel mio caso, non è questione di pensare io l’avrei scritto meglio, ma  è semplicemente dire mah, questo nell’originale funziona, mentre in italiano non funzione cosi bene. Sono proposte,  fatte più pensando al lettore che all’autore.

 

 

5)  Mi ha molto colpito un esempio linguistico, preso da “Le nostre anime di notte”, dove spiegavi di esserti trovato davanti al termine call, parola di per sé molto semplice, ma che può significare sia telefonata che visita. Nulla nella frase ti forniva elementi per stabilire con certezza se il senso che voleva dare Haruf fosse l’uno o l’altro. E tu hai scelto  la telefonata. Hai dichiarato, “la traduzione è fatta di fedeltà ma anche di decisioni da prendere”. E’ una grande responsabilità, (nel caso specifico Haruf era già deceduto per cui non sarebbe stato possibile in ogni caso chiedere a lui), perché il traduttore filtra attraverso la propria sensibilità l’opera originale e la restituisce ai lettori dandole una propria impronta. Ricordi altri casi nei quali ti sei trovato a dover prendere analoghe “decisioni”?

Partiamo da un presupposto, l’utopia del traduttore è quella del traduttore trasparente. Recentemente però ho sentito Claudia Zonghetti, attualmente una delle più grandi russiste  che abbiamo in Italia,  che ha appena ritradotto “Anna Karenina”. Lei afferma una cosa molto importante, e cioè che dobbiamo sostituire una nozione utopica ed impraticabile, come quella della assoluta fedeltà al testo, con una nozione più terrena, praticabile e realistica,  di  lealtà al testo. Ossia,  smettiamola di illuderci di fare come se noi traduttori non esistessimo, perché, di fatto, esistiamo. L’esempio che citi  tu  nella domanda, è una cosa che mi è stata un po’ contestata. Sono nato e cresciuto a Milano e lì non si va a casa delle persone senza prima aver dato un colpo di telefono. Per me era evidente, dunque, che call si riferisse ad una telefonata e non direttamente ad una visita. Poi qualcuno, giustamente, mi ha fatto notare che la  Holt   di Haruf è una cittadina in mezzo alla campagna ed i rapporti sono probabilmente meno formali. Però il mio vissuto, è quello di  milanese di nascita e  genovese di adozione ormai da decenni, e filtro, vivo,  la materia che mi trovo di fronte attraverso la mia esperienza.

 

 

6) Se lo hai visto, cosa ne pensi del film con Jane Fonda e Robert Redford, tratto da “Le nostre anime di notte”? Immaginavi così Addie e Louis?

Si  ho visto l’anteprima alla Mostra del cinema di Venezia,  accanto a Jane Fonda e Robert Redford. No, non immaginavo così Addie e Louis.  Quando ho letto che li avrebbero interpretati Fonda e Redford ho pensato che non fossero adatti, che non c’entrassero  niente coi personaggi di Haruf. In realtà sono credibilissimi, magnifici tutti e due, perché è vero che sono dei “belli”, molto glamour,  ma lo sono con tutte le fragilità che possono avere degli ultra ottantenni. Per cui vedendoli mi sono proprio ricreduto. Il film è molto esile,  si fa  guardare con piacere, è gradevole, ma si regge  tutto su di loro. Le punte polemiche, critiche o non concilianti del libro, nel film sono state tagliate via. C’è  stato un deliberato intento di rendere tutto patinato;  per dire, in una scena, la cucciolata di topolini, presente nel libro come immagine molto forte, è stata sostituita con un trenino elettrico. Il cane, descritto da Haruf nel libro come  brutto, malconcio, nel film quasi non si vede perché evidentemente se l’animale non è bellissimo  o accattivante meglio non mostrarlo. Il romanzo è ben più potente del film, che comunque in sala è stato accolto molto bene, anche se è difficile scindere il  successo personale dei due attori, dal gradimento effettivo del film. Mi sono commosso anche io nel vedere Jane Fonda ritirare il premio in lacrime. Ho pensato  una grandissima attrice,  che  fa questo lavoro da 60 anni, ha girato  con tutti i registi più importanti, nei film più meravigliosi e ancora si commuove, è bellissimo. E’ stata una serata infatti  molto carina, non mi aspettavo lo sarebbe stata  così tanto. Il tempo era pessimo, freddo e grigio, il Lido ostico da raggiungere, ti confesso che non avevo nessuna voglia di andare e invece meno male che lo ho fatto,  perché  sono stato felice di essere stato presente.

