Giorgio Ballario
La settima indagine
del maggiore Aldo Morosini
nell’Africa Orientale Italiana
Editore: Edizioni del Capricorno
Genere: Noir, giallo storico
Pagine: 300
Anno edizione: 2024
Sinossi. Dicembre 1937. Mentre Asmara si prepara alla visita del duca d’Aosta, nuovo governatore dell’AOI, Morosini è alle prese con un caso spinoso. La domestica eritrea di una delle famiglie più in vista della città è stata uccisa in strada a coltellate. Per far luce sul delitto, in compagnia degli immancabili Barbagallo e Tesfaghì, Morosini è costretto a sollevare il velo d’ipocrisia che nasconde i segreti del potente clan dei Bouchard, eredi di coloni arrivati in Africa alla fine dell’Ottocento e proprietari di vaste concessioni agricole. Quando muore in circostanze misteriose anche la capofamiglia Maria Elena, il maggiore sospetta che i due decessi siano collegati e facciano parte di un oscuro intreccio di interessi, rancori e rapporti clandestini. Intanto Morosini è sempre più diviso tra l’amore epistolare con la lontana spia tedesca Erika Hagen e l’ardente passione per Lucilla Santacroce, una «donna perduta» che si rivela ben più di un’amica…
Recensione di Salvatore Argiolas
Dopo la fine della guerra d’Etiopia il maggiore dei carabinieri Aldo Morosini è passato nei ranghi della PAI, la Polizia dell’Africa Italiana e mentre è in licenza a Massaua, città portuale sul Mar Rosso viene convocato, interrompendo le meritate vacanze, ad Asmara, capoluogo dell’Eritrea, per indagare sulla morte di una donna indigena, pugnalata in un vicolo e sgozzata senza pietà.
La morte di questa donna è veramente un mistero in quanto il movente è ignoto e la polizia italiana si attiva solo dopo l’intervento della potente famiglia Bouchard, imprenditori di origini valdesi al cui servizio lavorava la povera Samya, vittima di un crimine tanto efferato quanto inesplicabile.
Morosini si interessa subito della sorte della povera donna e capisce che deve indagare sulle sue origini per poter far luce sul suo omicidio e, chiamato il fido sciumbasci Tesfaghì, si pone subito al lavoro interrogando i datori di lavoro e quanti conoscevano Samya.
L’indagine consente al maggiore di approfondire la conoscenza del fenomeno del madamato, consistente nella convivenza tra coloni italiani e donne indigene, che sebbene proibita dalla legge era comunemente praticata. “Il problema è che intanto ora c’è una legge vigente, così se un giorno a qualcuno gira di applicarla in modo rigoroso saranno sorci verdi per tutti.”
“L’equivoco del sangue” è il settimo episodio della serie dedicata al maggiore Morosini, iniziata nel 2020 con “Morire è un attimo” che attraverso le indagini dell’ufficiale ci fa conoscere un angolo di mondo affascinante e ricco di contraddizioni come l’Africa Orientale Italiana dove convivevano tante etnie e religioni, melting pot di straordinaria umanità, sconosciuto a tanti e che Giorgio Ballario ci mostra con la consueta bravura.
Alla fine proprio l’Eritrea, colonia italiana dal 1890 al 1941, diventa con prepotenza la protagonista dei romanzi, con i suoi paesaggi mozzafiato, il suo territorio tanto vasto e geograficamente differenziato e la sua popolazione fiera e dignitosa che seduce Morosini e lo fa sentire a casa propria.
“Cara, vecchia, opprimente e invivibile Massaua! Però così affascinante nelle mattine ventilate in cui il cielo terso all’orizzonte si confonde con il blu del mare; oppure al tramonto, quando il crepuscolo indora gli antichi palazzi arabi e un refolo d’aria fa ondeggiare le chiome frondose delle palme. In realtà in quegli undici mesi sull’altopiano avevo sentito la mancanza della città che aveva tenuto a battesimo il mio arrivo nella colonia, anni prima.”
“Ad Asmara si viveva meglio per tanti motivi, ma non avrei mai dimenticato il fascino decadente delle vecchie case in stile arabo e portoghese della città vecchia oppure lo sfarzo delle ville fatte costruire dagli italiani sulla penisola di Taùlud. O la desolazione abbacinante che mi prendeva nell’attraversare le immense saline di Gherar e la malinconia che di sera mi cullava quando mi affacciavo alla finestra, accaldato e insonne, per osservare i sambuchi da pesca che filavano sulla cresta delle onde.”
