La fine dei Greene




La fine dei Greene/ (The Greene Murder Case, 1928)

Recensione di Marina Morassut


Autore: S.S. Van Dine

Editore: Rusconi

Genere: giallo

Pagine: 304

Anno di pubblicazione: 2010

 

 

 

 

 

Sinossi. Il patriarca Tobias Green, nonostante sia morto da più di dieci anni, riesce ancora ad imporre le sue decisioni alla propria famiglia. Ha infatti lasciato un testamento in cui ha scritto che per non perdere la propria eredità i figli e la moglie dovranno rimanere nella stessa casa per venticinque anni. Una notte, però, un fantomatico ladro entra nella dimora dei Greene e uccide una componente della famiglia. Sarà solo la prima vittima inspiegabile, a cui se ne affiancheranno delle altre, fino a quando il mistero non verrà risolto e il segreto svelato.

 

 

Recensione

Un classico per questo tipo di gialli, la presentazione del caso da parte dello stesso Van Dine, amico fin dai tempi dell’Università ed ora avvocato e agente finanziario personale, nonché “biografo” del famoso ed intelligentissimo Philo Vance, detective per caso, che ancor più come da tradizione corre sempre in aiuto della polizia ed in questo specifica serie, del procuratore Markham, suo amico. E mai come nei precedenti casi, qui l’amico ed avvocato ci tiene a specificare che il caso è in realtà l’ecatombe di una famiglia agiata di New York, la Fam. Greene e che è solo grazie a Vance se l’assassino alfine viene assicurato alla giustizia.

Il caso viene purtroppo però risolto solo dopo settimane dai tragici accadimenti, durante il primo anno di ufficio del Procuratore Distrettuale Markham.

Uno degli elementi fondamentali da tenere presente in questo caso di omicidi è la neve, come si perita di far notare Van Dine all’inizio del racconto, caduta in quantità notevole durante un inverno arrivato precocemente e che superò la media stagionale dei 18 anni precedenti.

Il caso si presenta difficile e strano sin dall’inizio: tentativo di furto dell’argenteria in casa dei Greene con il ladro che, forse spaventato da qualcosa, lascia la refurtiva al suo posto, sale le scale, va nelle camere da letto padronali, spara a due donne uccidendo la sorella maggiore e ferendo la minore e poi scappa. Senza portare via nulla. Ed è proprio questo inizialmente a far sospettare al colto Philo Vance che la teoria del ladro spaventato durante il furto non stia in piedi.

In questo romanzo, incontriamo Philo Vance nell’ufficio del suo amico Markham, il quale sta spiegando al suo ricco amico che Chester Greene, uno dei fratelli sopravvissuto alla tragica notte, ha chiesto perentoriamente di poter parlare con lui, in veste di procuratore.

E Philo, incuriosito, decide di partecipare all’incontro in qualità di spettatore.

Negli ambienti altolocati della New York che conta si vocifera che la famiglia Greene fosse già di per sè  strana e travagliata, cui si aggiunge la particolarità e crudeltà del lascito testamentario del vecchio Tobias Greene, che ha decretato, pena l’esclusione dal cospicuo patrimonio, che la moglie paralitica ed i cinque figli dovranno vivere tutti sotto la stessa dimora avita per 25 anni. E quindi i figli Julie (appena ammazzata), Chester, Sybil (non ancora trentenne), Rex giovane malaticcio e bibliofilo di un anno minore di Sybil ed infine Ada, la più giovane di tutti e tra l’altro figlia adottiva, (l’altra sorella che fortunatamente è stata solo ferita), dovranno condividere la stessa vita senza potersi allontanare da casa.

Una famiglia originatasi da un ceppo di gente ardita e vigorosa, che “a causa del troppo danaro, dell’ozio e forse del troppo poco dominio di sé, con un pizzico di intellettualità, sta diventando sconclusionata e abulica”. In poche parole, dopo la morte del vecchio Tobias, si sono spente le virtù dei Greene.

Giudicato uno dei più bei romanzi della serie con protagonista Philo Vance, detective della stessa levatura del precedente Sherlock Holmes e del successivo Ellery Queen, questo ricco dandy disdegna l’osservazione degli oggetti, a favore del carattere, della fisiognomica e dei comportamenti degli attori del dramma cui si trova di volta in volta ad assistere.

E’ proprio lui che accoglie le frasi senza conclusione di Chester Greene, che ha presentito che non un ladro occasionale è venuto dall’esterno per uccidere una delle sue sorelle e ferire l’altra. Ma alla domanda diretta di Philo Vance se qualcuno avesse avuto motivo di rancore nei confronti delle sorelle, e non potendo risolversi a dare una risposta in altra direzione, ha lasciato il campo aperto all’acuto esame di questo freddo e fine osservatore dell’animo umano, che ha consigliato all’amico Markham di prendersi a cuore – e con una certa urgenza – questa tragica vicenda, prima che qualcosa di ancora più tragico potesse accadere.

