A tu per tu con l’autore
Prima di rispondere alle sue domande, desidero specificare che Genova, purtroppo, non è rimasta immune da storie analoghe a quelle che narro nel romanzo, ambientato negli anni ’60. Quanto racconto può dunque può essere considerato come un “preludio” a ciò che sarebbe accaduto davvero circa un decennio dopo, con i fatti della cosiddetta “banda dei genovesi”, ugualmente feroce se non di più rispetto a quelle di cui ho scritto.
Pur avendo vissuto a Genova negli anni ’70, fino al 1984, non ho mai conosciuto personalmente alcuno di loro. Il mio è solo un romanzo, non vuole essere la storia di quella specifica banda, ho inventato episodi verosimili rispetto ai fatti realmente accaduti, dei quali rimangono tracce e informazioni sul sul web anche dopo tanti anni. (“la banda dei genovesi”- su google-e altri portali)
Visto che lei è un esordiente solo nell’ambito letterario, questo libro è arrivato negli ultimi tempi oppure lo aveva nel cassetto da molto tempo?
Questo libro è composto da diverse storie. Alcune frutto della mia fantasia, altre ispirate a storie raccolte in ambito professionale, durante i colloqui con i ragazzi ospiti della cooperativa sociale, in cui ho lavorato per trentacinque anni: persone da sempre ai margini, che vedono il riscatto della loro esistenza come una chimera, che lunghi periodi di carcerazione non erano riusciti a cambiare. Mentre le ascoltavo, non pensavo le avrei messe su carta. Poi sono andato in pensione e ho sentito la necessità di raccontarle, scriverle, portarle in tutta la loro drammatica realtà. Non ho potuto e non voglio tacerle. Ogni storia, del resto, per marginale o misera che possa apparire, ha un implicito, immenso valore.

Ogni lettore interpreta una storia a modo suo, ma c’è un messaggio inequivocabile che vorrebbe arrivasse dal suo libro?
Il messaggio che voglio trasmettere è che da certe derive – cui una persona è iniziata già in tenera età, se si trova a vivere in un ambiente socio-familiare pregno di ignoranza, violenza e sopraffazione – è difficilissimo uscire. Specie se si è lasciati soli, se si è abbandonati al proprio destino. Il carcere, per come è concepito in Italia, serve a punire e contenere, certo non a redimere o educare. Come si pensa di poter redimere un ragazzo rinchiudendolo con un altro suo simile in una cella di 3 metri per 4 per 18/20 ore al giorno, con scarse possibilità di confrontarsi con uno psicologo o un educatore? Da dove dovrebbe venire questa redenzione se la stessa persona, tentando un bilancio complessivo della sua vita, partendo dall’infanzia, è convinta di trovarsi in carcere per un atto comunque di ingiustizia? Si chiude in se stessa, concedendosi un minimo di comunicazione soltanto con chi percepisce a lei simile, qualcuno che abbia vissuto a sua volta esperienze analoghe, le stesse presunte o reali ingiustizie. E intanto la sofferenza incancrenisce e si trasforma in rabbia, odio, senso di rivalsa, in desiderio di arricchirsi per affrancarsi da un destino che non sa come cambiare. Il messaggio, ripeto, è l’impossibilità di interrompere la deriva senza un aiuto valido dall’esterno, anche professionale, certo, ma soprattutto mai giudicante. E infine, con un po’ di attenzione, specie nel prologo e nell’epilogo, si può recepire un richiamo all’ antirazzismo, con l’accoglienza semplice di bambini di “colore diverso.”
Sembra che un riscatto dall’illegalitá sia quasi impossibile con la permanenza sul territorio di origine. Sradicare un giovane socialmente inadeguato dalle proprie radici, può servire ad aumentare le possibilità di riscatto?
