A tu per tu con l’autrice
Mai e poi mai avrei pensato che la prima parola che mi sarebbe salita dal cuore alla voce, per definire un thriller, fosse emozione. E non parlo di emozioni come paura, tensione, adrenalina. Quelle si ci sono, in abbondanza, leggendo Fiori sopra l’inferno. Ma l’emozione che resta alla fine è tutt’altra. E’ commozione, bellezza, fiducia, forza. Ed è con questa emozione che dialogo con Ilaria Tuti, ringraziandola della sua disponibilità. E del suo scrivere…
Grazie a voi per la disponibilità e per questa introduzione molto bella.
Ilaria Tuti
INTERVISTA
La prima cosa che salta agli occhi leggendo Fiori sopra l’inferno è la trasversalità variegata dei personaggi che animano la storia.mDai voce, spesso in soggettiva, a bambini, adulti di varia età e di varia estrazione socio-culturale, uomini e donne. Come sei riuscita a calarti così bene dentro ognuna di queste figure? Talmente bene che si ha l’impressione che i protagonisti si muovano “da soli” agiscano e reagiscano come se fossero dotati di vita propria e tu stessi “solamente” ad osservarli….
Fin da piccola mi dicevano che parlavo molto poco. Sono sempre stata riflessiva e un po’ introversa, però amavo ascoltare, osservavo. Questo interesse per le vite altrui non è mai venuto meno. Non significa curiosità morbosa per i fatti degli altri, non vuol dire fare gossip, ma si traduce in un interesse per le vicende umane che mi circondano, per i risvolti emotivi e psicologici che ne derivano. Mi interrogo sempre su chi ho di fronte e su cosa ci sia dietro quello sguardo, oltre l’atteggiamento. Amo le storie delle persone e sono affascinata dalle piccole e grandi battaglie che tutti affrontiamo nel quotidiano. Forse questa attitudine mi ha aiutata a calarmi nei personaggi del romanzo e nel loro vissuto.
Sulla falsariga della prima domanda mi piacerebbe soffermarmi in particolare sul personaggio di Teresa. Anche qui meraviglia ed è indice di grande capacità empatica, il come tu sia riuscita a rendere credibile, con un realismo impressionante, nei modi e nei pensieri, una donna di mezza età con gravi problemi di salute.mTu sei una giovane donna e se è vero che non occorre, necessariamente, essere serial killer per creare la figura di un serial killer, è a mio avviso altrettanto vero che focalizzare e rendere determinate sfumature psicologiche e gestuali richieda una notevole dote di immedesimazione. Chi, delle persone che hai incontrato, vissuto o semplicemente osservato, ti ha portato ad immaginare e costruire Teresa?
Teresa è straordinariamente normale, e per questo eccezionale. Sembra una contraddizione, ma mi riaggancio alla risposta precedente: tutti noi nella vita di ogni giorno dobbiamo affrontare paure e ostacoli, sia fisici che psicologici, confrontarci magari con un corpo che cambia negli anni, con un lavoro che ci ruba energie, con una famiglia che è gioia ma impegno costante, anche quando ti sembra di non avere più risorse, o forse con l’assenza di una famiglia… Mi sono ispirata alle donne che vedo ogni giorno e ho cercato di dare voce ai loro pensieri, ma soprattutto alle loro emozioni. Donne forti e fragili, come Teresa, perché forza non significa incrollabilità, ma la capacità di affrontare, in qualunque modo, le difficoltà della vita e ricominciare da qualsiasi punto, in ogni circostanza. Abbiamo tanti esempi di donne straordinarie, penso spesso a loro per trovare ispirazione, nella scrittura ma soprattutto nella vita.
La spina dorsale di Fiori sopra l’inferno, correggimi se sbaglio, a mio avviso, è la genitorialità. Declinata ed osservata secondo una tua prospettiva e cifra originalissima. Dove si è tutti figli, ma, e qui sta il nodo, dove tutti si può essere genitori anche senza averne, figli. L’intensità della storia, al di là del fatto, fondamentale, che si tratti di un thriller che cattura in un volta pagina inarrestabile, è data anche dalla profondità delle motivazioni di ciascun personaggio. Da dove ti è giunta tale spinta emotiva riguardo alla materia trattata, intensità emotiva che così bene hai trasmesso ai lettori attraverso le tue pagine?
Forse la chiave per la risposta è in una caratteristica che ho trasmesso a Teresa: la compassione, nella sua accezione più nobile. La interpreto con tre parole: soffro con te. Significa essere presenti nelle relazioni, percepire su di sé lo stato emotivo dell’altro e rendersi permeabili alle emozioni, allo scambio di prospettive. È un termine fuori moda, forse anche scomodo da proporre in tempi di diffidenza, in cui manca spesso l’occasione per incontrare davvero il prossimo, ma che dovremmo rivalutare.
Nel mio piccolo, con la mia curiosità per le vite altrui, cerco di essere empatica (nel modo silenzioso che mi contraddistingue), di intuire l’origine profonda di un gesto o di una parola, senza affrettare il giudizio.
