I giudizi sospesi




Recensione di Laura Bambini


Autore: Silvia Dai Pra’

Editore: Mondadori

Genere: Narrativa

Pagine: 492

Anno di pubblicazione: 2022

Sinossi. Giovannetti sono una famiglia felice. O forse lo sembrano soltanto? Si sa, a volte l’apparente felicità è direttamente proporzionale alla quantità di polvere accumulata sotto il tappeto. Il padre Mauro insegna storia e filosofia: brillante e bello come un attore, è la leggenda del liceo locale. La madre Angela è professoressa di arte alle medie, ama il suo lavoro, ma ancora di più i figli e il marito. Perla è una fuoriclasse, bravissima a scuola, responsabile: matura, da sempre; Felix è il fratello minore, affettuoso e intelligente, un po’ imbranato, da sempre offuscato dalla luce accecante della sorella. Tutti si aspettano grandi cose da Perla. Ma da quando si è fidanzata con un certo James, un ragazzo più grande su cui circolano brutte voci – un violento, un bugiardo – è cambiata: insofferente, sarcastica, nulla le interessa più. Potrebbe essere una semplice crisi adolescenziale, la sana ribellione di una ragazza che non ha mai dato problemi, ma l’origine del suo malessere si rivelerà ben più radicale e implicata con il lato oscuro della famiglia in cui è cresciuta: i compromessi, le rinunce, le ipocrisie che fino a quel momento erano sembrate accettabili si riveleranno velenose, infestanti. Felix, “il figlio sbagliato”, ironico, intelligente e defilato, è l’osservatore ideale, ed è dalla sua voce apparentemente disillusa ma in realtà disarmata e struggente che ci viene raccontata tutta la storia.
I giudizi sospesi mette in scena con rara potenza venticinque anni della storia di una famiglia, indagata nelle sue dinamiche più autentiche e nascoste. Una narrazione robusta e strutturata, in fitto dialogo con la tradizione del grande romanzo americano; una scrittura splendida: luminosa, generosa, mossa, capace di accendere il coinvolgimento del lettore. Viene spontaneo chiamare per nome i personaggi di Dai Pra’, e una volta chiuso il libro ci mancano. Sono cambiati rispetto a come li avevamo incontrati all’inizio: sono cresciuti? Sono feriti? Entrambe le cose, come succede a tutti. E pensiamo a loro con la stessa dolce malinconia, con lo stesso senso di famigliarità e di scoperta nella distanza con cui rievocheremmo dei compagni di scuola.

Recensione

“Ma almeno, adesso, che lui ti schiaffeggia o ti sputa addosso, quando ti ricorda di essere quella nullità a cui ti ha ridotto, quando ti scopa come se ti facesse un favore, o non ti scopa perché ha appena finito di scoparsi un’altra, quando non ti parla, così, giusto per il gusto di torturarti, quando ride se tu scoppi a piangere, quando ti sfotte se tu singhiozzi, allora, Perla, tu senti qualcosa? Sorella mia, senti?”

Il Mostro, quando non scade nella retorica a cui ci ha abituati la narrativa mediocre, ci porta (a noi non vittime – a me che finalmente ho smesso di esserlo – a noi che lo guardiamo con occhi esterni) a una serie di sentimenti definiti che culminano nel distacco: il primo pensiero è “menomale che non è successo a me”, e poi il me diventa “noi”, e poi ci allontaniamo proprio, che iniziamo a chiederci se le persone che ci circondano possano incontrare uno James Tocci e rovinarsi l’esistenza, e di riflesso gustare a vita la nostra.

È il lato che ho apprezzato di più de “I giudizi sospesi”. L’autrice stacca la cinepresa dalla vittima, la porta all’esterno, dà uno sguardo ampio e mostra ciò che nessuno dice, ma quello che tutti ci chiediamo quando sentiamo le notizie: “la famiglia dov’era?”

L’autrice si spinge oltre e cala il narratore nelle pieghe dell’ultima persona a cui si pensa: il fratello, che narra di tutta la famiglia in quello che sembra (ed è, seppur in maniera inedita) un romanzo familiare.

