La felicità si racconta…




La felicità si racconta sempre male


Recensione di Laura Salvadori


Autore: Gaudenzio Schillaci

Editore: Dialoghi

Genere: noir

Pagine: 188

Anno di pubblicazione:2020

 

 

 

 

 

 

 

Sinossi. Catania, giugno 2017: il cadavere di un uomo, Gerri Santiloro, viene ritrovato in un vicolo del centro crivellato da tredici proiettili. A occuparsi dell’evidente omicidio arrivano, sul luogo del delitto, l’ispettore Bonanno e il commissario Davide Bovio, che trovano subito una stranezza: sul corpo della vittima c’è una lettera d’addio. Le prime impressioni, basate su quelle poche righe, li conducono all’Hotel Ungheria, dove l’uomo risiedeva, e a fare la conoscenza di Cristina Selleri, cameriera del Palomar, locale dove Santiloro trascorreva le sue giornate in solitaria. Del passato di Gerry non si sa nulla: i due poliziotti concentrano le loro indagini sul tentativo di ricostruire, attraverso le parole della Selleri, innamorata di Santiloro, gli ultimi giorni di vita di quest’uomo che nascondeva, tra ombre e misteri, un desiderio di vendetta a lungo covato. A ingarbugliare le indagini contribuisce la confusione del commissario, uomo dai sentimenti avvizziti ma affascinato dalla giovane testimone.

 

 

 

Recensione

La felicità esiste, e non serve a niente. Per questo è così importante, per noi creature: perché niente è più straordinario di un’inutile meraviglia.

Il romanzo d’esordio di Gaudenzio Schillaci è un racconto nero come la pietra lavica di Catania, dove è ambientato. E’ un lungo racconto introspettivo che ruota intorno a tre personaggi: Gerri Santiloro, enigmatico e solo, che sfugge qualsiasi contatto con i suoi simili e trascorre una sorta di quarantena illuminata dietro alla vetrata di un bar; Cristina Selleri, donna bellissima, una sorta di sirena incantatrice, inconsapevole di questa sua dote e attratta da Gerri come una falena dalla luce; Davide Bovio, poliziotto senza qualità, piatto,pigro, insoddisfatto, incline ad annegare i suoi fallimenti nella violenza.

Cristina infrangerà la corteccia solida e impenetrabile di Gerri. Gerri morirà per mano ignota.

Davide, indagando sulla morte di Gerri, incontrerà Cristina e finirà per orbitare intorno a lei,  ammaliato dal suo canto di sirena.

Una sorta di cerchio che si chiude, dunque. Un mistero che sarà svelato solo nelle ultime battute, a rendere chiaro un disegno che fino alla fine non si riesce a comprendere.

Ma è chiaro subito, invece, che il cuore del romanzo non è trovare il colpevole della morte di Gerri. Il lettore se ne dimenticherà presto. Perché sarà molto più coinvolto dall’incontro tra Gerri e Cristina. Cristina stregata da Gerri, quasi vittima di un incantesimo. Gerri che invece proverà a nascondersi ai suoi occhi, cercando di evitare l’inevitabile.

E perché sarà sempre più coinvolto dai fantasmi di Davide, dalle sue paure e dai suoi modi di esorcizzare la paura.

“La felicità si racconta sempre male” ha tinte che tendono più al nero che al giallo. E’ un percorso nell’animo dei personaggi, nei loro segreti. E’ un romanzo che non si vergogna di mostrare il marciume e la malvagità dei suoi protagonisti, perché del marciume e della malvagità ne fa una sorta di inno.

Schillaci non ha problemi a scandagliare l’intimità dei suoi personaggi e mostra una buona abilità nel destreggiarsi dentro ad una trama che è piuttosto circoscritta e che lascia pochi margini di manovra al suo autore. La sua è una scrittura asciutta che non cerca consensi a buon mercato. Una scrittura sicura e una buona capacità di caratterizzare che è, innegabilmente, una dote irrinunciabile per chi vuole raccontare storie.

Davide Bovio è sicuramente il personaggio più interessante del romanzo. Leggendo capirete subito il perché. E’ un personaggio sostanzioso, che ha ancora molto da dire, secondo me. Uno che combatte con demoni potenti e che è consapevole di soggiacere alle loro logiche spietate. E il fatto che nel romanzo la sua vita vada ad aprirsi a nuove prospettive potrebbe essere un valido motivo per regalargli un futuro.

