Il silenzio delle pietre




Recensione di Mirella Facchetti


Autore: Vittorino Andreoli

Editore: Rizzoli

Pagine: 328 nella versione a stampa

Genere: Narrativa

Anno di pubblicazione: 2018

SINOSSI. Siamo nel 2028 e l’unica libertà che sembra essere rimasta all’uomo è la fuga dalla città. Così il protagonista di questo romanzo, ormai segregato tra le quattro mura della sua abitazione, terrorizzato anche solo dall’idea di aprire la porta, decide di andarsene. Lontano da tutti, dai rumori, dal caos, da un mondo dove è diventato impossibile vivere. Lontano da chi occupa abusivamente ogni spazio intorno a lui. Una casa isolata, affacciata sull’oceano nel Nordovest della Scozia, sembra il luogo ideale per ritrovare un po’ di pace: una baia abitata soltanto da uccelli marini e, a ridosso, montagne che nel tempo si sono trasformate per l’azione del vento. È qui, osservando la perfezione di un ambiente rimasto invariato dal giorno della creazione, nel silenzio delle pietre, che riesce finalmente ad analizzare con maggiore distacco le contraddizioni che lo hanno spinto a cercare la solitudine estrema. Inebriato da tanta bellezza, si lascia tentare dall’idea di non tornare mai più, trasformando quella che doveva essere una parentesi temporanea in una scelta definitiva. Eppure, anche l’idillio, visto più da vicino, rivela lati meno luminosi. Ma soprattutto, nella più completa solitudine, si cancella ogni possibile relazione umana, ogni sentimento si spegne. Quest’uomo può forse tornare a indossare gli eleganti abiti di città che aveva chiuso in un armadio al suo arrivo in Scozia? O invece, chissà, un’altra libertà è possibile?

RECENSIONE. Mi affascinano da sempre i libri che parlano di “uomini in fuga”, di “un ritorno alla natura”, in cui i protagonisti decidono di allontanarsi dalle città, dalle metropoli, dal caos, per ritrovare se stessi in luoghi isolati, a contatto con la natura selvaggia, alla ricerca della propria essenza.

In questo caso, la scelta di allontanarsi dalla civiltà (se si può ancora chiamare così…) da parte del protagonista, è dettata da condizioni estreme: una società, quella del 2028, al limite dello sfascio, senza regole, o meglio con regole che non vengono assolutamente rispettate, perché non vi è più il concetto di autorità, il riconoscimento di chi, queste regole, dovrebbe farle rispettare. Una società dove la vita non è poi così importante e basta un frase stonata perché qualcuno vi ponga fine. Una società in cui il grande male è la mancanza di speranza.

Accompagnando il protagonista in una baia isolata della Scozia, Andreoli compie una disamina dei mali del nostro tempo. È una realtà estrema quella del 2028 da lui descritta, ma è impossibile non ritrovare agganci ai mali della società attuale. Tramite i pensieri e i ragionamenti del protagonista veniamo calati in un’analisi del dolore, della solitudine e della contrapposizione tra natura e civiltà, tra l’arte che troviamo in natura e quella creata dall’uomo, un uomo cattivo, ma che sa ancora creare bellezza.

Nella prima parte, mi ha colpito lo stile documentaristico delle descrizioni: il protagonista ( e noi insieme a lui) osserva e riporta le caratteristiche e lo stile di vita degli uccelli della baia, soffermandosi sulle loro abitudini (nota personale, mi sono innamorata del puffin… impossibile non innamorarsene). Nel prosieguo, il racconto assume le caratteristiche dell’analisi psicologica che sfocia nell’onirico e nell’analisi dei sogni e dei bisogni dell’uomo. È vero, il protagonista è fuggito da una realtà invivibile, ha cercato la natura, la solitudine, la bellezza che scaturisce dal poter sentire sussurrare il vento o lo sciabordio delle onde, ma può l’uomo vivere costantemente in questa solitudine “perfetta”?

Perché “come il dolore anche la gioia acquista dignità soltanto dentro una relazione umana: non ha senso se si è soli, deve essere condivisa. Siamo fragili anche nella grandezza e deboli nel successo meritato. […] ora stava affiorando quell’esigenza strana che non derivava dai pensieri, ma da una fonte quasi misteriosa, quella dei bisogni per cui anche l’imperfetto ha un valore, anzi forse è il solo ad averne”.

È un’analisi sui limiti della nostra epoca, ma anche e, prima di tutto, sui nostri limiti e le nostre paure più profonde, ma, in mezzo ad essa, vi è anche il racconto della speranza, vi è uno squarcio di luce e, come sempre, a portarla sono i bambini, che riescono a vivere il presente, il qui ed ora e a raggiungere così la felicità (bellissima la figura del piccolo lavavetri Fernando).

 

Vittorino Andreoli


Psichiatra di fama mondiale, è stato direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona – Soave ed è membro della New York Academy of Sciences.