Non serve certamente aggiungere che da questo momento in poi, in un crescendo di ansia e di tensione, tra tanti colpi di scena, i membri di questa famiglia continuano a morire. A nulla vale la considerazione che Philo Vance aveva ragione. La polizia e lo stesso investigatore brancolano nel buio e l’opinione pubblica, fomentata dagli articoli che appaiono sui giornali, chiede a gran voce la risoluzione del problema da parte della polizia.

Due sono le parole o parti fondamentali in questo romanzo: la classica stanza chiusa o meglio, in questo caso, la Biblioteca. E l’odio.

Forse la parte conclusiva perde un po’ di pathos, ma nulla toglie alla bellezza globale del romanzo, alla tensione narrativa narrata in prima persona, agli incastri, ai ragionamenti deduttivi di Philo Vance, all’intrusione del detective in compagnia del fido Van Dine all’interno di questa famiglia che piano piano viene decimata da un assassino che è al contempo freddo ed astuto, quanto approfittatore degli eventi a lui favorevoli e che gioca sicuramente in casa.

A detta di molti poi, l’avventura successiva di Philo Vance, insieme ai co-protagonisti che abbiamo imparato ad amare, è ancora più entusiasmante: mi riferisco a “L’Enigma dell’Alfiere”, che leggeremo a breve per verificare alfine quale delle due avventure sia il vero capolavoro di S.S. Van Dine.

 

A cura di Marina Morassut

libroperamico.blogspot.it

 

 

S.S. Van Dine


pseudonimo di Willard Huntington Wright (Charlottesville, 15 ottobre 1887 – New York, 11 aprile 1939), è stato uno scrittore e critico d’arte statunitense, noto autore di gialli. Wright iniziò giovanissimo ad occuparsi di critica letteraria, specializzandosi poi come esperto di arte e avviando collaborazioni con giornali e riviste. Nel 1912 fu nominato editor del periodico letterario The Smart Set, grazie a cui divenne dapprima conoscente e poi intimo amico di importanti figure. È del 1916 “The Man of Promise”, il suo primo e unico romanzo non a carattere poliziesco: il libro ottenne buone critiche, ma non ricevette quel successo nel quale lo stesso Van Dine confidava. Costretto a robuste terapie mediche per gravi problemi di salute e vessato da fortissimi problemi economici, Wright decise di approfondire il genere letterario poliziesco fin quando non si sentì in grado di potervisi cimentare a sua volta, progettando di scrivere una trilogia da cui trarre i guadagni necessari a riprendere l’attività di studioso. In realtà in anni recenti si è scoperto, come indica la biografia di Loughery, trattarsi di una pesante dipendenza da droghe di ogni genere, delle quali era sempre stato indefesso sperimentatore. Scelse lo pseudonimo “S.S. Van Dine”, S.S. era l’abbreviazione di Smart Set, il nome della sua vecchia rivista, mentre “Van Dine” rappresentava un omaggio al pittore Antoon van Dyck col quale Wright aveva una certa somiglianza di tratti, e creò così il personaggio di Philo Vance: esteta, intellettuale, studioso di psicologia, cultore d’arte e molto altro, Vance è un personaggio strettamente legato al concetto nietzschiano del “Superuomo”. Il successo di vendita dei primi cinque romanzi a nome Van Dine fu tale da consentire alla casa editrice Scribner’s di superare indenne la grave crisi economica del 1929. Wright divenne ricchissimo per la prima volta in vita sua e finì per adottare uno stile di vita non molto dissimile da quello del suo ormai celeberrimo personaggio. I suoi tormenti interiori, associati a un pessimo carattere e alla consapevolezza di non poter più tornare a occuparsi dei suoi prediletti studi di arte e letteratura perché il mercato continuava a richiedere romanzi e sceneggiature a nome Van Dine, lo spinsero ben presto a tuffarsi di nuovo nella droga e nell’alcol. Minato nello spirito e nel fisico Wright scomparve nel 1939 per problemi di cuore e circolazione, lasciando gli avanzi di un enorme patrimonio che aveva via via largamente intaccato, una preziosissima raccolta di opere d’arte e un ben avviato allevamento di terrier scozzesi. A Wright si devono inoltre le famose “Venti regole per scrivere romanzi polizieschi” (Twenty Rules for Writing Detective Stories) che intendevano stilare una casistica del genere a beneficio di autori e lettori, “The World’s Great Detective Stories”, una corposa antologia la cui lunga prefazione costituisce ancora oggi un testo fondamentale, seppure datato, nella storia della critica del giallo. Da Philo Vance, suo personaggio più famoso, la RAI ha tratto nel 1974 una miniserie televisiva intitolata appunto Philo Vance e interpretata da Giorgio Albertazzi. Mentre negli Stati Uniti d’America l’interprete dei films con protagonista Philo Vance sarà soprattutto William Powell.

 

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