A tu per tu con l’autore
Romano, vorrei iniziare con una domanda personale. La scrittura, per quel che ho letto nella tua bio, non è la tua professione ufficiale. Quest’ultima, direi, non ha alcun punto in comune con la scrittura.Come nasce Romano De Marco scrittore? Perché hai sentito l’esigenza di scrivere, di creare storie e personaggi con una loro vita e un loro trascorso? Come è cambiata la tua vita dopo aver dato la luce a così tanti personaggi?
Penso che tutti, nell’arco della vita, sentano prima o poi la necessità di esprimere la parte creativa di sé stessi. C’è chi lo fa con la musica, il teatro, chi con la fotografia, chi ancora con la pittura o qualche altra attività artistica. Io, non sapendo fare nient’altro, ho optato per il raccontare storie. La scrittura per me ha anche una funzione catartica… benché la mia sia una narrativa di intrattenimento, riesco a trattare temi esistenziali e personali, senza che i miei lettori ne avvertano il peso, perché lo faccio attraverso i miei personaggi che hanno tutti, dentro, qualcosa di me. Se la scrittura ha cambiato la mia vita? Certo, tantissimo, rendendomi una persona più equilibrata e consapevole (forse per questa sorta di “autoanalisi” cui accennavo sopra) e mi ha dato l’opportunità di incontrare tanta gente straordinaria, autori e lettori, che altrimenti non avrei mai conosciuto.
Romano, il tuo ultimo romanzo, “Nero a Milano” sta riscuotendo molto successo.Aspettavamo da tempo un nuovo capitolo della omonima serie (che comprende, per chi non lo sapesse i due romanzi “Io la troverò” e “Città di polvere” rispettivamente del 2014 e del 2015) ma tu ci hai sorpreso e deliziato con nuove tue creature (mi riferisco a “L’uomo di casa” e a “Se la notte ti cerca”). A cosa è dovuta questa pausa? Pensavi forse di non dare mai più voce ai tuoi celeberrimi personaggi Marco Tanzi e Luca Betti?
La risposta è molto semplice: “Io la troverò”, il primo romanzo della serie, tra le due edizioni e gli ebook ha venduto oltre 10.000 copie. “Città di polvere”, il secondo, nel complesso ha venduto circa la metà. Per me è stato un segnale inequivocabile di necessità di cambiamento. Dobbiamo scrivere ciò che ci piace ma senza prescindere da quello che i lettori vogliono leggere. È un equilibrio complesso da raggiungere per un autore, indubbiamente, ma sono convinto che sia mio dovere cercare di perseguirlo. Per questo dopo “Città di Polvere” ho preso un anno di pausa e ho deciso di cambiare nettamente direzione, accantonando il poliziesco noir e scrivendo un thriller “puro” ambientato negli Stati Uniti. Non è stata una decisione facile perché, personalmente, vorrei scrivere solo e sempre di Tanzi e Betti, due personaggi che ormai sono per me dei cari vecchi amici. Ma la mia scelta si è dimostrata giusta, visto che “L’uomo d casa” ha avuto un ottimo consenso e ben 4 ristampe, oltre a una edizione economica a sua volta ristampata. In seguito ho iniziato un riavvicinamento alla saga di Tanzi e Betti, con uno “spin off” di Laura Damiani, personaggio che aveva interagito con loro come comprimaria, in entrambi i romanzi precedenti. E alla fine sono tornato, per così dire, a casa… Ora mi trovo nella stessa situazione: benché sia grande la vogli di continuare questa serie, sto scrivendo altro e non penso di tornare a raccontare le storie di Marco e Luca prima di altri due o tre anni.
Ho definito Marco Tanzi e Luca Betti “due facce della stessa medaglia” perché sono personaggi diversi tra loro nel carattere ma decisamente complementari. Due personaggi che si completano a vicenda. Cosa c’è di te in loro? A quale dei due ti senti maggiormente vicino?
Qui la risposta è semplice… Luca Betti è ciò che sono e Marco Tanzi è ciò che vorrei essere.
Marco e Luca hanno entrambi dei problemi irrisolti con i loro affetti familiari. Per quanto brillanti nella loro vita lavorativa, risultano carenti nella costruzione e nel consolidamento dei loro affetti, che sono comunque fondamentali per entrambi. Diciamo che questa caratteristica è abbastanza comune nei thriller e Marco e Luca non fanno eccezione. A cosa è dovuta questa particolarità? E’ un’esigenza di copione tesa a rendere “belli e dannati” i tuoi personaggi oppure credi che sia una caratteristica reale di chi giornalmente lotta con il crimine?
È una scelta quasi obbligata, per un autore, mettere in difficoltà i propri personaggi, sia dal punto di vista delle situazioni concrete che da quello più propriamente “esistenziale”. Dai conflitti, esteriori ed interiori, nasce il meccanismo della narrazione che rende la storia interessante, consente di creare la tensione narrativa e aiuta a creare l’empatia con il lettore, cosa assolutamente necessaria per rendere ogni lettura una buona lettura.
Vorresti raccontarci come sono nati i due protagonisti della serie “Nero a Milano”? E in base a quale esigenza sono cresciuti? E’ frutto del caso oppure hai seguito uno schema ben preciso? E’ plausibile pensare che un personaggio, una volta nato, viva una sua vita propria che l’autore può solo limitarsi a raccontare?
