L’ANGOLO DEL TRADUTTORE. INTERVISTA A ANTONIETTA PASTORE




A tu per tu con il traduttore

A cura di Marina Morassut

 

Gentile Signora Pastore,

la ringraziamo molto per aver accettato di rispondere alle nostre domande per la rubrica a cura dell’Associazione Culturale Thrillernord dedicata ai traduttori.

 

Innanzitutto una premessa, e ci corregga se ravvisa inesattezze. Ci pare che il Giappone nell’ultima decina di anni, o forse qualcosa di più, sia diventato una Paese di moda e, anche grazie ai moderni dispositivi, più raggiungibile ed in un certo senso più comprensibile in molte delle sue sfaccettature, forse anche perché ci stiamo un po’ tutti uniformando. Ci sono poi anche alcuni autori italiani, un esempio lampante e di recente “esplosione” è l’autrice italiana Laura Imai Messina, che come Lei sembrano intendere la propria letteratura non solo come un modo per far conoscere il paese Giappone, ma anche per spiegarne le più antiche tradizioni, credenze e costumi e da qui partire per un discorso che aiuti ad entrare in sintonia con le peculiarità più positive di questo popolo. Quasi in contraddizione con quanto sta avvenendo nei paesi occidentali, dove l’antica sapienza contadina e conoscenza della natura e degli spiriti ad essa collegati, intesi come tradizione tramandata, si stanno perdendo, in una memoria collettiva che preferisce o forse meglio, è distratta, dal mondo moderno e sembra non aver più la capacità, o la volontà, o la caparbietà, di tramandare le così dette conoscenze dei nonni. Partendo quindi da questo ragionamento, ed avendo anche letto i suoi romanzi di cui accenneremo più oltre, volevamo chiederLe subito: Lei ha vissuto per 16 anni in Giappone, dalla fine degli anni ’70 agli inizi degli anno ’90 del secolo scorso, in una situazione privilegiata, cioè come straniera facente parte di una famiglia giapponese. Può raccontarci un po’ del Giappone di quel periodo?
Poi Lei è ritornata ancora in Giappone, anche se per periodi più brevi. E’ riuscita a cogliere delle differenze tra questi due periodi? Sia di vita e tradizioni, che di rapporti nei confronti dei pochi stranieri che arrivavano e che invece arrivano molto più numerosi ora in Giappone?

Sono andata per la prima volta in Giappone nel 1974, in viaggio di nozze, e ci sono tornata, per viverci, nel 1977. Il mio ex marito era giapponese e di conseguenza è vero che ho potuto osservare il Giappone dall’interno, per così dire, grazie all’accoglienza affettuosa dei miei suoceri. In quegli anni il Giappone era in pieno sviluppo economico e tecnologico, ma ancora ben lontano dal diventare quel paese leader in vari settori culturali e industriali che è attualmente. Le municipalità dei grandi centri urbani costruivano senza piani regolatori, le case venivano arredate con oggetti di produzione nazionale ispirati al kitch americano e la popolazione restava poco interessata alle nuove mode, solo in certi quartieri di Tokyo si poteva osservare una certa ricercatezza nel vestire. Poco per volta ho visto cambiare queste tendenze, il gusto della gente è andato raffinandosi, anche perché l’interesse si è spostato dall’America all’Europa, prima alla Francia e poi all‘Italia. Questo sia in fatto di moda, che di arredamento, che di cucina… Quando ho lasciato il Giappone, nel 1993, nelle città i ristoranti italiani spuntavano come funghi, e le donne, soprattutto le giovani, erano diventate più attente al loro abbigliamento. Insomma, il paese si stava liberando di quel gusto provinciale un po‘ goffo che aveva sostituito, a partire dal dopoguerra, l’eleganza tradizionale. Eleganza che si conservava solo nelle classi sociali più elevate. Negli ultimi decenni il Giappone è riuscito a combinare in modo felicissimo nuove tendenze e tradizione.

 

Siamo abituati a considerare i giapponesi come un popolo pacifico e non belligerante, scordandoci che in realtà questa è stata una condizione imposta alla fine della Seconda Guerra mondiale. Che atmosfera si respirava in Giappone nei confronti dei pochi stranieri occidentali e soprattutto nei confronti di sud coreani e Paesi limitrofi, che avevano subito le mire espansionistiche di un Giappone imperiale?

L’atteggiamento nei miei confronti era sempre accogliente, non ho mai avuto sgradevoli esperienze, se non la volta in cui – come racconto nel mio romanzo Mia amata Yuriko – ho dovuto confrontarmi con un parente d‘acquisto molto nazionalista. In genere, la gente che non mi conosceva, vedendomi, dava per scontato che fossi americana, ma questo non costituiva un problema perché i giapponesi non hanno serbato rancore nei confronti degli Stati Uniti che li hanno sconfitti, e per due ragioni. Essendo molto pragmatici, accettano l’idea che in guerra vinca il più forte; inoltre, dopo la resa, si attendavano rappresaglie dall’esercito invasore, ma grazie alla lungimiranza di Mac Arthur, che vedeva nel Giappone un futuro alleato, queste rappresaglie non ci sono state. Al contrario, gli Usa hanno favorito lo sviluppo del paese. Solo in persone molto anziane, che hanno partecipato personalmente alle battaglie, ho a volte riscontrato una certa freddezza nei confronti degli stranieri occidentali. 

