Recensione al romanzo “” di Jean Aquaviva” e approfondimento delle opere d’arte citate dall’autore
A cura di Manuela Moschin
Sinossi. Il critico d’arte di origini còrse Daniel Sinclair, che vive nel quartiere milanese di Brera, è uno studioso della pittura post-impressionista. Impegnato nella scrittura di un saggio su Van Gogh, si reca a Copenaghen in compagnia di Sonia, la sua amante. Qui incontra lo scrittore francese Pennac – il cui nonno paterno è còrso – e l’amico psicoterapeuta David, grazie ai quali il ricordo delle radici famigliari assume il carattere di una vera e propria riconciliazione con il passato. Daniel si sposta poi in Francia, a Tolosa e ad Albi, ospite degli amici Andrea e Sara, per approfondire lo studio di Toulouse-Lautrec: ma l’artista basca Marika spariglia le carte in tavola. Una serie di avvenimenti porterà Sinclair a vedere il volto feroce, senza veli o deformazioni, delle sue relazioni con l’altro. Su tutta la vicenda si riverberano i quadri dei due artisti prediletti, quasi numi tutelari che accompagnano il protagonista nel suo percorso catartico, di maturazione e consapevolezza.
Recensione
Questo libro mi ha letteralmente conquistata e ora vi spiego il motivo. Da appassionata di arte rappresenta una vera delizia da assaporare a piccoli sorsi. Si tratta di uno di quei volumi che una volta letto dispiace riporre nella libreria perché ti assale la voglia di leggerlo e rileggerlo. Perché?
E’ una storia che contiene un’ottima trama raccontata dalla penna di Jean Aquaviva, pseudonimo diLorenzo Galbiati, un ottimo scrittore che ho apprezzato moltissimo.
Un viaggio appassionato nei meandri di un vissuto narrato con maestria.
Oltre che un racconto allettante, dettagliato e ricco di dialoghi intellettuali troviamo in queste affascinanti pagine riflessioni profonde sull’importanza delle relazioni umane, sull’amore e sui rapporti di amicizia, nei quali il protagonista Daniel si ritrova coinvolto tra momenti di amarezza e di delusione. Alcuni passaggi nel libro vogliono dare rilievo al conflitto con il padre pittore, che Daniel rivede nelle opere di Van Gogh.
“Daniel, sono mesi che stai viaggiando in modo frenetico, quasi compulsivo. E più passa il tempo, più t’immergi nell’arte di Van Gogh. Come se nei suoi quadri potessi trovare l’anima di…” (cit. A occhi aperti, Jean Aquaviva)
Il lettore instaura un rapporto di empatia con il protagonista, che si ritrova ingenuamente implicato a gestire situazioni imbarazzanti e dolorose che, in finale, rappresenteranno uno stimolo per una crescita interiore.
Daniel è un critico d’arte appassionato di pittura post-impressionista, che narra le vicende in prima persona. I suoi pensieri sono messi a nudo e analizzati in profondità. Un uomo tormentato assetato di amore, che attraverso il suo intuito e la sua perspicacia troverà la forza di affrontare la realtà. L’autore si distingue per il suo stile narrativo, estremamente fluido e sciolto, che stimola il lettore incuriosito dallo svolgersi dei fatti a proseguire velocemente nella lettura.
“A occhi aperti” è un libro molto originale poiché include una combinazione di vari generi.
Un romanzo che potrebbe appartenere alla categoria del noir psicologico, del romanzo sentimentale, erotico, oltre che artistico. Aggiungo, peraltro, che diversi frammenti del libro sono arricchiti da piccole lezioni di storia dell’arte che impreziosiscono la lettura, che a tratti si legge come un piacevole saggio.