 

 

7)  Dovendo iniziare a leggere la trilogia di Holt, con  quale volume consiglieresti di partire? Tra i lettori ho sentito pareri contrastanti…..

Adesso che sono tutti disponibili in italiano,  banalmente consiglierei di leggerli nell’ordine in cui sono stati scritti. Non c’è peraltro nessun problema se qualcuno decide di iniziare da “Benedizione”, ne faccio solo una questione squisitamente cronologica. A parte “Crepuscolo” ,che va letto dopo “Canto della pianura”, perché ne è la diretta continuazione. In questo caso sì, starei attento a rispettare la sequenza. Per il resto, anche se è  vero che in  “Benedizione” ci sono un paio di accenni fugaci a quanto raccontato nei primi due libri,  si tratta proprio accenni marginali, per cui se uno non li coglie perché gli altri non li ha ancora letti,  non  perde nulla di  che. Sono più strizzatine d’occhio che altro.

 

 

8)  La nota scrittrice Silvia Avallone, dice che  “Canto della pianura” è la prova che trovare il coraggio di voler bene è l’unico gesto che abbia senso fare.”  Credo abbia con queste parole descritto alla perfezione Haruf ed il senso delle sue opere. Basti ricordare che, pur sapendo di avere pochi mesi di vita, anzi, forse proprio per quello,  l’autore decise di scrivere, e lo fece in soli sei mesi, un ultimo libro, “Le nostre anime di notte”, come a dire che nella vita bisogna sempre provare a ricominciare, provare anche di fronte all’ineluttabile, perché poi non sarà più possibile farlo. Cosa ti ha lasciato Haruf, a livello di arricchimento personale, e in cosa, se è accaduto, ha cambiato il tuo modo di vedere la vita nei suoi aspetti fondamentali (amore, morte, condivisione, fine, inizio…)?

Uno dei punti centrali delle opere di Haruf,  per me molto importante, è che noi tendiamo a scartare totalmente una persona , quando  scopriamo qualche cosa di lei che non ci piace o che conferma dei pregiudizi che abbiamo. Una delle grandi verità di Haruf è, al contrario, che una persona ha un suo valore, anche se non ci piace integralmente.  Per questo  ci invita ad  avere la capacità e la sensibilità di scindere nel complesso di una persona  un lato positivo anche rispetto ad altri lati  che non ci piacciono. Anche questo si chiama rispetto per l’altro. Una cosa è dissentire su un aspetto del carattere, della personalità, delle scelte di una persona, altro è accantonarla nella sua interezza, solo perché la pensiamo in maniera diversa. Una cosa è legittima e sacrosanta, l’altra onestamente molto brutta.

 

 

9)  Credo che l’amore per la traduzione non si possa scindere da quello per la lettura, in quanto sono due esperienze completamente diverse,  sei d’accordo? Tu quando non lavori cosa leggi?

Innanzitutto,  sia che legga per lavoro o per diletto, sono un lettore lento.  Certamente leggo meno di un tempo, perché quando sei stato 10 ore davanti al  computer a tradurre  non hai certo voglia di  stare a casa a leggere; io la sera ho bisogno di uscire, vedere gente, parlare.  Detto ciò, ovviamente, ho le mie passioni e le mie idiosincrasie.
Ad esempio, leggo pochissima narrativa di genere. Non leggo quasi gialli,  fantascienza, o fantasy. Leggo spionaggio solo se lo scrive Le Carrè. I miei grandi amori letterari sono perlopiù tedeschi o scandinavi ed in parte anche americani.  L’ultimo libro che ho letto, anzi non è proprio l’ultimissimo ma è un libro che mi è piaciuto molto si intitola “Il figlio della fortuna” di Christoph Hein. E’ davvero un libro splendido,  anche se forse inattuale, ammesso che un libro così bello possa essere giudicato inattuale, e comunque è  passato abbastanza sotto silenzio in Italia. Anche se, di fatto, Hein è un autore oggi ottantenne e credo al suo ventesimo libro, di cui almeno una quindicina sono stati pubblicati in Italia peraltro dalla stessa casa editrice. Se si continua a tradurlo e a pubblicarlo significa che un certo riscontro anche commerciale questo autore lo ha. Sicuramente vale la pena leggerlo.

Fabio Cremonesi

 

 

Ringrazio con affetto ed ammirazione Fabio Cremonesi per questo dialogo-intervista così profondo, arricchente e stimolante e per la disponibilità nel raccontarci il suo vissuto ed il suo lavoro, con passione ed entusiasmo, quelle proprie dei “grandi”….

 

(A cura di Sabrina De Bastiani e Manuela Fontenova)