3096 giorni




Speciale di Ilaria Bagnati


Autore: Natasha Kampusch

Editore: Bompiani

Traduzione: Francesca Gabelli

Genere: Autobiografia

Pagine: 295

Anno di pubblicazione: 2012

Sinossi.Natascha Kampush ha dieci anni quando viene rapita. Troverà la libertà dopo 3096 giorni, oltre otto anni dopo, riuscendo a fuggire dall’appartamento in cui veniva segregata. Il rapitore, disperato per l’abbandono, si suicida. Il loro non era, infatti, un “semplice” rapporto di violenza e sottomissione. Tutta la lunga prigionia alterna momenti di violenza a momenti di tenerezza. Il rapitore vede crescere Natasha, la vede trasformarsi da bambina a ragazza. Le concede a un certo punto di uscire dalla cantina in cui era rinchiusa, per salire nell’appartamento di lui e farsi un bagno, talvolta invitandola nel suo letto per avere affetto e tenerezza, ma poi la picchia e la umilia, arrivando a negarle il cibo. L’atteggiamento dell’uomo (che per altri versi le concede di disegnare, di usare il computer) è simile a quello del mitico Pigmalione, disgustato dalle donne reali e deciso a costruirsene una perfetta con le proprie mani. Il loro lungo rapporto va avanti così per più di otto anni: Natasha riesce evidentemente ad avere un ascendente su di lui, in un rapporto di dipendenza reciproca che gli psichiatri conoscono. Fino a che Natasha, dopo molte riflessioni, decide di “abbandonarlo” e di fuggire, trovando finalmente la libertà e, lentamente, una sua nuova vita. Quasi normale.

Recensione

In questo nuovo appuntamento della rubrica vi voglio parlare di una sindrome di cui si parla spesso, ma che in pochi conoscono veramente: la Sindrome di Stoccolma. Spesso la definizione che se ne dà si riduce a “la vittima che si innamora del suo carnefice” punto e basta. Ma sarà davvero così o c’è dell’altro? Dopo il rilascio di Silvia Romano il nome di questa sindrome è stata sulle bocche di molti quindi ho pensato che fosse necessaria un po’ di chiarezza. Ho deciso così di parlarvene partendo dal libro di Natascha Kampusch che in molti ricorderete. Natascha a dieci anni viene rapita e tenuta segregata per ben 3096 giorni. Ha subito violenze fisiche e psichiche e molte privazioni, prima fra tutte la libertà. Dopo essere riuscita a fuggire l’interesse dei mass media nei suoi confronti era massimo. Dalle sue dichiarazioni molti hanno dedotto che fosse affetta dalla Sindrome di Stoccolma. Prima vi parlo un po’ di essa e poi vi riporto alcune parole della Kampusch che vi faranno sicuramente riflettere.Cos’è la Sindrome di Stoccolma?  E’ l’espressione utilizzata per indicare la situazione paradossale, in cui la o le vittime di un sequestro si affezionano al loro o ai loro sequestratori, anche a dispetto di un comportamento inizialmente violento da parte di quest’ultimi. La Sindrome di Stoccolma rappresenta ovviamente un paradosso del comportamento umano: l’ostaggio che ne è affetto, infatti, prova simpatia, comprensione, empatia, fiducia, attaccamento e talvolta perfino amore nei confronti del suo rapitore, quando invece sarebbe più logico che provasse sentimenti come odio, avversione, antipatia, volontà di non assoggettarsi ecc.

Nonostante gli esperti la descrivano come una condizione psicologica, la Sindrome di Stoccolma non presenta i requisiti indispensabili per rientrare nei manuali di psichiatria e nemmeno in una classificazione psichiatrica relativa alle malattie mentali: la critica alla sindrome di Stoccolma come patologia psichiatrica proviene dalla mancanza di studi scientifici sull’argomento e dal fatto che sentimenti come affetto, simpatia, ecc. non possono ritenersi, anche se provati nei confronti di un rapitore, i sintomi di un malessere psichico.

Da dove proviene il nome di tale Sindrome? La Sindrome di Stoccolma deve il suo nome ad una rapina avvenuta a Stoccolma nel 1973: era il 23 Agosto del 1973 quando quattro impiegati della banca Sveriges Kreditbanken al centro di Stoccolma, vennero presi in ostaggio dal criminale 32enne Jan-Erik Olsson e dal suo compagno di cella Clark Olofsson. L’assedio alla banca durò 6 giorni, al termine dei quali era evidente come le vittime della rapina avessero sviluppato una sorta di relazione affettiva con i loro rapitori. Gli impiegati della banca, presi in ostaggio per sei giorni, si legarono emotivamente ai rapitori, tanto da giustificare i loro comportamenti e rifiutarsi di collaborare con la polizia. Anche una volta liberati, alcuni rimasero in contatto con i loro rapitori e si rifiutarono di testimoniare contro di loro in tribunale. Dopo l’arresto gli ex ostaggi fecero persino visite in carcere ai loro ex carcerieri. Gli psichiatri spiegarono questo fenomeno sostenendo che gli ostaggi, legati emotivamente ai loro rapitori, avessero sviluppato riconoscenza e gratitudine verso i carnefici anziché verso la polizia poiché i sequestratori non li avevano uccisi.

