A tu per tu con l’autore
A cura di Cristina Bruno
Come nasce l’idea di ambientare un romanzo in un periodo storico alternativo?
È un’idea che viene da lontano. In quella che io chiamo la mia vita precedente, ho lavorato per 35 anni come agronomo nella cooperazione italiana allo sviluppo, e ho avuto la possibilità di girare in lungo e in largo sia l’Eritrea che il Tigray, cioè la zona nord dell’Etiopia. Durante la mia prima missione in Eritrea, nel 1994, rimasi scioccato nel ritrovarmi calato in una realtà che, per quanto la storia fosse andata avanti in maniera anche drammatica (basti pensare ai quasi vent’anni di lotta di liberazione degli eritrei per l’indipendenza dall’Etiopia di Mengistu), era ancora profondamente ancorata al passato italiano. Nell’architettura, nel modo di vivere, nel cibo, nella lingua, dovunque. “Qui c’è qualcosa che a scuola non mi hanno insegnato”, pensai, e da allora ho cercato in tutti i modi di colmare questa lacuna culturale. E quindi ho studiato molto, avendo anche la fortuna di conoscere molti eritrei ed etiopi, colleghi, amici, studenti, e anche molti italiani che hanno vissuto e lavorato in quei luoghi, o che ci vivono tuttora.
A un certo punto uno si pone quasi spontaneamente la domanda: “e se la Storia fosse andata diversamente?”
Tenete presente che la battaglia di Adua, con cui si apre il mio romanzo, fu uno scellerato azzardo dei nostri militari di allora, e avrebbe potuto con molta probabilità avere un esito diverso. Se l’Italia non avesse perso avrebbe occupato il Tigray, e la colonia Eritrea avrebbe conosciuto tutto un altro sviluppo. Adua, nell’opinione non solo mia ma anche di molti storici, rappresenta un punto di svolta cruciale nella posizione internazionale dell’Italia di fine ‘800. La disastrosa sconfitta fu ancor più pesante in termini di prestigio e di immagine di quanto non lo fosse stata sul terreno. Al di là degli effetti immediati, fra cui la caduta del governo Crispi, segnò una pesante battuta d’arresto nello sviluppo del colonialismo italiano, che perse irrimediabilmente un treno che stava passando già in ritardo rispetto alle altre potenze europee. La frustrazione e la voglia di rivincita, in seguito, hanno fornito abbondante materiale politico e propagandistico alla sventurata impresa di Mussolini del ’35. Forse, chissà, un’Italia più potente e rispettata non avrebbe avuto bisogno di entrare in guerra nel 1915 per far valere le sue rivendicazioni su Trento e Trieste.
È stato impegnativo creare un mondo dove finzione e realtà, dati storici e dati inventati convivono?
Ho creato un mondo (che espressione, questa sì, impegnativa!) dove di realtà storica non c’è quasi niente, perciò da quel punto di vista è stato tutto abbastanza facile.
Più complicato, ma anche di grande soddisfazione, è stato cercare di disegnare con coerenza le conseguenze di una storia inventata sulla vita di tutti i giorni: amministrazione, trasporti, usanze, regolamenti, eccetera. Ad esempio, mi sono divertito a tratteggiare una società meticcia nella quale, pur con tutte le tensioni e le difficoltà legate alle disparità sociali fra bianchi e neri, supportate da un inevitabile razzismo strisciante, io vedo una condizione umana più moderna e progressiva di tante altre rappresentazioni reali che ci vengono proposte al giorno d’oggi.
Per quanto riguarda l’ambientazione geografica, è quella che mi ha dato meno pensiero di tutto, visto che in quei luoghi ci sono stato spesso, e non da turista. Le cose che ogni tanto non tornavano le ho prese e le ho piegate senza scrupoli alle necessità del racconto: è uno dei privilegi di chi scrive storie di fantasia. “Tanto chi andrà mai a controllare?”, mi dicevo.
Il tifo per la Fiorentina la accomuna al commissario Campani?
Purtroppo sì.
Confesso, addirittura, che ho scelto di ambientare le vicende del romanzo nel 1956 (primo glorioso scudetto viola) come una sorta di amuleto portafortuna per aiutarmi ad arrivare in fondo alla scrittura. Inoltre, le partite che fanno da sottofondo al racconto, e che determinano in gran parte gli umori del commissario Campani, sono quelle effettivamente giocate all’epoca, con le date al posto giusto e i risultati scrupolosamente verificati. Come dico alla fine della postfazione, su certe cose non si scherza.
Sono l’unico elemento di verità storica del romanzo, ma quasi nessuno, ahimè, ci fa caso…
Ritroveremo il commissario Campani in una nuova avventura?
Ho già altri quattro romanzi con protagonista il bravo commissario Francesco Campani pronti nel cassetto: la domanda andrebbe quindi rivolta al mio editore (se questa fosse un’intervista dal vivo, a questo punto ci starebbe bene una risatina).
La serialità è una delle caratteristiche di questo genere letterario, con pochissime eccezioni. Io, tuttavia, non ho scritto per mestiere, ma per il bisogno tutto personale che avevo di tirare fuori queste storie che erano maturate nella mia fantasia durante le mie varie esperienze di lavoro in quella parte di Africa.
Il commissario Campani, sua moglie Emma, l’ispettore Araya Girmay, Salvatore, Kokeb e tutti gli altri, per me, sono una specie di gruppo di amici che mi aiutano a riempire le pagine bianche.
Luca Ongaro
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