Serve a poco cambiare semplicemente zona o paese. Il malessere si porta dentro come un bagaglio pesante. Può servire, e a volte è risolutiva, una presenza nuova, socialmente sana, amorevole, che sappia ascoltare (come Paolina inizio cap. 30), imporsi quando è il momento, e togliere spine antiche quanto la stessa persona. Oggi è difficilissimo saper ascoltare in silenzio, per 15/20 minuti una persona che soffre, guardandola negli occhi mentre si racconta. Senza interromperla. Una volta c’erano i sacerdoti a raccogliere confidenze e dolore, a dispensare consigli e speranza. A Genova don Andrea Gallo, che nel libro chiamo semplicemente “don Andrea”, ha fatto un ottimo lavoro proprio con gli ultimi, i disperati, e non solo nelle comunità di accoglienza e recupero che ha istituito, ma prima ancora nella nave-scuola Garaventa. Oggi ci si rivolge a figure professionali, quali lo psicologo. Ma sappiamo che l’educazione comincia nelle famiglie, quando si rende consapevoli i genitori che è importante farsi disponibili all’ascolto di quanto i figli hanno da dire. Raccogliere le loro confidenze senza giudicare. “Lavorare” sulle persone nei contesti di origine ha un senso, quindi. Che se ne allontanino anche, come extrema ratio, ma a patto che lavorino poi su se stessi.
Nella storia ho trovato un’escalation di violenza che sembra inarrestabile, questi ragazzi non mostrano l’intenzione di cambiare, se manca questa volontà, c’è un modo per intervenire prima che sia troppo tardi?
Sappiamo che la legge morale – così come l’autostima e il rispetto per il prossimo – trova origine nella famiglia, nella scuola, nelle frequentazioni sociali. In assenza di questi valori, e di tutti quelli che rendono l’essere umano consapevole delle proprie azioni – il cambiamento può insorgere a causa di eventi imponderabili e improvvisi. Nel mio romanzo, per esempio, questa spinta al cambiamento dettata da un imprevisto, la sperimenta Paolina, che prende davvero coscienza della sua situazione quando si accorge di essere incinta, e decide che “Non voglio far nascere un figlio di puttana. Voglio smettere di fare la vita”. E Vittorio la abbraccia in silenzio, “Perché chi ha sofferto sa tacere quando è il momento”. L’educazione stringente, che ha spinto Paolina ad allontanarsi da casa, ha la meglio sulla sua smania di lasciarsi andare, di vivere senza regole imposte. E torna a galla prepotente la morale ricevuta fin da piccola. Ho poi inserito un lungo contrappunto, a metà del libro, ambientato nella colonia penale di Capraia, nel quale è presentato il personaggio di Sergio, pastore semianalfabeta che, in quanto ergastolano, ha tutto il tempo e il coraggio necessari per porsi delle domande, cercando per anni una risposta, e trovandola infine dentro di sé, in quel Dio (finalmente con la d maiuscola) che è l’Amore “Mai sentito addosso” in precedenza. Giunge così a una propria redenzione, attraverso un lungo e intimo dialogo con se stesso e la natura, entrando in contatto con il suo sé profondo, prendendo coscienza, frantumando il rimorso col fuoco, fertilizzando le proprie macerie con acqua viva. Arriva così a perdonarsi, e paga la sua pena accettandola senza recriminazioni. E saprà ben consigliare il Moro, con solo due parole, quando lo stesso è nel dubbio se accettare o no l’offerta di diventare un mafioso. In merito ai due gruppi criminali protagonisti del romanzo, non c’è dubbio che abbiano confini diversi nel loro delinquere. Per il gruppo di Vittorio e del Moro, chi indica il confine è la madre del Moro, Giorgia: quando i due ragazzi le confidano che porteranno due prostitute a Firenze, lei gentilmente si impone dicendo” Non vi metterete a fare i ruffiani” e poi “trattatele bene”. Il gruppo di Caio non ha confini di sorta, tanto è vero che – quando Caio regala due orecchini di perla alla madre, dicendole “ sono freschi” – la donna, pur sapendo con certezza che sono frutto di una rapina, non ribatte, e volentieri li accetta. Non pone limiti alle malefatte del figlio. Se i padri citati nel titolo paiono essere i grandi assenti, hanno tracciato un segno indelebile nei destini dei figli. Eppure, se qualcosa di buono è stato trasmesso ai giovani nel periodo della loro formazione, questo segno resta.
Giuseppe Fabro
Elvio Mac
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