A tu per tu con l’autore
Il romanzo intreccia un’indagine contemporanea con un attentato degli anni Settanta. Cosa l’ha spinta a scegliere gli Anni di Piombo come sfondo della storia?
Va detto prima di tutto che “La notte ha il suo profumo” non è un giallo politico, anche se lo spunto sembra connotato in quel senso. In realtà, nasce dalla commistione di due idee diverse, alle quali avevo deciso di lavorare tempo addietro.
Da un lato, volevo raccontare la sorte di un ipotetico attentatore degli anni di piombo, mai individuato e rimasto impunito. Mi chiedevo quali pieghe potesse aver preso la sua vita, quali sentimenti, quali ricatti, quali ripensamenti e tormenti avessero segnato la sua strada. Chi e cosa potesse essere diventato. D’altro lato, avevo in animo anche di scrivere un’altra storia, dedicata al mito dell’università e della giovinezza, che specie per alcune generazioni ha avuto, e per certi versi continua ad avere, un peso importante. Mi ha sempre colpito quanto quel periodo venga da alcuni sovrastimato, rispetto all’economia di una intera esistenza. E proprio per questo, volevo raccontare una vicenda dove quegli anni fossero stati sì cruciali, ma non in chiave positiva. Piuttosto, un punto di svolta che avesse rovinato le esistenze, invece di salvarle.
A un certo punto, mi sono chiesto se fosse possibile unire le due anime in una stessa storia: proprio questa scelta mi ha consentito – o almeno questo era l’intento – di raccontare uno strano delitto sul quale Padova e il suo turbolento passato stendono ombre inquietanti e dolorose, una specie di morte collettiva e protratta nel tempo.

Padova emerge come un luogo ricco di contrasti tra passato e presente. Quanto è importante la città nella costruzione della trama e nell’evoluzione dei personaggi?
Di massima, in una storia crime il luogo dove si svolge la vicenda assume un peso notevole, perché non rappresenta solo una ambientazione ma piuttosto un contesto. Il giallo e il noir sono generi connotati da una marcata territorialità, in Italia e anche altrove. Il tratto non è casuale: il giallo ha a che vedere con la vita, la morte, i corpi, la fisicità, i sentimenti, le biografie. E tutti questi elementi si sviluppano sempre in una data terra, in una città che ha la sua anima, in una precisa regione, in un paese definito. Le cose non nascono dal nulla, né si sviluppano allo stesso modo dappertutto. A Padova, ad esempio, la conflittualità legata agli anni di piombo è rimasta molto viva, mutando col tempo in una specie di mitologia generazionale malintesa, all’ombra della quale si sono sedimentati vecchi rancori, sviluppati equivoci, amori, odi, amicizie, ambiguità, strani legami. L’ho sempre trovata una cosa interessante e singolare e credo andasse raccontata.
Il vicequestore Carlo Oriani è un protagonista con una forte identità. Come lo descriverebbe e quali aspetti della sua personalità la affascinano di più?
Carlo Oriani è un tipo simpatico e smaliziato che ha poco dell’eroe e certo non fa mistero della propria profonda umanità. Uno di quelli che, per citare Lucio Corsi, nemmeno da vecchio saprà cosa farà da grande. È un poliziotto che non teneva in modo particolare a fare il poliziotto, ha studiato legge senza gran convinzione, voleva fare il giornalista ma poi con l’arrivo repentino delle figlie s’è trovato alla ricerca di un lavoro sicuro: e la polizia gli è parsa una soluzione accettabile per rimanere legato alla cronaca, alle vicende delle persone. Ama la notizia più che la giustizia, detesta la burocrazia e i tribunali. Ragiona con la sua testa, non idolatra l’autorità e se serve va per la sua strada, assumendosi la responsabilità di scelte anche coraggiose. A lui interessa andare al fondo delle cose, comprenderle senza pregiudizi. E questo alla fine si traduce in un misto di caparbietà, passione ed empatia che gli consente di addentrarsi sotto la superficie delle storie, avvicinandosi alla gente. In una indagine, prima del “chi” vuole capire il “perché”. E non assume mai atteggiamenti né rigidi né scontati. Mi piace per tante ragioni, forse soprattutto perché senza prendersi troppo sul serio è capace di fare sul serio, sempre rimanendo una persona normale, per molti versi contenta di esserlo. E comunque con la consapevolezza che nessuno deve mai sentirsi troppo lontano o diverso da coloro sui quali tocca indagare.
Il romanzo affronta un caso che riapre ferite del passato. Ha trovato più difficile costruire la parte poliziesca o quella storica del racconto?
Vari autori sono soliti ribadire che attraverso il giallo si parla anche di molto altro. Ma io trovo sempre molto intrigante il mistero e l’indagine, che nelle mie storie non rappresentano mai dei pretesti: l’indagine e il mistero rimangono centrali, se non tutto sono quasi tutto. E la soluzione deve essere convincente, è una questione di lealtà, un punto fondamentale del patto tra l’autore di genere e i lettori: non puoi creare un mistero e poi lasciarlo tale, giocare con i nodi non sciolti, non è cosa. Sulla parte storica ci si può documentare, l’importante è rappresentarla in maniera credibile e in una misura funzionale alla storia. Ma è la parte crime a rimane il fulcro, il resto è al suo servizio, il che non vuol dire che non conti, anzi. Proprio per quanto ho detto, la parte crime resta anche la più difficile e stimolante da costruire: non dev’essere banale, deve funzionare come un meccanismo privo di incongruenze e ricco di implicazioni e allo stesso tempo deve colpire emotivamente e in qualche modo entrare in sintonia col lettore.
Il libro sembra suggerire che il passato non sia mai davvero sepolto. Pensa che in Italia ci siano ancora ferite irrisolte legate agli Anni di Piombo?
