Intervista a Roberto Alajmo




A tu per tu con l’autore


Prima di tutto mi preme far i complimenti all’autore Roberto Alajmo. Il romanzo mi è piaciuto, mi ha divertito e gli riconosco un taglio moderno e originale.

Troppo buono.

In altre occasioni mi è capitato di lodare scrittori di romanzi gialli che hanno affidato le indagini della loro storia a uomini comuni, snobbando i soliti ispettori abili e dal carattere introverso. Nel caso di “Io non ci volevo venire” si è andati oltre: l’autore ha riposto l’incombenza della ricerca di Agostina Giordano, una giovane donna scomparsa, nelle mani di un completo inetto. Il protagonista, Giovanni Di Dio, è un personaggio ignavo, solitario e “scimunito”, tendenzialmente l’ultima persona al mondo in possesso delle competenze per eseguire un compito tanto delicato. Un individuo il cui unico scopo della giornata è quello di dormire nel sedile reclinato della Panda aziendale, durante le ore di lavoro, e di completare “il ciclo di sonno” una volta rientrato a casa. A parte mettersi a mangiare. In questo senso: cosa l’ha ispirata nella scelta del protagonista? È una scelta di fantasia, adattata alla trama che aveva già in mente, o ha costruito prima Giovà e solo successivamente gli ha edificato la storia intorno?

Ho immaginato innanzi tutto il personaggio, ricalcandolo su alcuni modelli letterari. Diciamo 50 per cento di Giufà, 30 per cento di Oblomov, 20 per cento di Chance il giardiniere, e anche un dieci per cento di Bartleby. Volevo sovvertire il genere (cosa che in verità credo vogliano fare tutti quelli che si mettono a scrivere un poliziesco), ma anche misurarmi con una sfida difficile: rendere operativo un investigatore che è per sua natura totalmente incapace.

Ruolo di fondamentale importanza è affidato ai personaggi femminili che ruotano attorno alla vita del protagonista: la madre Antonietta, la sorella Mariella, la zia Mariola, la vicina Mariangela e la stessa Silvana. Sono scaltre, determinate, dinamiche. Concorrono a costruire l’idea di un mondo che nel momento del bisogno converge e si supporta, contrapponendosi a quello maschile più statico e che si sottomette al volere e alla guida di un’unica persona al comando (Zzu). Quello che le muove è solo il senso innato di protezione nei confronti di Giovanni o è un modo per esaltare il senso pratico e le qualità che spesso ignoriamo delle donne?

C’è una funzione drammaturgica, intanto: dato un investigatore incapace e presupponendo che bisogna svelare un mistero, serviva un comitato investigativo che spingesse l’azione. A questo servono le donne di Giovà. 

Poi c’è un dato antropologico: le donne nella famiglia siciliana hanno un ruolo spesso recondito ma cruciale. Su di loro si fonda l’efficienza della casata, sotto svariati punti di vista. Il paradosso è quello di una società che è al contempo più maschile e maschilista che femminile ma anche più matriarcale che patriarcale, per certi aspetti.

Il romanzo è ambientato in Sicilia, c’è la mafia, c’è un rapimento, c’è un’ammazzatina. Nonostante possano apparire stereotipi già visti, ben presto gli argomenti assumono una propria connotazione. E la caratterizzazione dei personaggi contribuisce a evidenziare questa divergenza: di Giovanni abbiamo già detto che è un eroe/antieroe, ma è anche il boss Zzu ad apparire diverso dal solito cliché del mafioso: deve sopportare e arrendersi all’ignoranza e all’inconcludenza dell’incapace a cui ha affidato un importante incarico. I dialoghi tra i due sono meravigliosi, son fatti di un dire non dire composto da un misto di omertà, paure e incomprensioni. In questo modo nascono scene spassose e dissacranti. 

È un complimento che mi fa particolarmente piacere. I dialoghi sono una specie di fissazione, per me. Quando leggo un romanzo o vedo una fiction ambientata in Sicilia mi dispero quasi sempre per i dialoghi. Per la loro proliferazione, specialmente. Io credo che più del parole contino i gesti e persino la prossemica. Quando scrivo i dialoghi cerco di rendere questa “semplice complessità”.

Possono la letteratura e testi come il suo dare un contributo e aiutare a esorcizzare i mali del mondo per affrontarli con nuovi occhi?

Non vorrei caricare nessun romanzo di una tale responsabilità. Mi accontenterei di mostrare la realtà sotto una luce diversa e, per quanto grottesca, più verosimile. Vedere il male con nuovi occhi sì: ma affrontarlo è un discorso fuori portata, per la letteratura.

Ho trovato azzeccate le scelte stilistiche: la presenza del narratore onnisciente sempre mai invasivo, le brevi digressioni per la presentazione dei personaggi, le frasi sospese, il dialetto a piccole ma sostanziali pennellate. Tributo ai conterranei che l’hanno preceduta nella nobile arte della scrittura, e nel caso quali sono i suoi scrittori di riferimento, o tanti anni di sperimentazione e di ricerca per trovare l’attuale forma narrativa personale?

Ho sempre avuto una venerazione per Leonardo Sciascia, come scrittore e come intellettuale. Io credo di essere molto diverso, e non smetto di domandarmi se a lui sarebbe piaciuto quel che scrivo. La mia linea araldica dovrebbe essere quella formata da Pirandello, Brancati e Sciascia. Ma credetemi: arrossisco, mentre lo dico.

Roberto Alajmo

A cura di Gabriele Loddo

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