Recensione di Francesca Mogavero
Autore: Abdulrazak Gurnah
Editore: La nave di Teseo
Traduzione: Alberto Cristofori
Pagine: 384
Genere: Narrativa
Anno di pubblicazione: 2021
Sinossi. Il sessantacinquenne Saleh Omar è un mercante di mobili di Zanzibar, richiedente asilo in Inghilterra. Come un Sindbad dei giorni nostri, Saleh lascia una terra dove il genio del male si è incarnato in governanti ladri pronti a ogni forma di moderna violenza politica: campi di concentramento, armi e uno stuolo di cortigiani. Al suo arrivo a Londra, all’aeroporto di Gatwick, Saleh mostra un visto non valido, rilasciato in patria da un suo parente e acerrimo nemico, RajabShaaban Mahmud. A Saleh è stato consigliato di fingere di non capire una parola di inglese, per cui l’assistente sociale che ha preso in carico il suo caso si trova costretta a chiedere la consulenza di un esperto di kiswahili, uno dei dialetti dell’Africa orientale: per ironia della sorte, l’interprete è LatifMahmud, il figlio di Rajab, l’avversario di Saleh. L’uomo ha tagliato ogni ponte con la sua famiglia di origine dagli anni ’60, quando ha chiesto asilo come rifugiato in Inghilterra, dove vive nella nostalgia della sua terra. Saleh si trova ora faccia a faccia con Latif in una cittadina inglese sul mare. Entrambi rifugiati, con un’origine e un destino ad accomunarli.
Recensione
Il narratore mente. In letteratura è un dato di fatto, un patto che lettore, scrittore e personaggi stringono e siglano, per poi non parlarne mai più, quando le dita ancora indugiano sulla copertina e l’avventura è sul punto di incominciare.
A meno che non si tratti di un’autobiografia che si fa racconto – ma anche in questi casi, talvolta, la memoria e la verità possono giocare qualche scherzo, suggerito dal tempo o dalla volontà…
– un’opera di narrativa dipinge un mondo che è “solo” verosimile: un universo preciso, che sia qui o altrove, con le sue regole e i suoi meccanismi, dotato di equilibri e coerenze interni, frutto di passione, di studio, di progettazione, ma comunque irreale. Giunti alla parola “fine”, quel cosmo cesellato e amato resta chiuso tra le pagine e dentro di noi, regalandoci un bagaglio di nuove conoscenze, sensazioni, pensieri in subbuglio, interrogativi e nostalgia –
quante eroine, quanti comprimari avremmo voluto incontrare nel nostro adesso, per proseguire una conversazione lasciata in sospeso, convincerli a compiere altre scelte, a tornare sui propri passi per intraprendere una strada differente, o a darci un consiglio?
Cosa accade, però, quando, alla menzogna insita nel DNA di una storia, si insinua il dubbio che la voce narrante stia deliberatamente mentendo, sia ai suoi interlocutori di carta sia a noi?
Succede che ci guardiamo con insistenza alle spalle, come se, in una strada buia di una città sconosciuta, ci sentissimo seguiti; sospettiamo dentro e fuori dai paragrafi, come se l’incertezza filtrasse dai polpastrelli e gocciolasse sulla nostra realtà, quella vera e provata, esperita con i sensi; avvertiamo un fibrillante e fascinoso disagio, la tentazione di cedere e lasciarsi abbindolare, il brivido dell’ignoto, la voglia di sottoscrivere un nuovo accordo, più profondo e segreto, soltanto con chi ci sta incantando, lasciando fuori tutte le altre parti, in primis l’autore.
Capita questo, purché il narratore in questione abbia il talento, la potenza, la magia di Saleh Omar.