Il primo a coniare il termine “sindrome di Stoccolma” fu il criminologo e psichiatra Nils Bejerot collaboratore della polizia durante la rapina alla Kreditbanken, che fece riferimento a questa sindrome in un notiziario.

Aspetti psicologici. Questa tipologia di reazione sembrerebbe essere una risposta emotiva automatica e inconscia al trauma, che coinvolge sia la vittima che l’aggressore. Può colpire soggetti di ogni età, sesso, nazionalità e senza nessuna distinzione socio-culturale. Questa risposta generalmente si sviluppa in tre fasi:

  • sentimenti positivi verso gli aggressori (dopo circa tre giorni di convivenza forzata);
  • sentimenti negativi verso le autorità;
  • reciprocità di sentimenti positivi tra vittima e carnefice.

Quali sono i sintomi? Una lista chiara non è stata stabilita a causa di diverse opinioni da parte degli esperti ma si può comunque definirne alcuni:

  • sentimenti positivi da parte della vittima nei confronti del suo aggressore;
  • tentare di compiacere il o i rapitori (è un comportamento più frequente negli ostaggi di sesso femminile);
  • rifiutarsi di scappare dai rapitori in caso di possibilità;
  • rifiutarsi di collaborare con la polizia per il loro salvataggio;
  • giustificare e/o difendere le azioni dei rapitori;
  • assoggettarsi al volere dei rapitori.

Una volta libero, la sindrome di Stoccolma può portare chi l’ha sviluppata a: rifiutarsi di testimoniare contro il rapitore; sentirsi in colpa per la carcerazione del sequestratore; far visita in carcere al suo o ai suoi rapitori; rimanere ostile nei confronti della polizia e delle altre autorità governative con compiti analoghi; organizzare una raccolta fondi per aiutare il rapitore rinchiuso in galera.

Una volta sviluppatasi non si conosce ancora con precisione la possibile durata di questa Sindrome, ma pare possa sussistere anche per parecchi anni. E’ comunque opportuno sottolineare che anche in chi ha sviluppato la Sindrome di Stoccolma si sono riscontrati a distanza di tempo: disturbi del sonno, incubi, fobie, trasalimenti improvvisi, flashback e depressione.                                               Tornando al libro, in 3096 giorni vediamo l’esperienza vissuta in prima persona dalla Kampusch, dal suo rapimento alla sua fuga. Veniamo a conoscenza di molti particolari, della sua vita in casa di Wolfgang Priklopil, del suo rapporto con lui e delle violenze subite. Non è un libro facile da leggere, pensare a cosa deve aver subito una bambina di 10 anni, una bambina che è cresciuta insieme al suo rapitore con cui ha passato otto lunghissimi anni con lui è un pugno allo stomaco. A questo punto vi lascio alcune parole tratte dal libro della Kampusch in merito alla Sindrome di Stoccolma. Non voglio entrare nel merito, se sia stata affetta da tale Sindrome, non spetta a me. Ho scelto questo libro, oltre che per il suo impatto emotivo, perché la ragazza è considerata una dei più celebri casi di vittime affette da tale Sindrome. Riflettete sulle parole che seguono:

“Con Sindrome di Stoccolma s’intende un fenomeno psicologico, per cui un ostaggio instaura un rapporto emotivamente positivo con i suoi sequestratori. Questo può implicare che la vittima simpatizzi con i criminali e cooperi con loro”- così sta scritto nel dizionario enciclopedico. Una diagnosi che io rifiuto decisamente. Perché, per quanto gli sguardi di coloro che buttano là questo concetto possano essere pieni di compassione, l’effetto è terribile. Questo giudizio rende la vittima, infatti due volte vittima, perché la priva dell’autorità di interpretare la propria storia; gli avvenimenti più importanti della sua esperienza vengono così liquidati come le aberrazioni di una sindrome. E proprio quel comportamento, che ha contribuito in modo decisivo alla sopravvivenza del prigioniero, viene giudicato quasi sconveniente. Avvicinarsi a un criminale non è una malattia. Crearsi un bozzolo di normalità nell’ambito di un crimine non è una sindrome. Al contrario. E’ una strategia di sopravvivenza in una situazione senza via di uscita, ed è più fedele alla realtà di qualsiasi piatta categorizzazione dei criminali in bestie sanguinarie e delle vittime in agnelli indifesi, davanti alla quale la società si ferma volentieri.

PAGINE CONSIGLIATE:

LIBRI CONSIGLIATI:

  • La sindrome di Stoccolma. Innamorarsi del proprio carnefice (2019). Michela Pugliese. Youcanprint
  • Dalla parte della vittima (1980) Guglielmo Gulotta, Marco Vagaggini. Giuffrè Editore.

A cura di Ilaria Bagnati

ilariaticonsigliaunlibro.blogspot.com

 

Natascha Maria Kampusch


Natascha Maria Kampusch (Vienna, 17 febbraio 1988) è una scrittrice austriaca. Fu vittima di rapimento all’età di dieci anni, il 2 marzo 1998. Dopo otto anni di segregazione, riuscì a liberarsi fuggendo dal proprio rapitore, Wolfgang Přiklopil, il 23 agosto del 2006.