La casa de la Abeja




Recensione di Claudia Cocuzza


Autore: Maria Laura Caroniti

Editore: Dark Zone

Genere: Narrativa

Pagine: 550

Anno di pubblicazione: 2019

 

 

 

 

 

Sinossi. Guatemala, anni Cinquanta. Il Paese è diviso tra violenza di Stato e guerriglia. Su un’altura, circondata da vulcani, la Casa de la Abeja cela la vita e i segreti di chi ci vive: Miranda, una ballerina canadese che nasconde la fine della carriera e di un amore dietro a un’avventata proposta di matrimonio; Santiago, un sindacalista ladino che lotta per i diritti degli indigeni maya; Mita, una donna che per amore di una bambina decide di vivere insieme all’uomo che l’ha violentata. E, tra tutti, Vitalba Suárez che di Miranda e Santiago è la figlia e affida alla pittura rabbia e paura. Quando alla Casa de la Abeja si presenta Fernando Scania, l’amore mai dimenticato di Miranda, tutto precipita. Vitalba perderà se stessa e farà i conti con gli incubi che infestano i suoi sogni, ossessionata da un neonato senza volto e dal senso di colpa per aver causato la morte di un innocente.

 

Recensione

Scorro la lista dei libri da recensire.

Mi colpisce un titolo, è uno di quelli che mi sono ripromessa di leggere da tempo. Mi ritrovo tra le mani un romanzo di 550 pagine.

Farò una fatica enorme, penso.

Sbagliato: lo divoro. Lo leggo tutto, compresi i ringraziamenti; lo leggo appena posso, quando non mi tocca sbrigare le incombenze della vita quotidiana, tipo lavorare, dormire, mangiare. E quando faccio altro, ci penso, diventa un chiodo fisso, soprattutto da quando nella storia compare Vitalba.

Recensire La casa de la Abeja non è facile perché La casa de la Abeja non è un romanzo facile: non lo è la storia, non lo è lo stile, non lo è la struttura.

I capitoli si susseguono tra salti temporali scanditi da una separazione visiva che è un salto pagina.

La narrazione copre un arco temporale molto vasto, va dai primi anni ’50 del novecento agli anni ’80, e lo scenario che fa da sfondo, ma che in realtà un semplice sfondo non è, è la guerra civile che insanguina il Guatemala a partire dal colpo di Stato del 1954, che porta alla caduta del governo democratico del presidente eletto Jacobo Arbenz Guzmán e all’instaurazione del regime militare di Carlos Castillo Armas.

La guerra civile è una protagonista a tutti gli effetti e gli eventi che ne segnano l’evoluzione si intrecciano indissolubilmente con le vite degli altri protagonisti di questo romanzo.

Mi stupisce, oltre alla complessità della trama, la cura nei dettagli della ricostruzione storica. Penso che dietro ci sia stato un lavoro di ricerca delle fonti e di studio immane, fuori dalla portata di molti.

Mi riferisco non solo agli avvenimenti macroscopici, alle vicende note della storia recente del Guatemala, ma anche alla descrizione dei riti, delle credenze, della cultura popolare dei maya. Osservo incantata la cesellatura minuziosa delle scene, mi fermo cercando di visualizzarne i dettagli cromatici, gli odori, senza che questo riesca a rallentare il ritmo della narrazione, che rimane incessante, che detta anche la velocità della mia lettura, perché su alcune scene non posso proprio fermarmi e dire: «Okay, è notte, continuo a leggere domani», in quanto sono consapevole che, se non arrivo almeno a un punto di svolta, lo stesso non riuscirò a prendere sonno.

Di primo acchito, mi verrebbe da dire che è Vitalba Suàrez la protagonista, perché il romanzo è strutturato in due parti, I fantasmi del dolore e UnSub, in cui sono la sua storia di donna e il suo talento di artista a fare da guida alla narrazione, ma non è esatto.