Essendo il protagonista un critico d’arte, si ha la sensazione di passeggiare nei quadri percependone l’odore del grano, le splendide vedute paesaggistiche, il profumo dell’erba e dei fiori, il fruscio delle foglie mosse dal vento. Van Gogh e Lautrec dominano il racconto dove tra una descrizione e l’altra spiccano frasi idilliache che suscitano forti emozioni. Senza anticiparvi troppo la trama, vi dico soltanto che, in un capitolo si assiste anche a un incontro con il celebre scrittore Daniel Pennac (Casablanca, 1944) “Finalmente ho davanti a me lo scrittore europeo più osannato degli anni Novanta…”. (cit. A occhi aperti, Jean Aquaviva).
In finale vi esorto a leggere questo straordinario romanzo ricco di spunti e temi su cui riflettere, e dedicato a due grandissimi artisti come Van Gogh e Toulouse-Lautrec.
Era da tempo che desideravo dedicare un articolo a Vincent van Gogh e quale miglior occasione per parlarne? Ti ringrazio Lorenzo è stato veramente piacevole leggerti.
Approfondimento delle Opere d’Arte a cura di Manuela Moschin
Vincent Van Gogh “I girasoli” 1888 olio su tela cm.92,1×73 The National Gallery – Londra
Davanti ai girasoli di Van Gogh esposti nel museo The National Gallery di Londra, che ho avuto la fortuna di visitare personalmente, mi sono commossa… Il nome dell’artista è indissolubilmente legato ai girasoli.
Perché siamo tutti attratti da Vincent Van Gogh?
Da parte mia direi che il motivo essenziale del suo grande fascino sia dovuto alla capacità di dipingere l’anima. Un’anima inquieta, incompresa e assetata di amore, ma anche dolce e delicata come i petali di un fiore. E ora immergiamoci nella “notte stellata”:
Vincent Van Gogh “Notte stellata” 1889 olio su tela cm. 72×92 Museum of Modern Art, New York
Vincent Van Gogh “Notte stellata” 1889 olio su tela cm. 72×92 Museum of Modern Art, New York
Vincent van Gogh “Notte stellata”Saint-Rémy, giugno 1889 penna e inchiostro, 47×62.5 cm, museo Shchusev, Mosca
Racconta Jean Aquaviva nel romanzo:
“Osservare la volta celeste è la prima forma d’arte e di poesia, non credi? Pensa alla “Notte Stellata” dipinta da Van Gogh. Nell’astronomia la scienza si unisce all’arte, perché volgendo lo sguardo al cielo vediamo riflessa la nostra dimensione, esigua e caduca”. (cit. “A Occhi aperti”)
Un’anima raccontata in una favola: è la sensazione che mi suscita osservando la “Notte stellata”, una delle ultime opere di Vincent Van Gogh. E’ noto che l’artista visse una vita tormentata caratterizzata da crisi nervose talmente importanti da dover ricorrere alle cure di un ospedale psichiatrico a Saint Rémy, nel sud della Francia. L’isolamento e l’incomprensione ha accompagnato l’artista da sempre.
Siamo, dunque, abituati ad ammirare le sue opere cercando di interpretarne i suoi vissuti dai risvolti drammatici, secondo una visione stereotipata. E’ molto probabile che il dipinto rappresenti le sue nevrosi proiettate in pittura, dal momento che, in quei tempi si trovava internato al Saint-Paul- deMausole, ma non credo che nella mente di Van Gogh ci fosse solo dolore.
Questa volta vorrei fare un’eccezione immaginando l’artista avvolto da un’aura di beatitudine.
La “Notte stellata” ricorda un disegno infantile e per questo mi piace pensare che dietro ai significati oscuri Van Gogh abbia proiettato sulla tela il bambino custodito nella sua anima. Richiama in questo la poetica del fanciullino di Giovanni Pascoli (1855-1912): “Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa – effetto, ma intuisce”.
Van Gogh è un post impressionista che anticipa quel che sarà l’espressionismo poiché nei suoi dipinti proietta sé stesso riproducendo perciò il suo stato d’animo.