La narrativa e la letteratura, così come il cinema e la fiction in generale, sono zeppi di riferimenti e riflessioni in merito all’influsso più o meno forte del passato sugli eventi successivi, sulle grandi e piccole cose, sulle biografie dei singoli e talvolta dei popoli. Il passato può indirizzare le rotte per tanti versi e in tanti sensi, non sempre secondo traiettorie prevedibili. Quanto agli anni di piombo, l’impressione è che quel periodo confuso e complesso abbia lasciato sul terreno non solo cicatrici mal rimarginate e ferite non del tutto guarite, ma anche elaborazioni fuorviate e a volte fuorvianti, revisioni a volte mitizzate e foderate di retorica. Quando invece si parla di anni costellati da una violenza gratuita e diffusa, inutile e spesso velleitaria, da sciami di atti criminali ammantati di pretesti politici o peggio, ideali. Uno sfondo sinistro, inquietante quanto inquieto, sul quale poi si stagliano in primo piano alcune grandi vicende sulle quali, come noto, mai si è fatta integrale chiarezza. Da piazza Fontana alla vicenda Borghese, dalla tragedia di Moro alla strage di Bologna, solo per limitarsi a pochi esempi eclatanti.
Il titolo La notte ha il suo profumo evoca un senso di mistero e nostalgia. Quali elementi della narrazione noir e del thriller ha voluto esplorare di più?
Il titolo richiama un celebre brano di Lucio Dalla, “Cara”. Un brano che riveste un certo peso nella storia, perché importante per uno dei protagonisti, che ne fa il leitmotiv di una fase della sua vita, improntata anche, per certi aspetti, a una combattuta e amara forma di nostalgia. Quanto agli elementi noir e thriller, volevo raccontare una storia che contenesse due misteri legati l’uno all’altro in maniera tanto salda quanto poco chiara, che riguardasse un gruppo di persone legate allo stesso modo in maniera forte e oscura e che questa vicenda si sviluppasse in un tempo tanto lungo da rappresentare, a sua volta, un elemento di inquietante anomalia. Inoltre, volevo che la tensione crescesse nel corso della storia fino a un punto di rottura finale, anche violento e allo stesso tempo congruente con la forza delle passioni in gioco. E volevo concludere con un colpo di scena, un disvelamento tale da dare risposta agli interrogativi rimasti aperti e allo stesso tempo da offrire una prospettiva in parte diversa sull’intero caso.
Nel romanzo si parla di una “canzone indimenticata”. La musica ha un ruolo simbolico nella storia? E c’è una canzone particolare che l’ha ispirata?
C’è tanta musica, in questa vicenda. Come tende a essercene tanta, in generale, nelle mie storie, che costruisco un po’ come sceneggiature di film. Lo sviluppo dell’azione io lo devo vedere, immagino gli attori che potrebbero interpretare i miei personaggi e allo stesso modo elaboro un ambiente musicale che diviene parte del contesto, come una colonna sonora. C’è sempre una specie di playlist, ad accompagnare le storie che scrivo. In questo caso, la canzone indimenticata è il brano di Lucio Dalla di cui dicevo, “Cara”. Ma poi la musica segna anche alcuni passaggi chiave del romanzo e d’altro canto un ruolo importante nella storia ce l’hanno un negozio di dischi e il suo titolare. La musica, dunque, entra in gioco in vari modi. A volte è una questione di legami tra la musica e le persone, come per il caso del brano di Dalla. Altre volte il richiamo è legato all’atmosfera di una scena o alle scelte di un personaggio. E così, ad esempio, ho immaginato che “By this river” di Brian Eno fosse espressiva dell’atmosfera dell’epilogo della storia e “It was love” di Frank Duval il pezzo giusto in un momento fortemente drammatico della vicenda. Non a caso, Duval: un compositore che realizzò molti brani presenti nella serie dell’ispettore Derrick le cui atmosfere livide, che pure oggi possono apparire talora datate, ho sempre sentito nelle mie corde e trovato di grande fascino.
Prendendo ispirazione dal romanzo, ci sarebbe un tema, in particolare, su cui vorrebbe far riflettere i lettori?
Premetto una considerazione: io non sono convinto che la narrativa, specie la narrativa crime, debba sempre e per forza trasmettere un messaggio, anzi. In realtà non lo penso nemmeno della letteratura, del cinema o di altro. Di questi tempi si avverte a tratti una insopportabile tendenza a cercare o esigere un insegnamento dappertutto, come se l’intrattenimento o il prodotto espressivo dovessero per forza portare con sé qualcosa che vada oltre una storia interessante o avvincente. Ecco, io mi tengo ben lontano da questa prospettiva, non avendo l’ambizione di insegnare niente a nessuno e preferendo semmai il proposito di costruire, con le mie storie, suggestioni efficaci o esplorare vicende umane delicate, il che è ben diverso. Questo però non vuol dire che la narrativa ben fatta, anche quella di genere, non possa offrire spunti anche importanti di riflessione, e per certi versi, se funziona e raggiunge il suo scopo, giocoforza finisca col farlo. “La notte ha il suo profumo” contiene tante cose, ma certamente è una storia imperniata su passioni forti che continuano a fermentare sottotraccia per decenni e in parte mutano, senza perdere quella loro forza, in più di un caso disperata. Questo vale per gli amori, per gli odi, per i rancori, per le amicizie e per tanto altro. Ecco, non è vero che il tempo, anche si trattasse di mezza vita o più, abbia di per sé il potere di smorzare i moti dell’anima. Si potrebbe dire che certi sentimenti, certe passioni, certe memorie emotive non vadano mai in prescrizione. Questo, senza dubbio, è un tema centrale nella storia che ho raccontato.
A cura di Giusy Ranzini
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