 

 

 

INTERVISTA

Gaudenzio,  cosa ha significato per te scrivere questo tuo romanzo d’esordio?
C’è una ormai vecchia poesia di Peter Handke, utilizzata poi da Wim Wenders nel suo “Il cielo sopra Berlino”, che dice “quando il bambino era bambino, lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia, che ancora continua a vibrare”, e per me vedere la mia prima pubblicazione, nonostante abbia avuto la sfortuna di cadere a ridosso di un periodo tanto singolare quanto questo che stiamo vivendo, è stato esattamente come lanciare un bastone contro un albero e aspettare che continui a vibrare. Ho sempre avuto una certa inclinazione verso le parole, che spesso si è declinata in ossessione, la pubblicazione del mio primo romanzo è stata pertanto come chiudere i conti con tutte le parole che avevo scritto fino ad allora. So benissimo che il gioco è quello di riuscire a piacere agli altri, di tentare di coinvolgere i lettori, sedurre e persuadere chi s’avvicina al romanzo, ma per me questo è un aspetto secondario: scrivo perché non posso fare a meno di una rivoluzione contro me stesso. Tutto quello che faccio, dai racconti che spuntano qua e là sul web al progetto del collettivo di scrittura SiciliaNiura di cui faccio parte, si muove in quella direzione: organizzare una rivolta. Il pubblico, se vuole venire, viene dopo: non sono in cerca di spillette da appuntarmi al petto, cerco di fare un’autopsia al bambino che lancia il bastone contro l’albero. E la faccio su pagina. “La felicità si racconta sempre male” può essere considerato la mia prima autopsia ufficiale. Spero che nessuno vi abbia trovato pezzi di cervello, tra le pagine: nel caso dovesse succedere, contattatemi su Facebook o Instagram e ridatemeli, sono miei.
“Scrivere è l’unico modo per colmare i buchi di un’assenza”.
Questo è ciò che afferma uno dei tuoi protagonisti, Gerri Santiloro. E’ così anche per te?
Scrivere è un veleno, che attraversa le arterie e naviga nel sangue, che lo intorpidisce e lo raggruma, quel sangue. Ѐ nel sangue che viaggiano ricordi, dolori, miserie, crudeltà di ognuno. Persino le assenze di cui soffre. Senza quel veleno, non si riuscirebbe a filtrare il sangue buono da quello cattivo. Si finirebbe per ammalarsi. Come veleno, è uno di quelli necessari. Oggi, vedo una società sofferente proprio perché è stata disabituata a quella dialisi vitale che consiste nell’approcciarsi ad un insieme formato da più parole di seguito che finiscono per formare un concetto. Scrivere è l’unico modo per colmare i buchi di un’assenza, certo, ma leggere è l’unico modo per scrivere, così come respirare è l’unico modo per sopravvivere e sopravvivere è l’unico modo per vivere. Tutti dovremmo avere diritto a una dose di veleno, specie se ci aiuta a vivere.
A chi ti sei ispirato per scrivere “La felicità si racconta sempre male”? E per caratterizzare il personaggio di Davide Bovio?
Il romanzo è pieno di riferimenti e omaggi, a volte velati e a volte no, a tutta quella che è stata la mia cultura, quella di cui mi sono nutrito: per questo il protagonista condivide il nome con quello che per me rappresenta il più grande artista contemporaneo, David Bowie, ascolta la musica che ascolto anch’io, ovvero un miscuglio indistinto di black music storica e rap contemporaneo che parte dal soul di D’Angelo e arriva a Livio Cori passando per Fabri Fibra e Luché, fa riferimento a film con cui sono cresciuto anch’io (c’è un piccolo omaggio, seminato nel romanzo, a una vecchia commedia con Tomas Milian che più di una persona ha colto, lasciandomi sinceramente sorpreso), ha giocato a pallone alle dipendenze di quello che per me è la figura più romantica della storia del calcio, Zeman, tentando di idolatrare quello che per me è il più grande calciatore della storia, Crujiff. Gerri, invece, cita Woody Allen fino al punto di definirlo il suo migliore amico, e Cristina, la protagonista femminile, lavora in un locale che porta il nome del cagnolino di un mio amico fraterno, Palomar, e legge romanzi gialli. Persino il titolo del romanzo è tratto da una canzone che amo particolarmente, “Per causa d’amore” di Mario Venuti (a cui mi sono permesso persino di far fare un cameo nella storia, senza autorizzazione, e speriamo non mi denunci) e Patrizia Laquidara. Poi, inevitabilmente, sono entrate in gioco le mie letture: Sciascia, Houellebecq, Calvino, Handke, Pynchon, Abbate e chissà quante altre che nemmeno io mi sono accorto entrassero. In questo romanzo c’è un breve distillato di cose che ho amato e che ho fatto mie.
Per quanto riguarda la figura di Bovio, ma è un discorso che estenderei anche agli altri due protagonisti del romanzo, Gerri e Cristina, ho fatto esercizio di autoanalisi: ho identificato caratteristiche, idiosincrasie, vizi e virtù mie e le ho mischiate ad altre peculiarità che invece vorrei avere. I personaggi sono nati in questo modo: plasmando un po’ di quello che sono io insieme a quello che vorrei essere. Così facendo non solo il romanzo ha preso forma, ma ho pure risparmiato i soldi per l’analista. E non è mica poco.

 

 

 

Gaudenzio Schillaci


Gaudenzio Schillaci è nato nel 1990 a Catania. Vive e lavora a Bologna. Appassionato di letteratura, di musica e di cinema, ha collaborato per anni con lo scrittore Alberto Minnella. La felicità si racconta sempre male è il suo romanzo di esordio.

 

 

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