Il risultato che ne consegue è quello di un’opera che non riproduce un paesaggio realistico ma una trasfigurazione della realtà. In questi anni Vincent raggiunse uno stile personale, creando un’affinità tra il suo conflitto interiore e la natura.
Osservando questo bellissimo villaggio incantato dall’atmosfera di sogno si viaggia con la fantasia, immaginando di incontrare creature leggendarie tra fate e gnomi come in un racconto per i più piccoli. Ricordo che in passato proposi ai bambini di una scuola per l’infanzia di provare a interpretare la “Notte stellata” di Van Gogh. Ne risultò un successo la loro arte infantile si avvicinò molto al dipinto originale.
Si rimane catturati di fronte a questa visione perché l’opera possiede alcunché di magnetico, nella quale è difficile distogliere lo sguardo. Appare come una visione onirica poco prima del sorgere del sole:
“Attraverso le grate di ferro della finestra, riesco a vedere un campo di grano… sul quale, nel mattino, riesco a vedere il sole che sorge in tutto il suo splendore” (cit.Vincent van Gogh).
Non sono necessarie molte parole per raccontare quest’opera. E’ sufficiente soffermarsi solo un momento per riuscire a percepirne i profumi, la freschezza e la magia di una notte stellata…
Lui dipinge come un’onda che sembra travolgere la pace di questo paesaggio incantato.
Sulla tela il cielo occupa uno spazio predominante animato da vortici che si accavallano in un gioco di striature tra pennellate corpose e striate. Spiccano in primo piano i cipressi dalle strisce fiammeggianti dove filari di ulivi ne fanno da cornice.
“I cipressi hanno linee e proporzioni belle come quelle degli obelischi egizi” (cit.Vincent Van Gogh). Il campanile svetta superbo dominando la scena unitamente agli alberi dotati di rami sinuosi.
La luna, regina del cielo, emerge in un gioco di luci e colori. Le stelle mosse da linee vorticose si rincorrono e danzano al canto dei grilli. La stella più luminosa è stata identificata come il pianeta Venere che tra maggio e giugno del 1889 si è presentato in tutto il suo splendore. Case minute, appena abbozzate, emergono timidamente assieme alle finestre illuminate da un piccolo tocco di pennello. I monti fanno il suo ingresso in diagonale, morbidamente ondeggianti. Una dolce armonia fluttua nell’aria. I colori puri, le curve tormentate e la vibrante energia trasmettono un’arte dinamica e intensa. In una lettera a Theo, Vincent scrisse d’esser convinto che ci sia vita nel suo dipinto.
Van Gogh scrisse al fratello Theo:
“Ho un terribile bisogno della religione. Allora esco di notte per dipingere le stelle”. “I cipressi occupano sempre i miei pensieri. Dovrei fare qualcosa su di loro come le tele con i girasoli, perché mi stupisce che nessuno li abbia fatti come li vedo io”.
Vincent van Gogh “Mangiatori di patate” 1885 olio su tela cm. 82×114 Museo Van Gogh – Amsterdam
Vincent van Gogh “Mangiatori di patate” 1885 olio su tela cm. 82×114 Museo Van Gogh – Amsterdam
Scrive Jean Aquaviva:
Ma il daimon della pittura lo assale di nuovo: vuole rappresentare la vita della povera gente, che si guadagna il pane con il lavoro delle proprie mani. Ed ecco il primo capolavoro, “I mangiatori di patate”. Prendo fiato. Sonia mi guarda incantata con le mani in grembo. Mi dà una carezza:”Ho cambiato idea. Fai bene a scrivere un libro su Van Gogh”. (cit. “A Occhi aperti”)
“I mangiatori di patate” fu uno dei suoi primi dipinti. Preceduto da bozzetti preparatori, l’opera definitiva risale al mese di aprile del 1885, mentre si trovava a Nuenen dove il padre dell’artista si dedicava all’attività pastorale.
