Swing time



swing time zadie smith

Recensione di Marina Morassut


Autore: Zadie Smith

Traduttore: S. Pareschi

Editore: Mondadori

Pagine: 417

Genere: Narrativa

Anno di pubblicazione: 2017

Incontro l’autrice inglese Zadie Smith a Lignano (UD), lo scorso sabato 17 giugno, in occasione della sua visita per ritirare il Premio Hemingway, sezione letteratura. Mi colpiscono innanzitutto la sua figura ed il suo portamento regale, eppure timido, almeno all’apparenza. La sua voce particolare, la pronuncia della sua lingua e la velocità dell’eloquio, che mi hanno impegnata non poco nella comprensione di quanto diceva.  Oltre alla sorpresa di scoprire che parla la nostra lingua. In realtà ho partecipato all’intervista – intensa ma purtroppo breve – che ha gentilmente rilasciato, visto che la consegna del premio si sarebbe svolta in serata. Confesso che la lettura del suo libro non era ancora terminata, anche se devo dire che questo è stato un fatto positivo, in quanto ciò che quella mattina ha detto l’autrice, mi ha aiutata ad addentrarmi ancor di più nella sua opera, a capire che non si parlava solo di società multirazziale e degli sfavillanti anni ottanta o di povertà in Africa, ma anche di tutti quei sentimenti così comuni nell’essere umano, tipo l’invidia, il desiderio ed il senso di appartenenza nell’accezione più ampia del termine.

Saggio o romanzo? È la domanda che si pone il lettore non appena terminato il libro.  Certamente l’autrice inglese Zadie Smith è abbastanza esperta ed intelligente da capire che se avesse scritto un saggio, non sarebbe stato letto così diffusamente come invece avviene per un romanzo. Ma si tratta sicuramente di una sorta di inchiesta che attraverso il genere romanzato ci restituisce un libro idealista ma al contempo senza illusioni. Aggressivo ma allo stesso tempo mite ed “educato”.  Un libro che fa della comprensione dei propri limiti e di quelli altrui una sorta di girotondo senza fine e quindi senza evoluzione. Un libro che percorre un ciclo di vita, il così detto percorso di formazione della protagonista, che fa esperienze, è consapevole delle esperienze fatte, eppure non riesce ad evolversi e prendere delle decisioni che la portino ad essere protagonista della propria vita.

 “Avevo sempre cercato di aggregarmi alla luce degli altri, non avevo mai avuto una luce mia. Mi percepii come una specie di ombra”                          

E forse, ragiono ad alta voce, è proprio per questo motivo che l’autrice non darà un nome alla sua protagonista. O forse perché idealmente, nonostante le esperienze di vita diverse, la protagonista di questo romanzo potrebbe essere ciascuno di noi.

Ci sono molti argomenti che l’autrice, fine saggista, ci presenta e fa vivere ai protagonisti del suo romanzo, che siano ballerini, segretarie, pop-star o “semplici” genitori.  La partenza è l’analisi, quasi da antropologa, della cultura multietnica della gente di seconda generazione che vive in Gran Bretagna, negli anni ottanta / novanta, quando Zadie è una ragazza. E come lei, tantissimi giovani provenienti da famiglie di etnia mista, che hanno una vaga idea del paese di provenienza di uno dei due genitori. “Proveniamo dalla Giamaica”, è una frase vuota per questa gioventù che si affaccia alla vita nella swinging London, pur magari vivendo nella periferia degradata. Conoscono vagamente la storia reale dei paesi dell’Africa, della schiavitù, degli orrori da cui sono fuggiti i loro genitori. E questo, come ci dirà Zadie nell’intervista, è una grande pecca del sistema educativo del paese dove questi emigrati si sono trasferiti.  Vite, tra l’altro, tutte in salita, di chi parte dalle case popolari e ha il fardello della pelle nera, a volte mulatta, che non ti permette nemmeno di appartenere ad una precisa categoria: neri, bianchi…

Un altro argomento cui l’autrice sembra tenere particolarmente è il desiderio di appartenenza ad un gruppo sociale, che poi non è altro che il prosieguo di quanto appena detto e che si estrinseca in modi diversi, a seconda dell’epoca che si prende in esame. Dalla musica al modo di vestire degli anni ottanta / novanta, allo smartphone e ai diversi social media attuali.   Ma l’essere umano in qualsiasi epoca e contesto ha sempre cercato di appartenere ad un gruppo.  E questo concetto l’ha espresso magnificamente anche lo scrittore scozzese Alexander Mc Call Smith, che in uno dei suoi libri scrive “amiamo fare allusioni private, far parte di un gruppo esclusivo, vogliamo sentire di appartenere a qualcosa.

