Intervista a Oliver Truc




A tu per tu con l’autore


 

My home is in my heart
it migrates with me
…You know it brother
you understand sister
but what do I say to strangers
who spread out everywhere
how shall I answer their questions
that come from a different world.

da Trekways of the Wind, Nils-Aslak Valkeapää

 

 

In questo joik (forma di canto tradizionale Sami) del poeta, scrittore, musicista, lappone Nils-Aslak Valkeapää, trovo vi sia l’essenza della cultura Sami che tanto bene ci viene raccontata e descritta nei thriller di Olivier Truc. Ne parliamo oggi con l’Autore, che ringraziamo per la sua disponibilità a dialogare con noi.

 

Leggendo i tuoi romanzi, non si può restare indifferenti all’impatto fortissimo che ha l’ambientazione. La geografia della storia che vai a raccontare. Le tue descrizioni dell’ambiente hanno davvero un largo respiro ed una vividezza potente. Il fatto è che tu “nasci” giornalista, mestiere che continui a praticare. Ed il linguaggio giornalistico prevede un taglio molto asciutto, essenziale, diretto. Nei tuoi libri al contrario maneggi e domini uno stile largamente descrittivo, che abbraccia luoghi, usi, costumi ed introspezione dei personaggi. Come hai scoperto queste due anime in te e come ci convivi?

In verità, neppure da giornalista ho mai del tutto adottato uno stile conciso ed asciutto. Ho sempre scritto articoli e reportage abbastanza ampi come contenuti descrittivi e di contesto. Vero è che la logica giornalistica prevede comunque delle strutture stilistiche e degli spazi limitanti. Avendo fatto il giornalista per trent’anni ho accumulato molta frustrazione in questo senso. Anzi penso proprio che i thriller, i romanzi, “nascano” per permettere ai giornalisti di sfogare questo genere di frustrazioni (ride n.d.r). Io almeno ho cominciato a scrivere libri proprio per questo motivo.

 

Dalla Francia, a Stoccolma, alla Lapponia. Lingue diverse, mentalità diverse. In quest’ottica, cosa ha motivato la scelta di spostarti a Nord lasciando la tua patria di origine? E, soprattutto, cosa hai trovato che ti ha convinto a restare?

Una donna. È stato per una donna. Vivevo a Montpellier e lì ho conosciuto una donna svedese. Era il 1994 e sarei dovuto partire da li a poco per il Libano. Laggiù erano in corso dei conflitti e per un reporter era uno scenario interessantissimo da approcciare e raccontare. Invece pochi mesi dopo mi sono trasferito in Svezia, una delle nazioni più pacifiche in assoluto. Mai più avrei pensato di ritrovarmi lì, non ero mai stato particolarmente attratto dal Nord e lo conoscevo molto poco. Per cui la ragione, ebbene sì, sono le svedesi, anzi una svedese, – mi raccomando scrivi UNA – (ride n.d.r) e ancora oggi è lo stesso motivo per cui sono rimasto.

 

Veniamo in particolare alla cultura Sami, cosa ti ha portato a voler ambientare le tue storie in Lapponia e a scegliere i tuoi personaggi tra i suoi abitanti? In Italia, la Lapponia è massivamente collegata allo stereotipo di essere la “casa” di Babbo Natale. Attraverso i tuoi libri, al contrario, emerge e trova larga diffusione la realtà di un popolo “semplice” nello stile di vita, forte delle sue tradizioni, ma allo stesso tempo “complesso” nel folklore e nelle credenze. Cosa ti ha attratto di questa realtà e come ti sei accostato a questo popolo? Quanto di te, se c’è, è nei tuoi protagonisti, gli investigatori dell’unità della polizia delle renne Klemet Nango e Nina Nansen?

Essendo per formazione e deformazione professionale molto interessato ed attratto dai conflitti e dalle realtà contrastate, ho iniziato ad interessarmi alla Lapponia ed alla cultura Sami. Non solo in Italia, ma anche in Francia ed addirittura in Svezia, la Lapponia è presentata e percepita attraverso articoli e riviste, come la casa di “Babbo Natale”. Questo mi ha incuriosito e mi ha spinto ad approfondire la materia. La realtà che ho trovato è in effetti una realtà complessa e conflittuale. Il personaggio di Aslak (uno dei protagonisti dell’Ultimo Lappone, un allevatore di renne che conduce la sua esistenza ignorando volutamente tecnologie e cambiamenti portati dalla “civiltà” e che proprio per questo suo vivere nella tradizione rifiutando le “contaminazioni”, viste come aggressive ad impattanti, della modernità, è addirittura maggiormente rispettato, ndr) è frutto di mia invenzione, ma ha preso forma attraverso le parole di molti Sami con i quali ho dialogato. Ancora oggi la maggior parte di loro è in conflitto con la “modernità”, la rifiuta, evidenziandone gli aspetti negativi. Ad esempio le costruzioni moderne che sono state edificate hanno “mangiato” terreni, che erano spazi eletti all’allevamento delle renne, forma di sostentamento primaria di questo popolo. L’introduzione dell’uso delle motoslitte, molto onerose da mantenere, ha causato l’obbligo di rivolgersi alle banche per avere prestiti e la necessità di lavorare ancora più duramente per restituire i soldi. Ciò ha contributo anche a generare ulteriori conflitti interni e malcontento. Per questo lo stile di vita che conduceva Aslak è visto tuttora come migliore ed auspicabile. Il ruolo di Klemet e Nina nella storia dovrebbe essere quello di fornire ai lettori uno sguardo neutrale su questa realtà. Di fatto Klemet è per metà Sami e questo gli genera anche qualche contrasto interiore, mentre Nina, che proviene dal sud della Norvegia, è totalmente una tabula rasa di fronte a questa realtà ed il suo osservare, le domande che pone, le sensazioni che prova non sono filtrate attraverso nessun preconcetto. In questo senso, nonostante Nina sia un personaggio femminile, mi riconosco in lei, perché il suo approccio verso questa cultura, i suoi quesiti, sono i miei.