Con l’aiuto del maresciallo Barbagallo e dell’ascaro Tesfaghì, il maggiore indaga senza fare molti progressi, vista l’omertà e scarsa collaborazione di tanti personaggi ma trova l’indizio giusto quando rinviene il diario scritto da Samya.
“Il dolore e la disperazione che trasudavano da quelle righe mi avevano fatto provare una gran pena per quella donna, pena che si era tramutata in dispiacere sincero quando avevo capito anche il motivo per cui aveva lasciato l’agenda nelle mani di sua cugina a Cheren.”
“La verità era che della sua morte non sarebbe importato nulla e nessuno, così come delle sofferenze e tribolazioni che aveva patito in vita. Pensai, anzi, che la mano assassina fosse stata inconsapevolmente pietosa, perché in qualche modo le aveva risparmiato il decadimento fisico e il tormento degli ultimi mesi di malattia.”
Appassionato lettore del filosofo stoico Seneca, Aldo Morosini è un militare ligio al dovere ma ricco di umanità e quando apprende la notizia della morte di Samya, all’inizio trascurata dalle autorità dice con convinzione al maresciallo Barbagallo, che “Per noi invece i morti sono tutti uguali, perciò ti raccomando d’indagare con la massima cura: fai tutto ciò che ritieni necessario, poi quando tornerò ad Asmara vedremo di tirare le fila.”
Anche se fa parte delle forza armate non esita a criticare con forza l’eccidio del monastero copto, e perciò cristiano, di Debra Libanòs, a nord di Addis Abeba,
“una vergogna che noi italiano avremmo faticato a toglierci di dosso. Dopo l’attentato a Graziani, dal quale il generale era uscito soltanto ferito, ma che aveva provocato molti morti, la repressione contro gli sciftà abissini era stata spropositata. (…) Una volta preso il convento, le truppe italiane e somale agli ordini del generale Maletti non si erano limitate a fucilare i ribelli, ma avevano giustiziato anche centinaia di monaci, seminaristi e suore copte, colpevoli di aver dato rifugio agli sciftà.”
Il maggiore Aldo Morosini è un personaggio unico nel panorama noir italiano che Giorgio Ballario fa interagire alla perfezione in un’ambientazione storica molto accurata con trame realistiche di notevole rilevanza che superano che superano quelli che sono considerati i confini del genere e, se tutti gli episodi dalla serie sono pienamente convincenti, “L’equivoco del sangue” mi pare ancora migliore dei precedenti, con l’ufficiale che non si limita a scoprire il colpevole dell’omicidio ma cerca anche di rendere giustizia alla povera Samya.
“Io però conoscevo la sua storia e sentivo l’obbligo morale di cercare la strada per un risarcimento postumo. Non solo di scoprire l’assassino, che al di là di tutto rimaneva mio preciso dovere professionale; ma anche tutelare il nome e la memoria della vittima.”
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Giorgio Ballario
è nato a Torino nel 1964, è giornalista e lavora a La Stampa. Ha pubblicato racconti in svariate antologie giallo-noir, tra cui, per Edizioni del Capricorno, Porta Palazzo in noir (2016) e Il Po in noir (2017), e sei romanzi: Morire è un attimo (2008), Una donna di troppo (2009), Il volo della cicala (2010), Le rose di Axum (2010), tutti appartenenti al ciclo del maggiore Morosini; Nero Tav (2013) e, per Edizioni del Capricorno, Il destino dell’avvoltoio (2017). Nel 2010 ha vinto con Morire è un attimo il Premio Archè Anguillara Sabazia e nel 2013 il Premio GialloLatino con il racconto Dos gardenias, pubblicato da Segretissimo Mondadori. Con Vita spericolata di Albert Spaggiari, biografia di un famoso ladro francese degli anni Settanta (2016), è stato finalista al Premio Acqui Storia. Fuori dal coro (2017) è una galleria di personaggi irregolari e controcorrente del Novecento. Dal 2014 è presidente di Torinoir, sodalizio di scrittori torinesi malati di noir.