Recensione di Davide Piras
Autore: Camille de Toledo
Traduzione: Alberto Folin
Editore: Neri Pozza
Genere: Romanzo
Pagine: 242
Anno di pubblicazione: 2021
Sinossi. Vi sono giorni in cui è dato diventare dei sopravvissuti, e portare sulla schiena l’enigma e il peso della morte. Il primo marzo duemilacinque è uno di questi giorni per Thésée. Al secondo piano di un appartamento parigino, in cui accorre chiamato dal padre, l’irreparabile si schiude davanti ai suoi occhi: suo padre seduto e, disteso sulle mattonelle rosse, suo fratello Jérôme, morto suicida. Che quella scena ubbidisca a una legge crudele destinata a infrangere ogni legame, Thésée lo apprende negli anni immediatamente successivi. La madre e il padre muoiono e tutto il mondo in cui lui ha imparato ad amare sprofonda nel nulla. Che cosa fare quando tutto cade e la vita è maledetta? Quando, nel luogo in cui si è vissuto, non vi sono piú giorni e luce? Che cosa fare se non cercare giorni e luce altrove e lasciarsi alle spalle le tragedie, i lutti, il labirinto del passato? Thésée giura a sé stesso di non lasciare che il passato infesti l’avvenire. Abbandona la città dell’Ovest e parte con l’ultimo treno verso l’Est, alla volta di un paese in cui respirare aria nuova, in cui nessuno conosce il suo nome. La ferita del passato, però, non scompare affatto quando luoghi e nomi cambiano. La ferita è incisa nel corpo, in quell’involucro in cui le immagini, il verbo e la materia si confondono. Il corpo di Thésée collassa, percosso dalle forze del suo recente passato, e da altre più antiche che gli rivelano una verità inaspettata: che ognuno di noi non è altro che un continuum di disastri e di crolli racchiuso in quella cristallizzazione di legami che chiamiamo Corpo. A nulla vale perciò cercare una vita nuova che volti le spalle al passato. Thésée è costretto a rituffarsi nelle acque del tempo, a intraprendere un viaggio al cuore della notte, nelle pieghe del corpo, nel labirinto del passato, per ritrovare il filo della sua vita e non soccombere.
Recensione
Il romanzo “Da una vita all’altra” s’incardina quasi totalmente su una domanda dolorosa:
chi è l’assassino di un uomo che si ammazza?
È questo lo straziante interrogativo che i morti suicidi lasciano a coloro che restano e che li amavano. Si sopravvive alla scelta di andarsene dei propri cari e si continua a chiedersi per tutta la vita se si poteva fare qualcosa che non si è fatto, se c’erano stati dei segnali che non si sono colti.
Neppure Thésée può sottrarsi a tale destino quando il fratello Jérôme si impicca costringendo loro padre a ritrovare il corpo appeso alla corda. Non un suicidio qualsiasi, un’impiccagione avvenuta attraverso una fune che non si è spezzata e tiene Jérôme e il mondo appesi al passato, agli affetti che non si aveva il coraggio di abbandonare del tutto.
Il protagonista Thésée viene consegnato a un’esistenza di rimorso, ché tutti ci sentiamo un po’ padri e madri dei nostri fratelli e sorelle. Ma Thésée lancia anche delle accuse alla sua famiglia, rea di aver costruito due figli perfetti e fallibili nella stessa misura; un’accusa che si estende a tutta la generazione dei loro genitori.
Dalla morte di Jérôme si radica in Thésée la convinzione di vivere una vita maledetta e a confermare questa impressione arriva la morte di sua madre, nella stessa data del compleanno del fratello suicida.
Per sfuggire alla coltre funesta che opprime Parigi – La città dell’Ovest – dopo la morte di suo padre, Thésée, ormai trentacinquenne, fugge con i suoi tre figli verso Berlino: La città dell’Est. In questo viaggio di redenzione che è la seconda parte della vita, scopre la storia della sua famiglia attraverso un vecchio libro ormai dimenticato.
Sembra quasi che i suoi avi patissero le stesse pene, vivessero le medesime sfortune.
Thésée somatizza tutto quel dolore e si ammala. Ma non esiste cura per un male interiore che riempie i corpi di una stessa stirpe come recipienti destinati a portare dentro se stessi la mestizia che tocca in dote a una famiglia piuttosto che a un’altra. Fuggire dal passato non è mai una medicina per chi non sa di essere malato.
Camille de Toledo dà vita a un romanzo struggente che ripercorre le orme dei grandi autori francesi della letteratura mondiale, ma lo fa in chiave moderna seguendo il filone di una nuova corrente transalpina inaugurata da Jean-Baptiste Del Amo.
La scrittura è raffinata, dolorosa, capace di toccare le corde più intime dell’animo umano. Alle virgole vengono preferiti i punti e virgola, come se anche i personaggi della storia avessero bisogno di una pausa più lunga per pesare azioni e parole. Il ritmo è lento, tarato sul viaggio meditativo del protagonista, un tragitto con tante fermate.
Alcune immagini simboliche fanno da corollario a un testo che rende su carta il significato perfetto della parola bellezza. Questo romanzo instilla in ogni lettore il desiderio di sapere di più sulle proprie origini, sulle relazioni con gli altri, su se stessi. Spinge a vivere al massimo perché all’indomani non si sa cosa troveremo.
Edgar Allan Poe scrisse:
“Oggi sono in catene e sono qui. Domani sarò senza ceppi… ma dove?”
Camille de Toledo
è scrittore, teorico e artista. Nel 2004, ottiene una borsa di studio a Villa Medici. Nel 2008, fonda la Société européenne des auteurs, un’istituzione che incoraggia una “poetica ed una politica del tradurre” in Europa. Dal 2012 e dalla sua partenza per Berlino, Toledo lavora a delle forme estese di scritture e assume l’acronimo di CHTO per delle narrazioni materiali, artistiche. Da ricordare in particolar modo l’opera-video, « La Chute de Fukuyama », nel 2013, con l’orchestre Philharmonique de Radio France o, nel 2015, a Leipzig, presso il Centre d’Art de la Halle 14-Spinnerei, il ciclo di « L’Exposition potentielle », « History Reloaded », e « Europa – Eutopia ». Ha scritto cinque romanzi e quattro saggi, tra cui Les Potentiels du temps (Manuella éditions), apparso nel settembre 2016. Il suo nuovo romanzo, Le livre de la faim et de la soif, è stato pubblicato nel febbraio 2017 (Gallimard).
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