Felix racconta venticinque anni di una comune famiglia della piccola borghesia di provincia, quelle famiglie copia e incolla dove i coniugi fanno lo stesso mestiere, hanno la villetta e due figli: uno mediocre e l’altra genia. Il padre è innamorato più della figlia che della moglie, la carica di tutte le aspettative che, a sua volte, il genitore gli ha tolto a suon di cinghia, lei lo ricambia eccellendo e finendo su tutte le cronache locali e a volte nazionali.

La moglie chiude gli occhi alle scappatelle del marito pur di mantenere la facciata e il figlio minore… be’, chissenefrega, non è che abbia mai dato buoni risultati, o, che so, abbia quel quid per cui lucidi il buon nome della famiglia.

Come da copione, la bolla scoppia, ma la novità è che non lo fa con la figlia che sclera e li manda a tutti quel paese, per fare finalmente ciò che vuole, o con il figlio che all’improvviso si dimostra un genio o un temibile delinquente, o con la moglie che viene trovata a letto con un paio di amanti o con il padre che si scopre frequentare altri uomini in barba al maschio etero capo di famiglia supertop.

La bolla scoppia con l’arrivo del mostro, che all’inizio sembra una persona perbene con i suoi pregi e difetti – l’identikit classico che chi ci è passato, purtroppo, riconosce a chilometri, ma chi non conosce quella parte recitata così bene è portato a ignorarlo e bollarlo come un “fesso” o al massimo un po’ eccentrico.
È ciò che fa la famiglia Giovannetti, che tenta di convincere Perla a mollarlo, ma lei incolpa loro, vede tradimenti ovunque, lo idolatra.

La spirale che si innesca è inarrestabile, ma quello che mi ha colpito di più è il modo in cui il narratore, il fratello adolescente, la racconta per ciò che è nella realtà: un vortice di ipocrisia, di indifferenza e di non voler prendere una posizione, da parte di tutti, tanto sta a Perla chiudere, tanto è adulta, tanto ci ha mentito, tanto lei lo giustifica, tanto…

E potrei continuare con la sviolinata del “lui ok, ma pure lei” all’infinito.
Ognuno di questi argomenti potrebbe essere smontato con la stessa velocità con cui si preme un interruttore della luce.
L’autrice va ancora oltre e dagli occhi di Felix ci mostra come quel singolo uomo finisca per rovinare la vita di chiunque incontri uscendone sempre indenne, grazie ad agganci giusti e alla finta giustizia italiana, portando la storia sul livello più alto: il “prenderlo a mazzate, dargliene tante, ma tante” è il ritornello del romanzo, la quinta essenza delle soluzioni spicce della nostra cultura: l’uomo di casa difende la donna picchiando l’intruso.
È un concetto talmente radicato che manco abbiamo bisogno di dirci che secoli fa succedeva uguale, con spade o pistole ma la ciccia era quella: lo prendi, lo fracassi, problema risolto.

Il dramma è che, non facendolo, come non fa questa famiglia, come non fa la nostra giustizia, che fallisce miseramente nella “rieducazione”, il mostro continua ad operare e ad alzare la posta.
Ciò non significa che sia giusta la violenza, ma se le donne si difendono da sole, qui dovremmo un attimo renderci conto che stiamo parlando di persone che hanno subito un logorio psicologico per anni, e che una mazzata al mostro non risolve le cose, ci vuole una prigione, e ci vuole adesso, non chissà quando.

Un’altra componente che ho apprezzato è la cittadina della costa laziale in cui è ambientata la storia, che non viene nominata mai ma che potrebbe essere una qualsiasi di quelle in cui abito, con il provincialismo, con tutti che conoscono  tutti.

A cura di Laura Bambini

Libri di mare

 

Silvia Dai Pra’


Silvia Dai Pra’ è nata a Pontremoli, cresciuta a Massa, e ora vive a Roma, dove insegna in una scuola superiore.
Laureata in Lettere, ha conseguito un dottorato di ricerca dedicato all’opera di Elsa Morante. Tra i suoi libri: La bambina felice (Gremese, 2007), Quelli che però è lo stesso (Laterza, 2011), Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria (Laterza, 2019).

 

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