Il pane perduto




Recensione di Laura Salvadori


Autore: Edith Bruck

Editore: La Nave di Teseo

Genere: narrativa

Pagine: 128

Anno di pubblicazione: 2021

Sinossi. Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dal suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza? Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta, infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni. Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del Novecento da raccontare ancora e ancora.

Recensione

Non si è mai preparati a leggere le testimonianze di vite rubate, minate alla radice dalla brutalità e dall’insofferenza. Tutto sembra così assurdo, intinto nell’orrore più ottuso e incomprensibile.

Il ritratto dell’uomo che ne esce è sempre una fotografia che vorremo distruggere, cancellare dalle cronache della storia. Eppure, nonostante il rifiuto, l’abiezione, la disapprovazione più assoluta, dobbiamo ogni volta risolversi ad accettare che la barbarie di cui abbiamo letto sia vera, sia avvenuta e non sia affatto dimenticata.

Edith Bruck di barbarie ne ha conosciute molte. La sua vita coglie in modo esatto le vicissitudini del popolo ebraico, ne ricalca gli orrori. Da bambina ha visto l’accendersi della questione razziale. L’aria che respirava pian piano si è fatta maleodorante, priva di ossigeno. I vicini di casa, i conoscenti hanno cambiato atteggiamento nei suoi confronti costringendo la sua mente di bambina a cercare di comprendere l’incomprensibile.

Poi l’esperienza del ghetto, la deportazione. Le privazioni che diventano parte della vita stessa. La perdita della dignità, il lutto per chi è scomparso dalla faccia della terra, la fame, l’abominio più totale. E quell’istinto che non l’abbandona mai: la sopravvivenza, il desiderio di resistere per riappropriarsi della vita, seppure cattiva e colma di dolore.

“Il pane perduto” invoca una immagine che spezza il cuore. Quella di una madre disperata che abbandona le pagnotte ottenute per una sorta di miracolo. Pagnotte ormai lievitate, che aspettano solo di essere cotte. Pagnotte che spanderanno l’odore più bello del mondo nella misera cucina e che sfameranno i suoi bambini macilenti e grigi. E quando il sogno sta per diventare vero, ecco che si infrange. Qualcuno bussa con violenza alla porta. Qualcuno porta via tutta la famiglia. Sottrae loro il sogno più bello, il pane dai denti e la vita dai corpi.

La piccola Ditke racconta la sua vita con grande onestà, rifuggendo la pietà del lettore e inseguendo, invece, l’idea della forza che ti rende incrollabile. Ditke è volitiva e ribelle e dopo la fine della prigionia e della guerra condurrà una vita anticonformista e libera, sopportando anche il logorio dei rapporti familiari che gli stenti e la paura hanno irrimediabilmente sfilacciato. Il destino la porterà in Palestina e da lì girovagherà per l’Europa fino ad approdare nel nostro Paese che per un curioso miracolo le apparirà accogliente. La piccola Ditke si fermerà proprio da noi e non si staccherà più dall’Italia.

Forte, stoica, fermamente legata all’idea di libertà, l’autrice ci regala uno spaccato di vita che dagli anni trenta del novecento la porta fino ai giorni nostri. Edith, o forse dovrei dire Ditke, attraversa indenne i decenni topici della nostra storia recente, affrancandosi sempre di più da un’idea di Dio onnisciente e misericordioso, mettendo in discussione la sua natura divina alla luce degli scempi e dell’orrore che ha in qualche modo permesso.

Una lettura non facile, condotta con una prosa efficace, tagliente e senza filtri, che ci restituisce l’immagine di una donna indomita, che ha attraversato le più buie tragedie dei nostri tempi e che ci parla con voce autorevole e mai rotta dall’emozione, esortandoci a prendere in mano la nostra vita e a non arrenderci mai.

 

 

Edith Bruck


Edith Bruck, di origine ungherese, è nata in una povera, numerosa famiglia ebrea. Nel 1944 il suo primo viaggio la porta, poco più che bambina, nel ghetto del capoluogo, e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. Sopravvissuta alla deportazione, di cui ha reso testimonianza nelle sue opere, dopo anni di pellegrinaggio approda definitivamente in Italia, adottandone la lingua. Nel 1959 esce il suo primo libro Chi ti ama così, un’autobiografia che ha per tappe l’infanzia in riva al Tibisco e la Germania dei lager. Nel 1962 pubblica il volume di racconti Andremo in città, da cui il marito Nelo Risi trae l’omonimo film. È autrice di poesia e di romanzi come Le sacre nozze (1969), Lettera alla madre (1988), Nuda proprietà (1993), Quanta stella c’è nel cielo (2009), trasposto nel film di Roberto Faenza Anita B., e ancora Privato (2010), La donna dal cappotto verde (2012) e La rondine sul termosifone, pubblicato nel 2017 da La nave di Teseo. Nella lunga carriera ha ricevuto diversi premi letterari ed è stata tradotta in più lingue. Tra gli altri, è traduttrice di Attila József e Miklós Radnóti. Ha sceneggiato e diretto tre film e svolto attività teatrale, televisiva e giornalistica.

 

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