La prima verità




Recensione di Anja

Autore: Simona Vinci

Editore: Einaudi

Genere: Narrativa

Anno di pubblicazione: 2016

 

 

 

 

Premio Campiello 2016

Nominata per ben tre volte nella cinquina finalista del prestigioso Premio Campiello, Simona Vinci ha vinto l’edizione del 2016 con il suo ultimo libro, “La prima verità”.
Otto lunghi anni di lavoro danno forma a un romanzo crudo, diretto, a tratti quasi brutale, che non si preoccupa di celare sotto metafore poetiche, finti moralismi o sottointesi velati una realtà intrinsecamente dura e violenta: quella dei manicomi.
La Vinci ha trasformato il suo romanzo nella fusione raffinata ed esperta di una pluralità di storie, connesse dal filo rosso della follia.
Direttamente o indirettamente, ciascuna di queste tormentate vicende riconduce alla scandalosa realtà di Leros, l’isola manicomio del Dodecaneso.
Oggi l’istituto psichiatrico è stato ridotto a una piccola comunità terapeutica, ma permane ancora l’eco di quegli anni torbidi in cui ricordava più una vergognosa gabbia di bestie dai corpi umani.
Chiunque poteva essere giudicato abbastanza pazzo da meritare Leros — una giovane donna traumatizzata dalla violenza sessuale, un bambino troppo vivace, un attivista politico (qualora ostile al regime), e la lista prosegue con un’infinità di potenziali devianze.
Tutto ciò non risale a tempi troppo lontani: il manicomio è stato aperto alla fine degli anni ’50, ma negli anni ’90 i pazienti erano ancora trattati al pari di bestie, senza possibilità d’intendere e di volere.
È qui che prendono forma le molteplici storie raccontate ne “La prima verità”.
Il filo conduttore è costituito dalle vicende di Angela, una giovane ricercatrice italiana che nel 1992 parte per l’isola di Leros con la sincera convinzione di poter contribuire alla riorganizzazione della struttura e alla cura dei malati.
Quello che si ritrova davanti è invece un ambiente degradato, dove nemmeno la volontà più ferrea sarebbe mai stata in grado di portare la civiltà. Molti degli internati non possono più raccontare le loro storie, ma Angela s’imbatte nell’archivio in cui vengono conservate le cartelle cliniche di alcuni di loro (qualche foglio, poche parole, una burocrazia quasi inutile).
Tra nomi senza volti impressi sulla carta e corpi senza identità abbandonati all’interno dell’istituto, Angela si lascia sconvolgere la vita da un oscuro turbine di segreti e follia.
Oltre alle avventure di Angela, Simona Vinci torna indietro nel tempo per raccontarci anche le storie fittizie, ma plausibili, di alcuni internati.
Ci troviamo nella seconda metà degli anni ’60, per leggere le vicende di Basil il monaco, del poeta politicamente impegnato (dalla parte sbagliata) Stefanos, della bella e solitaria Teresa e di Nikolaos, il bambino con il sasso in bocca. A questa pluralità di personaggi e di fiction realistiche si aggiunge un’ulteriore, importante protagonista: la stessa Simona Vinci. L’autrice dedica infatti le ultime cento pagine del romanzo a un’autobiografia — entriamo quindi nella vita di una donna cresciuta in una città di folli e “mattucchini”, circondata da persone che, in un modo o nell’altro, hanno dimostrato particolari forme di devianza mentale. E ancora una volta quest’arco narrativo termina a Leros, visitato personalmente dalla Vinci per documentarsi in vista del suo nuovo lavoro.


