L’età dell’oro




Recensione dell’autrice

Francesca Petroni

Autore: Gore Vidal

Traduttore: L. Scalini

Editore: Fazi

Genere: narrativa

Pagine: 534

Data pubblicazione: 23 novembre 2017

 

 

 
 


 

Per leggere questo libro, mi sono presa tutto il tempo di cui avevo bisogno per entrare e metabolizzare le complesse vicende della Storia.

Mi sono sentita come una spettatrice che capita su un enorme palcoscenico politico in cui l’America viene interpretata da innumerevoli comparse che progettano, programmano, sussurrano, brindano e sorridono fra di loro.

Si cammina nei corridoi della Casa Bianca, nella speranza di intravedere Franklin Roosevelt da una porta semiaperta. Ci si guadagna un invito a cena da una sorridente quanto sola First Lady: l’elegante, sempre perfetta Eleanor Roosevelt.

I salotti del potere si schiudono di fronte a noi grazie alla penna di Gore Vidal, attore egli stesso degli eventi, raccontati in un arco temporale che va dal 1939 al 1954.

Gli eventi sono narrati dai due punti di vista principali di Caroline Sanford, ex attrice di Hollywood, diventata poi direttrice del Tribune e Peter Sanford, suo nipote e editore del giornale indipendente The American Idea. Entrambi spettatori dell’abile traghettamento da parte di Roosevelt degli Stati Uniti verso la partecipazione attiva alla Seconda Guerra Mondiale, al fianco dell’Inghilterra.

La posizione che emerge dall’accurato e realistico racconto di Vidal è chiara. In questa meravigliosa rappresentazione teatrale che fa dipanare di fronte ai nostri occhi c’è un grande assente: il popolo americano.

In quella che si vanta(va) di essere la più grande democrazia occidentale è proprio il popolo a essere tenuto all’oscuro degli intrighi di palazzo e dove questa esclusione dalle informazioni che contano non è possibile, gli eventi vengono sapientemente intessuti come cavi di un ordigno che può solo esplodere (e lo farà, purtroppo, a Hiroshima e Nagasaki).

Così, se a prima vista il titolo (geniale) può trarre in inganno, annunciando un’America dorata, dove tutto è possibile, addentrandosi nella lettura del testo appare ai nostri occhi una verità del tutto opposta.

Perché che cos’è l’oro in questo contesto storico? E’ Vidal a dircelo, attraverso Blaise Sanford, fratello e condirettore del Tribune insieme a Caroline, alla quale lui ricorda che:

“Il tuo rapporto con Roosevelt è oro puro.”

Ed è proprio questa relazione fra potere e mezzi di informazione ad assumere un valore inquietante. Un legame stretto, quanto fragile, dipendente da storie personali e familiari, obiettivi, vere e false speranze.

Così un attacco “a sorpresa” a Pearl Harbor, diventa l’occasione tanto cercata da Roosevelt per entrare in guerra, allo scopo di farsi assegnare un altro mandato presidenziale. Un presidente che un destino beffardo costringe su una sedia a rotelle è l’uomo che metterà gli Stati Uniti sul trono del mondo.

A che prezzo? Stabilitelo voi, leggendo questo libro come se fosse un vero e ben più allarmante prequel di House of Cards. Nonostante sia il settimo e ultimo capitolo del ciclo “Narratives of Empire” è una lettura che può essere affrontata con piacere anche senza aver letto i precedenti, a patto di non spaventarsi dei numerosi personaggi che vengono portati sotto i riflettori nel romanzo.

La cover è bellissima e, a mio parere, rende perfettamente il mood elegante e un po’ oscuro delle vicende che prendono vita nel libro. Imperdibile per gli amanti di questo periodo storico.

 
 

 

Gore Vidal


Nato nel cuore della vita politica statunitense, da bambino ha vissuto a lungo con il nonno Thomas Pryor Gore, senatore, che in seguito sarebbe stato un oppositore di Franklin Delano Roosevelt. Dopo aver militato nel Pacifico settentrionale come volontario durante la Seconda Guerra Mondiale, debuttò con Williwaw (1946), che raccontava esperienze belliche (come ben riassume presentandosi come personaggio in L’’età dell’’oro), cui fece seguito un’’opera simile, In a yellow wood. La sua notorietà esplose però con The city and the pillar del 1948, intitolato successivamente nelle varie versioni italiane La città perversa, Jim e La statua di sale. La storia di Jim Willard, marchetta e maestro di tennis, ossessionato da un amore romantico e irraggiungibile, che per la prima volta presentava l’’omosessualità negli USA in chiave realistica, senza sottolineature comiche, né tanto meno con il facile ricorso al melò, fece scalpore e determinò la fisionomia dell’’autore nel mondo delle lettere e della politica americana, dove ha sempre avuto il ruolo di strenuo oppositore del conservatorismo. Dopo la pubblicazione, che suscitò reazioni violente, ma che gli procurò estimatori autorevoli (tra cui Christopher Isherwood e Thomas Mann, che parla a lungo del romanzo nei suoi Diari), passò quindi a lavorare in teatro, in televisione e nel cinema, dove firmò sceneggiature importanti, tra l’’altro, notoriamente, per Ben Hur e in seguito per Improvvisamente l’’estate scorsa di Joseph Mankiewicz e per Parigi brucia? di René Clement. Due i percorsi fondamentali nella sua opera narrativa: da un lato il contributo notevole e determinante a una nuova concezione del romanzo storico con il ciclo in sette libri della “storia dell’’impero americano”, da Washington D.C. del 1967 fino a L’’età dell’’oro del 2001, che parla di Pearl Harbor e di Roosevelt, passando per Burr del 1974, che resta forse il titolo più notevole della serie, dedicato al personaggio più controverso della storia USA, Aaron Burr, di cui disegna uno straordinario ritratto. L’’altro filone fondamentale è quello che lo presenta come attento osservatore del costume e dei way of lives americani ed europei e qui, sulla linea di The City and the Pillar, sono da citare senz’’altro l’’incantevole “trans-commedia” Myra Breckinridge del 1968, che ebbe grande successo di pubblico e critica, Due sorelle del 1970 e Duluth del 1983; infine va citato un dittico di opere dedicate a una riflessione su temi spirituali declinati in forme peculiari: Kalki (1978) e soprattutto In diretta dal Golgota (1992). Straordinario saggista e polemista, ha sempre svolto un ruolo di testimone scomodo della vita americana, come ricostruisce nell’’autobiografia Palinsesto e come ben dimostrano anche i saggi raccolti ne Le menzogne dell’’impero, tratti per lo più dalla silloge The Last Empire; da segnalare infine la sua carismatica presenza come “performer”, ribadita in infiniti dibattiti nel corso delle campagne elettorali sue o a sostegno di altri (di cui resta memorabile il celebre scontro televisivo del 1968 con Buckley) e non va dimenticata la sua sporadica carriera come attore cinematografico, di cui è notevole esempio il bel cameo come senatore liberal in Bob Roberts di Tim Robbins del 1992. Amante dell’Italia, che ha sempre considerato una seconda patria, ha vissuto tra Los Angeles e Ravello, sulla costiera amalfitana.