Fa parte di una serie di dipinti che ritraggono la classe lavoratrice, poiché Van Gogh dall’animo sensibile, si preoccupava della povera gente. Lo impressionava la vita dura dei contadini, dei tessitori, dei minatori per i quali provava una profonda compassione, ma non come denuncia sociale al pari di Courbet. Quello di Vincent rappresentava un messaggio di solidarietà nei confronti di chi, ogni giorno, si prodiga per la terra.
Scrisse al fratello Theo:
“Un contadino è più vero coi suoi abiti di fustagno tra i campi, che quando va a Messa la domenica con una sorta di abito da società. Analogamente ritengo sia errato dare a un quadro di contadini una sorta di superficie liscia e convenzionale. Se un quadro di contadini sa di lardo, fumo, vapori che si levano dalle patate bollenti – va bene, non è malsano…”
Attraverso toni cupi egli ritrasse una famiglia di contadini mentre sta consumando un pasto frugale a base di sole patate all’interno di un ambiente povero. I loro volti sono seri e tristi segnati dalla fatica e dalla miseria. Le mani sono deformate, i visi sono gonfi e grossolani nei quali l’artista sviluppò un proprio canone di bellezza, concentrandosi sulle fattezze degli uomini che non erano belli ma che impersonavano la realtà:
“…Può certo essere evidente che è proprio un quadro di contadini. Io so che di questo si tratta. Ma chi preferisce avere dei contadini una visione dolciastra, vada pure per la strada. Da parte mia sono convinto che alla lunga dà migliore risultato rappresentarli nella loro rudezza piuttosto che attribuir loro un’amabilità convenzionale.”
Il malessere è stato raffigurato attraverso una tavolozza scura dai colori terrosi e pastosi. “I mangiatori di patate” è un’opera sporca e buia per mezzo di cromie limitate, che vanno dall’ocra al verde e al marrone, ma il risultato ottenuto è quello di un dipinto monocromo.
Usava una tecnica innovativa, aveva un pennello doppio e lavorava con la pennellata doppia.
Van Gogh si espresse così in una lettera inviata al fratello in aprile 1885 riferendosi al dipinto dei “I mangiatori di patate”:
ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole.”
E ancora questa volta rivolgendosi alla madre in una lettera del 21 ottobre 1889:
“A mio modo di vedere mi considero di sicuro inferiore ai contadini. Beh, io aro le mie tele come essi i campi”.
Vincent Van Gogh “I mangiatori di patate” aprile 1885 litografia su carta velina mm. 284×341 Otterlo,
museo Kröller-Müller Paesi Bassi
Vincent Van Gogh “Vecchio che soffre” maggio 1890 olio su tela cm.81,8×65,5 Otterlo, museo Kröller-Müller Paesi Bassi
Vincent Van Gogh “Contadine che raccolgono patate” agosto 1885, olio su tela, cm 31,5×42,5
Vincent van Gogh – uno schizzo di “Mangiatori di patate” in una lettera inviata da Vincent il 9 aprile 1885 al fratello Théo
Vincent van Gogh disegno preparatorio per le mani delle figure del “Mangiatori di patate”
Citazioni tratte dal romanzo “A occhi aperti” di Jean Aquaviva
Con la speranza di rimanere affascinati, come lo sono stata io, desidero ora lasciare la parola a Jean Aquaviva e alla sua capacità espressiva, lasciandovi qualche citazione tratta dal suo libro, accostando i dipinti citati alle sue splendide descrizioni:
Vincent Van Gogh “Ritratto di Père Tanguy” 1887 olio su tela cm. 45,5×34 Ny Carlsberg Glyptotek Copenaghen
Vincent Van Gogh “Ritratto di Julien Tanguy” (Pére) 1887 cm.45,5×34 olio su tela Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen
Scrive Jean Aquaviva:
“Il pére Tanguy, con il suo grembiule da lavoro, in colori ocra, appare umile e dimesso. Questo ritratto mi sembra più sincero del celeberrimo dipinto con Tanguy in vestito bretone, in posa con giaccone e cappello, davanti a delle stampe giapponesi; lì fa da modello, qui è lui. Ecco il vero volto di papà Tanguy, preso al lavoro nel suo laboratorio. Dalla fronte stempiata, dagli occhi, dai lineamenti del viso, specie da quelli della bocca, emana il suo calore paterno, la sua instancabile disponibilità verso gli artisti.”