In un primo momento la parte autobiografica sembra spezzare il ritmo di un romanzo potenzialmente conclusosi già nel capitolo precedente, ma alla fine della lettura ci si rende conto che si è trattato di un apporto fondamentale.
Questo libro diventa dunque lo specchio letterario della Vinci stessa.
È lo strumento attraverso cui l’autrice ha messo a nudo i propri fantasmi, recuperando importanti esperienze di vita che ritornano con più evidenza nella parte autobiografica, ma anche in forma indiretta durante la narrazione del romanzo.
È impossibile restare indifferenti all’impatto di tale confessione artistica.
Tuttavia, quando parlo di uno “specchio dell’autrice” non mi riferisco solo alla vita personale della Vinci: “La prima verità” è, tra le altre cose, un’elegante miscela dei più disparati generi letterari.
La fiction e la biografia si fondono insieme alla poesia, la prima forma d’espressione letteraria cui la scrittrice si è dedicata.
Per raccontare questa storia violenta e torbida, ispirata, con la dovuta accuratezza storica, a uno dei più “colpevoli segreti d’Europa”, la Vinci non si preoccupa di ricercare particolari raffinatezze stilistiche: al contrario, lo stile è semplice, asciutto e molto visivo.
Il lettore non si può distrarre, non può impedirsi di vedere scorrere davanti ai propri occhi le immagini angoscianti degli internati di Leros.
Ho già anticipatamente accennato alla struttura poliedrica de “La prima verità” e ai suoi molteplici personaggi. Personalmente apprezzo molto quegli scrittori che riescono a fondere insieme in un unico romanzo una pluralità di storie, e questa è forse la ragione fondamentale per cui ho davvero amato il libro della Vinci.
Eppure tale tecnica letteraria presenta sempre un rischio, talvolta impossibile da evitare: il non riuscire a dedicare il giusto spazio a tutti i personaggi. E infatti a Stefanos, Basil, Teresa e Nikolaos, i reclusi protagonisti della seconda parte del romanzo, è dedicato poco più di un quarto dell’opera.
Nel corso della lettura non ho mai percepito come limitante lo spazio destinatogli, poiché la Vinci narra comunque abilmente ciascuna delle loro storie, le personalità sono ben delineate — anche se talvolta scompaiono sotto il peso della pazzia, la propria o quella di Leros —, e la trama in cui convergono queste vicende è, a parer mio, la più coinvolgente del libro.
Eppure, una volta terminata la lettura, ho comunque percepito il peso delle parole non dette.
Questi personaggi meritano forse di più, ma quel che è stato loro dato vale comunque oro.
In definitiva, “La prima verità” è un libro che va sicuramente letto.
Non lo consiglierei a chi cerca una lettura da passatempo, e non perché sia un libro di per sé impegnativo, quantomeno non da un punto di vista stilistico.
Tuttavia è difficile togliersi dalla mente le immagini angoscianti delle bestie umane rinchiuse a Leros, anche dopo aver interrotto la lettura.
È impossibile lasciare il romanzo sullo scaffale senza continuare a porsi domande sulla crudeltà umana, sulla pazzia, sulla normalità. Qualora esista davvero, la normalità.

 

 

Simona Vinci


Vive a Budrio, in provincia di Bologna. Il suo esordio letterario risale al 1997, con il romanzo Dei bambini non si sa niente, edito da Einaudi nella collana Stile libero; il libro, vincitore nel 2000 del Premio Elsa Morante opera prima, fa ottenere alla scrittrice un grande successo di pubblico e di critica, suscitando anche scandalo e polemiche per il tema trattato. Il romanzo è stato tradotto in dodici paesi, tra i quali gli Stati Uniti. Nel 1999 il suo libro di racconti In tutti i sensi come l’amore arriva nella cinquina finale del Premio Campiello. Nel 2003, sempre al Premio Campiello, il suo romanzo Come prima delle madri si classifica al secondo posto per pochi voti. Nel 2009 è stata fra gli ospiti del festival letterario Mondello Giovani dedicato agli autori di nuova generazione. Collabora con vari quotidiani nazionali e ha lavorato per la televisione (su Rai 3 nel 2000 ha condotto Cenerentola, un programma di Gregorio Paolini, e nel 2006 Milonga Station [1], come autrice e conduttrice insieme a Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi) e per la radio (Radio Rai Due). È traduttrice letteraria dall’inglese (ha tradotto fra gli altri Steve Erickson). I suoi libri sono tradotti e pubblicati in quindici paesi.

 

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