SPECIALE: VENT’ANNI DI SHANTARAM




A cura

di

Sabrina De Bastiani


Vent’anni di Shantaram: un viaggio dell’anima tra espiazione e senso di appartenenza che trasforma la geografia in destino.

Ho impiegato molto tempo e ho girato quasi tutto il mondo per imparare quello che so dell’amore, del destino e delle scelte che si fanno nella vita. Per capire l’essenziale, però, mi è bastato un istante, mentre mi torturavano legato a un muro. Fra le urla silenziose che mi squarciavano la mente riuscii a comprendere che nonostante i ceppi e la devastazione del mio corpo ero ancora libero: libero di odiare gli uomini che mi stavano torturando oppure di perdonarli. Non sembra granché, me ne rendo conto. Ma quando non hai altro, stretto da una catena che ti morde la carne, una libertà del genere rappresenta un universo sconfinato di possibilità. E la scelta che fai, odio o perdono, può diventare la storia della tua vita.

Nel 2005 usciva Shantaram, il monumentale romanzo autobiografico di Gregory David Roberts, e oggi, a distanza di vent’anni, ci ritroviamo a celebrarne non solo l’anniversario, ma anche la persistenza nel tempo di un’opera che ha saputo fondere la brutalità della vita con la poesia dell’esistenza.

Più che un semplice libro, Shantaram è un viaggio. Un’esplorazione di cosa significhi perdersi e ritrovarsi, non solo in senso geografico – da una prigione australiana alle strade di Bombay  – ma soprattutto in senso esistenziale. In un mondo narrativo in cui la redenzione si misura in piccoli gesti e la colpa si trascina come un’ombra lunga, Roberts ha saputo scolpire un protagonista – il suo alter ego Lin – che ci accompagna attraverso le contraddizioni più profonde dell’essere umano.

Rileggerlo oggi, nel 2025, è come aprire una ferita ancora fresca e insieme un diario pieno di speranza. In un’epoca in cui l’identità sembra frammentata e la parola “appartenenza” perde di significato, Shantaram ci ricorda che siamo esseri in cerca di legami. Che possiamo essere stranieri in ogni terra, ma anche sentirci a casa in un sorriso, in una baraccopoli, in una lingua che impariamo per amore.

Forse è proprio questa la sua eredità vent’anni dopo: la capacità di restituirci la complessità della vita senza semplificarla, di mostrare che la bellezza nasce anche – e soprattutto – dal caos, dal dolore, dall’imperfezione. E che il perdono, prima che dagli altri, deve partire da noi stessi.