Cerchiamo tutti, semplicemente, un po’ di sicurezza…”  E poi c’è la danza che permea ed invade tutto il romanzo, che accompagna la protagonista dall’infanzia all’età adulta. Iniziando con Fred Astaire, sin da quando la protagonista e l’amica Tracey sono bimbe e si sono appena incontrate alla loro prima lezione di danza, fino a scomodare Michael Jackson, per il quale il padre di Tracey teoricamente lavora.

Un amore per la danza e la musica che trova il suo naturale sboccio anche nel titolo che Zadie Smith dà alla propria opera: la commedia musicale del 1936 “Swing Time”, (che in Italia è uscita all’epoca con il titolo “Follie d’Inverno”), sesto dei dieci film girati dall’inossidabile e superlativa coppia Astaire-Rogers, con il numero Bojangles of Harlem che nel libro ricorrerà ripetutamente (e che riprende la sensazione di ombra della protagonista).   Altro punto focale ed importantissimo per l’autrice è lo scorrere del tempo, fondamentale per i ballerini – che lo temono – e così corteggiato dagli scrittori, che lo agognano come elisir di esperienza e di ricchezza di scrittura. O persino per le persone che di tempo non ne hanno più.E proprio il tempo scorre avanti e indietro per le due amiche, in una sequenza più o meno ordinata di ricordi e di vicissitudini.

Ed incontreremo ancora Tracey, che vorremmo intimamente fosse la vera protagonista del romanzo nella coppia delle due amiche che vivono di amore e di possessiva invidia e rivalsa, che seguirà la danza e proverà a fare qualcosa di diverso della sua vita – salvo forse ricalcare le orme delle donne che l’anno preceduta, non ultima sua madre – ma sempre come protagonista. E l’altra, la Senza Nome, (figlia di una giamaicana che ha sacrificato sull’altare dello studio e della carriera sia marito che figlia), farà una vita “diversa” come segretaria di una pop-star (che è una figura a metà strada tra una Angelina Jolie e una Madonna, con tutti gli aspetti positivi e negativi, ampliati a dismisura da ricchezza e fama) – e che viaggerà in tutto il mondo, approdando alfine nell’Africa delle sue origini, dove la povertà mantiene ancora il suo orgoglio e le sue tradizioni arcaiche – e che reagirà in modo prevedibile alla carità più o meno imposta.

Un romanzo lungo e suddiviso in molti capitoli, che sembra ricorrere anche al genere memoir, dove questa superba autrice virtuosa dello stile cambia ancora registro rispetto alle sue opere precedenti, e che consegna a noi lettori una sorta di romanzo sociale, proprio per i temi che tratta e per i luoghi che ci fa visitare.  Chissà, forse il lettore italiano sente meno il coinvolgimento in questo tipo di trattazione, nonostante l’argomento immigrati sia molto sentito negli ultimi tempi. D’altronde, la Gran Bretagna è avanti a noi di decenni sull’immigrazione e i problemi legati alla cultura multietnica.   Resta comunque l’impressione ultima e complessiva di lontananza, quasi di freddezza nel leggere questo romanzo, pur se gli argomenti universali di cui l’autrice ci rende partecipi non ci lascia indifferenti.  In definitiva una prova magistrale di scrittura e di vita che però, per quanto eccellente, si legge più come un saggio molto interessante che come un romanzo coinvolgente.

Zadie Smith


(Londra, 1975), di padre inglese e madre giamaicana, a soli 23 anni ha scritto Denti bianchi, divenuto uno straordinario caso letterario, entrando di prepotenza nel pantheon della letteratura contemporanea. Successivamente ha pubblicato, sempre per Mondadori, L’uomo autografo, Della bellezza, NW e L’ambasciata di Cambogia.