La verità è che i protagonisti de La casa de la Abeja sono davvero tanti e di nessuno si può parlare come di un personaggio secondario perché, anche se sul momento lo ritengo tale, sono costretta a ricredermi, poche o molte pagine dopo. Credo che si dovrebbe percepirlo già dalla scelta narrativa: una terza persona al passato in cui la focalizzazione passa da un personaggio all’altro, anche all’interno dello stesso capitolo, ma che non fa sentire il lettore sballottato, quanto invece avvinghiato da un racconto che, alla fine, è un vero e proprio canto corale.

Leggo e penso che gli uomini di questa storia siano dei violenti, dei prevaricatori, che considerino le donne una merce di cui fare uso e abuso a loro piacimento, ed è così, non c’è dubbio, ma in ognuno di loro riesco a intravedere una luce, ognuno a modo proprio riesce a scontare le propriecolpe, stupisce sé stesso e il lettore compiendo gesti estremi per amore e trovando in questo modo una sorta di redenzione e riabilitazione.

Leggo e penso che le donne di questa storia siano deboli: lo sono Vitalba e Mita, ma poi mi ricredo perché la prima, così fragile e remissiva che ti viene voglia di proteggerla e ti chiedi perché la vita (o meglio l’autrice) si accanisca tanto contro di lei, riesce sempre a risorgere dalle proprie ceneri fino a chiudere il cerchio, trovando infine la giusta pacificazione, mentre la seconda, l’india, l’abusata, con i suoi silenzi, con il suo stare sempre un passo indietro, è talmente forte da permeare con il suo amore l’esistenza di questa bambina fino a proteggerla, una volta adulta, al prezzo della sua stessa vita.

Questo mi affascina dei personaggi che Laura Caroniti tratteggia ne La casa de la Abeja: non sono né solo bianchi e neanche totalmente neri; anche il mostro rivela un lato umano che non mi sarei aspettata così come l’anima più pura e semplice è capace di custodire segreti inenarrabili.

E poi ci sono le madri di questa storia e mi viene da pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in ciascuna di queste maternità.

Milagros, l’attrice di soap, sempre in giro per il mondo, una specie di tornado che passa da un setall’altro, madre per caso di Miranda, verso la quale sembra non dimostrare nessun interesse.

Miranda, la ballerina, l’etoile pragmatica e opportunista che si rende conto, dopo un brutto infortunio, di dover sfruttare la propria bellezza prima che sfiorisca, non potendo più puntare sul talento. Sposa il primo che il destino le manda e ha una figlia che non vuole, che avverte estranea già dal momento in cui la sente crescere dentro di sé, e che continua a essere un peso fino a diventare lo specchio in cui sgomenta si riflette quando la scopre incinta del suo primo e unico amore.

Vitalba, madre due volte e due volte rispedita nel proprio passato con le braccia svuotate: quel ventre che ritorna piatto come se una vita non fosse mai cresciuta lì dentro ne è un segno doloroso, tanto e più delle smagliature o le cicatrici che invece sarebbe stato naturale aspettarsi.

Allora mi dico che c’è un karma che ritorna, in questa storia: la maternità senza affetto di Milagros, la maternità che è un ostacolo per Miranda, la maternità negata di Vitalba. Ma anche qui, non è tutto così lineare, e scopro che ciascuna, seppure in ombra, sebbene sbagli, anche se ricorre a metodi più o meno ortodossi, è una vera madre, e rimango con il cuore in gola finché Vitalba non solleva la cornetta, nell’ultima scena.

Ora posso respirare, il peso che mi opprime il petto si è alleggerito, anche se so che questa storia me la porterò dentro per tanto tempo, forse per sempre.

 

 

A cura di Claudia Cocuzza  

www.facebook.com/duelettricisottountetto/

 

 

Maria Laura Caroniti


è nata a Sant’Agata Militello (Messina). Laureata in Lettere Moderne, nel 2006 si è trasferita in Val di Susa dove ha lavorato come insegnante per alcuni anni. Ha vissuto in Germania e in Francia, insegnando lingua e letteratura italiana nelle scuole internazionali. Attualmente vive tra l’Italia e i Paesi Bassi. Ha pubblicato: “Generazione Bataclan” (Mursia); “La Casa de la Abeja” (Dark Zone editore); “Il faro delle anime ritrovate” (Triskell editore); “Madre Medusa” (Mursia).


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