Intervista a Michele Navarra




A tu per tu con l’autore


In questo legal thriller, la voce narrante appartiene all’avvocato difensore, il quale riannoda i fili di una vicenda processuale alquanto delicata, come può essere quella che accende i riflettori su una violenza sessuale ai danni di un minore.

Lei descrive il pensiero del pedofilo con estrema accuratezza nei particolari, sia fisici che emotivi. Quanto è stato difficile immaginare ciò?

Immaginare cosa passi nella testa di queste persone non è né facile né difficile, ma semplicemente impossibile, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto emotivo. Chi abusa di un bambino lo fa sulla base di motivazioni e impulsi del tutto insondabili per una persona normale. L’autore di un romanzo che si trovi costretto ad esplorare i meandri tortuosi del cervello di chi a tutti gli effetti può considerarsi un mostro, un alieno, può soltanto provare ad inventare, cercando di essere quanto più possibile logico e coerente, magari – come nel mio caso – aiutandosi con lo studio del contenuto di alcune perizie psichiatriche o criminologiche relative a processi affrontati nella propria vita professionale. Ad essere sincero, non ho mai creduto troppo nelle indagini criminologiche sulla personalità di un abusatore, perché ritengo che in realtà ci sia ben poco di oggettivo o di categorizzabile. Si tratta, in sostanza, soltanto di ipotesi, più o meno in linea col vissuto personale di una persona (che molto spesso nemmeno si conosce fino in fondo) e questo non soltanto nei casi di abusi contro i bambini. Tanto per fare un esempio, qualche volta purtroppo si legge di casi di omicidi con successivi atti di cannibalismo, in perfetto stile Hannibal Lecter. Casi di cronaca, realmente accaduti. Pretendere di immaginare cosa pensassero queste persone nel momento di uccidere, quali fossero gli impulsi alla base delle loro condotte, sarebbe del tutto irrealistico. Credo che anche Thomas Harris sia stato costretto ad inventare di sana pianta cosa pensasse Hannibal The Cannibal, più che a immaginarlo.

Le fasi relative al dibattimento in sede giudiziaria ricordano molto l’approccio investigativo di un antesignano dei legal drama, mi riferisco a Perry Mason. A chi somiglia davvero il suo protagonista?

Non certo a Perry Mason, che è un personaggio molto legato al classico stereotipo di avvocato di stampo anglosassone e che di conseguenza si muove in un contesto giudiziario molto diverso dal nostro. Alessandro Gordiani, l’avvocato protagonista dei miei romanzi, molto semplicemente somiglia a un professionista moderno, un uomo ancora legato all’etica e ai valori che l’hanno formato, combattuto – come lo sarebbe ciascuno di noi – tra il desiderio di raggiungere l’obiettivo (che, nella maggior parte dei casi, per lui coincide con l’assoluzione del proprio assistito) e la volontà di ottenere un risultato che sia il più possibile “giusto”, anche se sull’esatto significato di questo termine dovremmo affrontare un discorso molto più lungo e complesso di quello che ci è concesso in questa sede. 

L’inganno ruota intorno al racconto, esercita una forza centrifuga trainante, trascinando nel vortice ogni cosa. Il limite tra la verità narrata e quella reale risiede nel circuito malefico che sostiene il dubbio?

È una domanda davvero molto bella, cui è difficilissimo rispondere. Nessuno in realtà può conoscere in quale punto esatto si collochi questa linea di confine, questo “limite”, come l’hai definito tu, tra verità “narrata” e verità “reale”. Quasi tutti gli imputati mentono, spesso anche gli innocenti, per motivi più o meno comprensibili e più o meno condivisibili. Anche chi non mente, a volte, anzi sempre, tende a distorcere la realtà, magari in buona fede, ma non è questo il punto. Il testimone può sbagliare o non ricordare bene, oppure ricordare solo qualcosa di ciò che ha visto o sentito, ciò che più lo ha colpito, ma può tralasciare altri particolari, che potrebbero essere altrettanto importanti. Il poliziotto, il carabiniere, l’inquirente in generale, perseguono (a volte addirittura inseguono) la loro idea investigativa. Il giudice interpreta, sia i fatti che le norme. L’avvocato evidenzia gli elementi che sono più congeniali alla sua tesi difensiva, cercando di mettere in ombra il resto. Tutto questo finisce nel grande calderone di un processo penale e contribuisce ad alimentare quello che hai definito, con un’espressione assai evocativa, il “circuito malefico che sostiene il dubbio”. E in questa situazione cercare un confine, un limite, una linea di demarcazione – chiamala pure come vuoi – tra verità narrata e verità reale è francamente quasi impossibile, tanto che alla fine si corre sempre il rischio di rimanere con un po’ d’amaro in bocca. 

La vicenda tocca un tema molto delicato, e purtroppo reale, ma ciò che emerge è il senso della legittimità dell’atto difensivo. Si evince che non tutte le sentenze siano adeguate, voleva sollevare una riflessione?

Non saprei dirti se dalla storia che ho raccontato emerga il senso della legittimità, sempre e comunque, dell’atto difensivo. Quel che è certo è che volevo indurre il lettore a porsi qualche domanda, a stimolare la sua riflessione, a chiedersi fino a che punto sia lecito spingersi per raggiungere un risultato che si ritiene giusto. Che non tutte le sentenze siano adeguate purtroppo è un dato di fatto, l’esperienza e la cronaca giudiziaria ce ne danno quasi quotidianamente la conferma. È ormai da tantissimo tempo che vado ripetendo, fin quasi allo sfinimento, che applicare in modo corretto la legge non sempre significa necessariamente far “trionfare” la giustizia, perché i due concetti di “legge” e di “giustizia” non sono affatto sovrapponibili e, pur se non diametralmente opposti, in molti casi possono divergere, soprattutto a seconda della lente visiva del soggetto chiamato ad interpretarli. Insomma, sulla base del nostro punto di vista o del nostro grado di coinvolgimento emotivo, in relazione alla stessa identica vicenda, potremmo sentirci tutti iper-giustizialisti o, al contrario, iper-garantisti e giungere pertanto a soluzioni magari formalmente “corrette” ma forse eticamente “ingiuste”.

Ogni storia nasce da una scintilla, qual è stata la sua?

Leggendo fatti di cronaca, episodi terribili, tragedie a volte annunciate, a volte esplose all’improvviso, senza nulla che consentisse di poterle prevedere. Alcune di queste vicende, per lo più legate a fatti di sangue o di violenza, sono sconcertanti, lasciano letteralmente allibiti, disorientati, di fronte alla consapevolezza che a volte il male assoluto esiste ed è quasi impossibile bloccarlo. Mi sono chiesto come avrei reagito al posto di una delle tante persone colpite duramente negli affetti, alle quali è stato strappato un figlio per motivazioni assurde, insensate, e che non sono poi riuscite ad ottenere giustizia. Potrei citarti tantissimi esempi, troppi direi. Mi sono spesso interrogato sul tema della vendetta, un argomento trasversale su cui si sono cimentati tantissimi autori, sull’oscura tentazione di farsi giustizia da soli, soprattutto quando ci sembra che chi avrebbe dovuto o dovrebbe provvedere a tutelarci – in primo luogo lo Stato e le sue Istituzioni – invece non l’ha fatto o non lo fa, in molti casi non per ignavia o per mancanza di volontà, ma per l’oggettiva impossibilità di violare certe regole, giuste o sbagliate che siano. La vendetta di Stato non può essere consentita, ma quella privata? Probabilmente c’è una risposta giusta per questa domanda, ma io purtroppo non la conosco.

Michele Navarra

A cura di Paola Iannelli

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