Marco e Luca sono nati per caso, quando decisi di scrivere un romanzo che parlava di paternità. Mi serviva un padre per così dire “sciagurato” che aveva completamente abbandonato sua figlia disinteressandone da dieci anni e rifiutando di svolgere il proprio ruolo di genitore. Nel momento in cui sua figlia si fosse trovata in un grave pericolo, questo padre avrebbe dovuto riscoprire, dentro di sé, una sorta di impronta biologica marchiata a fuoco, quella dell’amore paterno che può essere nascosto sotto la cenere ma che è sempre pronto a tornare ad ardere. Ma per aiutare questo padre (divenuto un clochard) a tirarsi su, a riprendere contatto con la realtà, era necessario un aiuto… Da qui il suo amico Luca Betti, un uomo di tutt’altra pasta, fin troppo ligio alle regole e fedele a un concetto tradizionale di famiglia. In seguito, nel corso stesso della scrittura di questo primo romanzo (Io la troverò) i personaggi sono cresciuti, si sono evoluti e hanno sorpreso anche me con la loro profondità e le loro sfaccettature.
In Nero a Milano hai dato vita ad un nuovo personaggio che ho subito amato. Mi riferisco a Luisa Genna, una donna davvero incredibilmente indipendente che cela un bisogno urgente di giustizia ma anche la necessità di stabilire un contatto umano, esigenza che probabilmente non è capace di ammettere con se stessa. Sono rimasta male quando ho constatato la sua uscita di scena. Perché questa scelta? Forse è necessario, in un thriller, sacrificare per giustificare una svolta investigativa?
Luisa Genna è un personaggio che mi serviva per trattare un tema che ho sentito la necessità di affrontare, ovvero quello della malattia fisica e del diritto, o meno, di chi ne è affetto, di compiere le proprie scelte indipendentemente da quello che è il sentire comune. Purtroppo, a volte, l’uscita di scena di alcuni personaggi è necessaria a dare un senso alle storie e ai temi che in esse vengono trattati.
La rabbia, nei tuoi personaggi, è una caratteristica che incontriamo spesso. Luca Betti ne è l’esempio, con la sua incapacità di trovare un confine tra la legge e la voglia di farsi giustizia da sé. Come ti poni di fronte a questo sentimento? Ha solamente un’accezione negativa, per te?
Se e fino a che punto sia giusto farsi giustizia da soli, è una domanda che mi ha sempre assillato. Credo di non essere il solo a porsela, indipendentemente da quelle che sono le posizioni “dichiarate” o ufficiali di ciascuno. I nostri filtri etici, morali, ci portano a prendere delle posizioni che forse, non tuti rispetteremmo trovandoci in determinate situazioni. Io mi professo a favore della non violenza e contrario alla pena capitale. Spero di non dovermi mai trovare nelle situazioni nelle quali metto i miei personaggi, ma attraverso loro, cerco di dare delle risposte anche a me stesso. La speranza è che anche i miei lettori lo facciano, che si pongano delle domande che li aiutino a capirsi un po’ di più. Quando questo accade, l’autore ha centrato il suo obiettivo.
Nel tuo ultimo romanzo torni a parlare dei clochard, con parole e pensieri così veri e così toccanti da far sconfinare la tua prosa nella poesia. E’ un mondo al quale evidentemente sei legato. Qual è il motivo di questo coinvolgimento e che sentimenti suscita in te? Leggendoti ho intuito un labile confine tra la compassione per questa condizione di vita e l’aspirazione ad una forma estrema e dolorosa di libertà dagli schemi rigidi e spesso invalicabili della nostra società. Qual è il tuo pensiero a proposito?
Non è che io sia legato al mondo dei clochard, semplicemente penso che rappresentino una delle tante incongruenze della nostra società, del nostro stile di vita. In una città ricca come Milano ciò è ancora più evidente. Per parlare di questo argomento mi sono documentato a lungo, grazie anche alla collaborazione di una amica, Agnese Pellegrini, giornalista delle Edizioni San Paolo che per anni ha lavorato nel volontariato con i senzatetto di Milano. Agnese mi ha fornito molto materiale, mi ha raccontato tante storie e mi ha spiegato alcuni aspetti logistici legati al mondo della solidarietà, che ho utilizzato nel romanzo per fare in modo che su questo tema così drammatico non ci fossero invenzioni di sorta o improvvisazioni.
Infine, cosa ci dobbiamo aspettare dallo scrittore Romano De Marco? Una storia nuova? Oppure il proseguo delle vicende di Marco e Luca?
In questi giorni sto ultimando il nuovo romanzo, un thriller con personaggi nuovi, ambientato in un paese della provincia di Pisa. Uscirà nel 2020 e spero che catturi il cuore dei miei lettori abituali e me ne procuri di nuovi. Poi non lo so. Forse tornerà Laura Damiani, forse Marco e Luca… O forse, finalmente, pubblicherò il seguito del mio primo romanzo, Ferro e fuoco (Giallo Mondadori) scritto da dieci anni e lasciato in un cassetto. Dipende sempre da quello che i lettori vorranno. Dovrò essere bravo a capirlo anche in base al riscontro che avrà Nero a Milano.
Romano De Marco
Laura Salvadori
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