Insieme a Latif Mahmud è il protagonista di Sulla riva del mare, eppure conosceremo il suo veronome soltanto a un certo punto, perché è arrivato in Inghilterra in cerca di asilo con un visto non valido, intestato a una persona che esiste, ma non è lui: Rajab Shaaban Mahmud, padre proprio di Latis, nonché aguzzino, vittima e parente acquisito di Saleh. E come possiamo prestar fede e ascolto a qualcuno che si presenta sotto altre spoglie?
Ci riusciamo eccome, perché Saleh, Shaaban o chiunque sia è assolutamente eccezionale: una figura che assomma l’arguzia di Sindbad, il carisma della gente di mare, il potere di avvincere delle Mille e una notte, la maligna sottigliezza dei jinn e l’abilità alla contrattazione dei mercanti di ogni terra e ogni epoca. La vera domanda è: come resistergli? Soprattutto, per quale ragione dovremmo farlo?
La sua passione per le mappe e le destinazioni più remote ed esotiche, il suo amore per la sposa Salha e la figlia Ruqiya – “Che Dio abbia pietà delle loro anime” – le sue esperienze (vere, quasi-vere, assolutamente false?), i suoi ricordi: tutto di lui ci chiama e ci avvince, anche i suoi silenzi.
Allora noi, come Latif – altra metà della medaglia, ugualmente brillante, per il quale scattano empatia e simpatia immediate – intravediamo, proprio in quei non-detti, nelle digressioni, nelle iperboliche peripezie, non soltanto un innegabile amore per il mito, il suono e il segno netto (“precisione, sono un uomo di parole”), ma anche qualcosa di intimo, la ferrea volontà di serbare qualcosa soltanto per sé per proteggerlo, la dignità di guardarsi e riguardarsi con ironia e occhilimpidi, imbavagliando l’autocommiserazione e i traumi per andare avanti e basta, nonostante tutto, l’urlo muto di chi cerca un rifugio, in cambio trova burocrazia e pregiudizio e sa che svelarsi non serve, o, meglio, è un atto troppo prezioso che gli altri non meritano – non meritiamo.
O forse mi sto sbagliando, perché Saleh Omar sa che sappiamo, che sospettiamo, che crediamo di sapere… E con l’ennesimo guizzo di vanità e genio mette in luce e nasconde, cuce nude verità e bugie infiorettate per motivi soltanto suoi, leva l’ancora e ci tende la mano. La sua presa è salda e sincera, è proprio vera, sicura come quella dei marinai esperti, e ci porta via, sulle onde di leggende e sogni che, di qualunque sostanza siano fatti, ci fanno sorridere, riflettere, andare lontano.
Abdulrazak Gurnah, con una prosa senza tempo che sconfina nella poesia e nella formularità dell’epica e della fiaba, dà voce, forma e anima a Paesi, popoli e individui che rivendicano il sacrosanto diritto di esistere, di essere e ricordare…
Poi sparisce dietro le quinte, nell’inchiostro, e cede il palcoscenico al romanzo e alle sue creature, come un artista, un vero scrittore dovrebbe fare.
Uno scrittore da Nobel.
A cura di Francesca Mogavero
Abdulrazak Gurnah
Abdulrazak Gurnah è premio Nobel della Letteratura 2021. Ha scritto dieci romanzi, tutti in corso di ripubblicazione presso La nave di Teseo: Memory of Departure, Pilgrims Way, Dottie, Paradise(finalista al Booker Prize e al Whitbread Award), Admiring Silence, Sulla riva del mare (selezionato per il Booker Prize e finalista al Los Angeles Times Book Award), Desertion (finalista al Commonwealth Writers’ Prize), The Last Gift, Gravel Heart e Afterlives (selezionato al Walter Scott Prize e finalista all’Orwell Prize for Fiction). È professore emerito di Letteratura inglese e postcoloniale all’Università del Kent. Vive a Canterbury. Dalla motivazione dell’Accademia di Svezia: “Il premio Nobel della Letteratura 2021 è assegnato al romanziere Abdulrazak Gurnah per la sua intransigente e profonda analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato tra culture e continenti.”
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