Avendo i miei nonni (sopra)vissuto la tragedia del Vajont, conosco molto bene le dinamiche di una comunità montana che già per propria conformazione tende a formare un blocco compatto contro l’esterno, cosa che si acuisce qualora si incorra in una tragedia o cataclisma naturale. C’è secondo te una via, se si quale, per conquistarsi completamente la fiducia di Travenì (il paese montano del Friuli in cui si dipana la storia) e dei suoi abitanti? Mi spiego, prevedi un modo o un momento nel quale Teresa riuscirà ad essere considerata “parte di “o sarà sempre “altro da”?
Quel momento per me è arrivato nel romanzo ed è quando Gloria – madre – affida le sue speranze a Teresa – materna pur non essendo madre. Ancora una volta la via è femmina e passa attraverso la profonda empatia di due creature che non si conoscono, ma condividono l’amore per un bambino (che dovrebbe essere per tutti i bambini). L’empatia giunge a sciogliere nodi che altrimenti resterebbero serrati. Permette a Gloria di compiere quell’atto di fede, di sentire vicina un’estranea e guadagnare una potente alleata. Per tutti gli altri, che non hanno saputo rischiare, che non hanno voluto aprirsi, sarà un’occasione persa.
Letteralmente mi ha incantato il rapporto che hai immaginato e costruito tra Teresa ed il suo vice Massimo Marini. Non c’è dubbio che questi due personaggi hanno e avranno molto da dire ancora. Il loro rapporto è giocato sull’affinità istintiva, di pelle, che Teresa esprime a modo suo bersagliandolo di frecciatine ironiche, non fini a se stesse ma a mo’ di sprone, come una “madre” che vorrebbe vedere al suo meglio il pupillo anche se non ammetterà mai apertamente che lui lo sia. E Marini che reagisce al meglio, sicuramente affinando le sue doti ed imparando, ma soprattutto tirando fuori una dolcezza, un istinto di protezione nei confronti di Teresa che credo nemmeno lui immaginasse di avere. Una delle coppie investigative più nuove e belle di sempre. Quale è stato il processo creativo che ti ha portato ad immaginarli cosi? Era la tua idea originale o è arrivata in corso d’opera? Quanto e cosa c’è di Ilaria Tuti in Teresa e Massimo?
Massimo è arrivato in un momento successivo rispetto all’idea di Teresa, che invece è stata folgorante. È nato spontaneamente da una sua costola. Un grande protagonista è più interessante se ha una spalla a tenergli testa. Per me è più divertente presentare i personaggi nelle loro dinamiche e non limitarmi a descriverli. Massimo non è stato studiato a tavolino, ma si è modellato sulla base delle battute di Teresa, che aveva bisogno di qualcuno da tormentare, o non avrebbe dato il meglio di sé. Li vedevo interagire, i dialoghi scorrevano spontanei. Teresa è ciò che vorrei diventare, e mi riferisco alla sua forza, all’interiorità, alla profonda empatia con cui accoglie dentro di sé il vissuto degli altri, all’integrità di donna e professionista, al suo profondo rispetto per la vita, per quanto tormentata possa essere. Massimo, forse, è ciò che sono ora: ancora preda delle mie insicurezze, spesso titubante, ma ogni giorno un po’ più determinata.
Ho letto dei tuoi trascorsi da illustratrice e della tua passione per il disegno e la pittura, ed in effetti le tue descrizioni dei luoghi e degli eventi, e mi riferisco espressamente agli omicidi ma anche alla parte dove descrivi la festa dei Krampus sono molto “visive”. Qual è il tuo approccio? “Vedi” la scena come una sorta di quadro e la traduci in parole? E’ improprio dire circa la tua scrittura, che tu disegni con le parole?
Vedo le scene, le vivo: sento i profumi, ascolto i suoni, osservo le luci e le ombre e riporto sulle pagine la mia esperienza. Ho cercato di scrivere un romanzo “sensoriale”, ecco perché l’espressione “disegni con le parole” per me è un grandissimo complimento, grazie. Dico spesso che non siamo superfici lisce, ma siamo decorati “a sbalzo”: le luci e le ombre, i colori freddi e quelli caldi, servono a fare intravedere i rilevi e le pieghe del nostro animo. Lo scavano, danno tridimensionalità. Alla fine, il personaggio o il paesaggio delineato per contrasti diventa un quadro, una specie di scultura.
Ti saluto con un riferimento al thriller nordico chiedendoti cosa ne pensi di questo genere. Ci sono elementi che ti piacciono e che trovi affini alla tua cifra letteraria?
Degli autori di thriller nordici apprezzo le suggestioni che sanno creare con i paesaggi: sono potenti, veri e propri protagonisti. Anch’io ho voluto che le ambientazioni fossero una parte fondamentale del romanzo, per due motivi: sono una dichiarazione d’amore alla mia terra, a cui mi sono ispirata per ricrearle, e raccontano esse stesse una storia, arcaica e un po’ magica.
I thriller nordici, poi, dedicano molto spazio al vissuto dei personaggi, e forse anche in questo mi ritrovo.
Ci tengo a ringraziare te, Sabrina, per le domande davvero interessanti e profonde, e ThrillerNord per l’occasione di parlare di Teresa e la sua storia.
Ilaria Tuti
A cura di Sabrina De Bastiani
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