 

E’ davvero particolare e rende molto la misura delle cose e le transizioni, la scansione temporale dei capitoli de L’ultimo lappone, basata sulle ore di luce nelle giornate. Ci sono molti studi e teorie generaliste basate sull’idea che la poca luce sia causa di depressioni e suicidi e favorisca gli atti criminosi. Anche se queste teorie spesso sono contestate, se non addirittura confutate dalle statistiche, non si può non tenerne conto, anche solo a livello di ipotesi. Ha influito questo pensiero nella tua idea di scrivere thriller ambientandoli appunto in Lapponia? O hai pensato che questo genere letterario, di grande presa sul pubblico, avrebbe agevolato a più ampio raggio la diffusione della cultura Sami, come in effetti è, data la popolarità ed il gradimento dei tuoi romanzi?

Di fatto queste teorie sono esclusivamente la rappresentazione di un cliché. Il tasso di suicidi è decisamente più elevato in Francia, in Ungheria, in Lituania. La luce non è un fattore determinante. Vero è che soprattutto tra i giovani il tasso di suicidi, pur non dovuto alla mancanza di luce, è di una certa rilevanza. Tanto che anche le Autorità si stanno adoperando con incontri e protocolli per affrontare e risolvere la questione. È un fenomeno in prevalenza ascrivibile alla difficoltà, alla disillusione, che riscontrano le nuove generazioni nel portare avanti mestieri e stile di vita nel rispetto della tradizione (vista come preferenza di vita) trovandosi di fronte l’inarrestabile avanzata della cultura moderna e tecnologica. Ora sto scrivendo un romanzo storico, che attinge elementi da L’ultimo lappone e da La montagna Rossa. Poi ho già in progetto di scrivere almeno altri due libri della serie di Klemet e Nina. Nel secondo di questi due affronterò proprio il tema del suicidio. Ho scritto molti articoli per “Le Monde” sulla cultura lappone, ma sentivo l’esigenza di parlarne più diffusamente, anche perché non era possibile che ogni giorno uscisse sul quotidiano un articolo sulla Lapponia. Avrei potuto scrivere un libro di taglio più giornalistico, (i miei primi due lavori di fiction, uno la biografia romanzata di un francese sopravissuto ai Goulag, – L’Imposteur Calmann – Levy 2006, ndr – , l’altro una storia di sommozzatori partita nel 2004 da un’inchiesta per Libération dalla quale è stato anche realizzato un documentario per France 5 (La dernière plongée – ndr) collegata ad uno scandalo riferito alla questione del petrolio nel mare del Nord, erano di fatto opere di taglio docu-giornalistico) ma piano piano il tutto è virato verso una storia gialla, perché è si un genere di più alta diffusione, ma maggiormente perché ho sentito il bisogno di far parlare i personaggi, entrare nella loro interiorità, psicologia, dinamiche, e far sì che anche il lettore potesse entrare dentro di loro. Per cui il fatto che abbia iniziato a scrivere gialli è dovuto al fatto che è stata la storia che volevo raccontare a “chiedermelo”.

 

Ti sei inserito nel solco della migliore tradizione del thriller nordico, pur innovandolo nei temi e nei contenuti, a partire dal descrivere uno stile di vita molto lontano da quello attuale e dove gli effetti speciali non sono dati da cyber tecnologie ma sono quelli della natura, umana e geografica. Per converso, vorrei salutarti chiedendoti cosa pensi della tradizione gialla francese dal polar in avanti e se in qualche modo riconosci nei tuoi libri una sua influenza.

Non avevo mai letto polar e noir francesi prima di diventare scrittore ed iniziare a presenziare a manifestazioni e festival. Incontrando durante questi eventi molti autori miei connazionali ho iniziato a leggere i loro libri. Devo dire che mi piacciono molto, ma non ti farò alcun nome in particolare perché sono davvero molti e non vorrei far torto a nessuno. Posso dunque dire di non essere stato influenzato dal polar di tradizione francese perché quando ho iniziato a scrivere, non lo leggevo.
Posso dirti invece, che ad influenzare i miei libri ed a renderli “vivi” sono state tutte, tutte le persone con le quali ho parlato, che mi hanno regalato le loro esperienze , le persone che ho incontrato nella mia carriera giornalistica. E che qui colgo l’occasione per ringraziare.

Olivier Truc

 

Ringraziando ancora una volta Olivier Truc per aver dialogato con noi, anche alla luce di queste riflessioni, non vediamo l’ora di leggere il terzo episodio della sua serie crime, La Montagna rossa, pubblicato da Marsilio.

Sabrina De Bastiani

 

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