Vincent Van Gogh “Veduta del paesaggio da Saint-Rémy” 1889 Ny Carlsberg Glyptotek Copenaghen
Vincent van Gogh “Veduta del paesaggio da Saint-Rémy” 1889 Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen
“Sara:”E il secondo quadro importante?” “Il secondo è “Veduta del paesaggio da Saint-Rémy”, che mi affascina tantissimo per i movimenti sinuosi dell’erba e lo considero una delle massime espressioni del Van Gogh erbaceo e tortuoso: le rotazioni che dà alle sue pennellate sono fantastiche e, associate all’alternanza dei colori, assumono un’intensità paragonabile a quella del Van Gogh lunare di tanti cieli stellati.”
E ancora:
“Il paesaggio visto da Saint-Rémy, al contrario, è notevole per il movimento dell’erba del prato, che sembra raccolta in cespugli simili a covi di grano. I mulinelli dei ciuffi d’erba, uniti alle sfumature con cui il verde si alterna al giallo, rendono il paesaggio animato da una presenza arcana, che tutto scardina e divora, con impareggiabile potenza. E le nuvole, vive come in certi romanzi di Hermann Hesse… “
Henri de Tolouse – Lautrec “La Toilette” 1889 olio su cartone cm. 67×54 Musée d’Orsay Parigi
Henri de Tolouse – Lautrec “La Toilette” 1889 olio su cartone cm. 67×54 Musée d’Orsay Parigi
“Vedo seduta sul pavimento, nitida come fosse reale, la modella di Lautrec, Carmen Guadin, con le sembianze del dipinto La Toilette del 1889. Vedo la chioma rossa avvolta in uno chignon, la schiena nuda bianca e la gambe accovacciate sul pavimento in una postura difensiva. Carmen alza la testa si gira, mi mostra il suo viso, la sua mandibola sporgente, i suoi lunghi ciuffi rossi. Invoca: “Vieni,” e io mi sento trascinato verso di lei”.
Vincent Van Gogh “Campo di grano con volo di corvi” 8 luglio 1890 Olio su tela 50,3×100,5 Van Gogh Museum Amsterdam
“Il tocco della sua mano ha una sua intrinseca armonia e pacatezza nel delineare persone inermi. Più avanti, negli ultimi anni, quando la sua produzione diverrà frenetica, prenderà corpo la “violenza segnica della pennellata” – ricordo di aver letto da qualche parte questa espressione pregnante – , ben visibile nella “Notte stellata nel Campo di grano con volo di corvi.” Scrivo a caratteri cubitali: LA VIOLENZA DELLA NATURA COME CONCEZIONE DEL MONDO. Proseguo: “La tortuosità delle linee descrive il tormento della vita nuda e cruda, e questo tormento si vede nell’erba, nel cielo, nel grano, pervade ogni singolo elemento naturale… Anche le case, se organiche all’ambiente, sono oggetti della natura, non della civiltà, e pertanto riflettono lo stesso anelito mai placato.”
Grazie Lorenzo, le tue parole sono poesia pura…
E a proposito di poesia leggendo una poesia di Giovanni Pascoli mi sono immersa nella “Notte stellata” di Vincent Van Gogh:
La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera!Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto nell’umida sera.
È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Né io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don… Don… E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.
Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, 1903
Arrivederci in arte Manuela
A cura di
Manuela Moschin
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