Il discorso cambia se parliamo di coreani e asiatici del sud-est, i primi sono i figli e nipoti di persone deportate in Giappone prima della guerra, i secondi provengono comunque da ex colonie. I giapponesi continuano a considerare sia gli uni che gli altri culturalmente inferiori e a sfruttarli in ogni maniera, soprattutto le donne, vittime dell’industria del sesso. Ancora oggi i giapponesi fanno fatica a riconoscere il recente fiorire della cultura sud-coreana – letteratura, cinema, arte, musica – e tendono a pensare che la Corea si limiti a imitare il Giappone in tutti i campi. Questo è dovuto soprattutto al fatto che i testi scolastici di ogni grado non danno la giusta importanza ai paesi asiatici – a eccezione della Cina – e non raccontano la colonizzazione di una parte dell’Asia per opera dei giapponesi in modo obiettivo. Inoltre il governo non ha mai presentato scuse chiare e ufficiali ai governi della Corea e di tutte le ex colonie per i misfatti compiuti nei confronti della popolazione civile, né per il massacro perpetrato dall’esercito nella città di Nanchino nel 1937. A tutt’oggi, di questi argomenti non si parla quasi.

 

Proprio perché il Giappone negli ultimi anni si è fatto più vicino al nostro mondo, ci interessava avere un suo parere, prima di entrare nel vivo dell’argomento. In generale abbiamo l’impressione che questa scoperta oramai sistematica del Paese del Sol Levante, attraverso tutta la serie di arti che la possano raccontare, sia d’aiuto a mantenere i tratti che a noi occidentali piacciono evidentemente così tanto: la grazia, il mistero, la disciplina e le regole ferree legate alla costante gentilezza, l’insegnamento delle antiche tradizioni alle nuove generazioni, la connessione con la natura, etc… Tutto ciò è connaturato ed era presente anche negli anni in cui lei viveva in Giappone, oppure è un insieme di peculiarità che identificano oramai il popolo giapponese e che si è sviluppato pian piano nel corso dei decenni?

Sì, queste caratterisctiche provengono dalla tradizione, e sono profondamente radicate nell’inconscio collettivo. Questo non è sempre un bene, perché se la grazia e il mistero hanno molto fascino, se la disciplina – e direi soprattutto l’autodisciplina – è una qualità che garantisce il buon funzionamento della società, la rigidità è invece un forte ostacolo al cambiamento e al progresso, soprattutto per quel che riguarda la condizione delle donne. La tradizione, che a volte apporta un contributo positivo anche ai fenomeni più innovativi – proprio per quel tocco di delicatezza e sobria eleganza che le è propria –, spesso è invocata e presa a pretesto per mantenere uno statu quo che penalizza le fasce più deboli della popolazione: donne e minoranze, quali i discendenti dei coreani deportati in Giappone e gli asiatici del sud-est. 

La rigidità è particolarmente penalizzante per le persone LGBT, che vengono ancora discriminate al punto da dover tenere nascoste le loro inclinazioni sessuali. Per un uomo che voglia fare carriera, sposarsi è obbligatorio.

 

Entrando nel vivo dell’argomento: la Sua attività di traduttrice sembra essere iniziata un po’ per caso, grazie al suo soggiorno prolungato in Giappone, considerato che Lei aveva studiato Pedagogia in Francia… E’ stato un passo naturale del Suo vivere in Giappone e dopo gli anni di insegnamento all’Università di Lingue straniere di Osaka? E ci può spiegare brevemente come si può entrare nel mondo della traduzione di libri? almeno nella Sua esperienza. E a seguire: come si mantiene aggiornata la conoscenza di una lingua straniera così diversa dalla nostra, se non si vive costantemente nel Paese stesso?  

Alla domanda se la mia attività di traduttrice sia nata per caso, rispondo sì e no, perché nasce comunque dal mio grande amore per la letteratura. Quando sono andata a vivere in Giappone ho iniziato a leggere i grandi autori della narrativa giapponese e via via molti autori contemporanei, ma li leggevo in traduzione inglese perché a quell’epoca – anni Settanta, Ottanta e primi anni Novanta – non esistevano quasi traduzioni in italiano. Così mi è venuta voglia di far conoscere quella meravigliosa letteratura ai lettori del mio paese, e quando ho imparato a leggere sufficientemente il giapponese, su consiglio di un’amica mi sono avventurata nella traduzione di L’uomo-scatola di Abe Kobo, un romanzo che mi ha affascinato fin dalle prima pagine. Devo dire che sono stata fortunata perché i diritti del libro erano già stati acquistati alcuni anni prima da Einaudi Editore. La mia traduzione è piaciuta, e così è iniziata la mia attività di traduttrice. Come in ogni carriera, oltre allo studio, alla determinazione e alla passione, ci vuole anche un poco di fortuna. 

Quanto all’aggiornamento della lingua, leggere e tradurre naturalmente è un buon sistema, ma occorre anche parlare. Nel mio caso, ho alcuni amici giapponesi che vivono in Italia, con i quali parlo nella loro lingua, e ogni tanto vado a passare un periodo di un paio di settimane in Giappone – fatta eccezione per questi ultimi due anni, a causa della pandemia.

 

Lei in Italia è la traduttrice, tra gli altri, di Murakami Haruki, scrittore celebre in tutto il mondo. Lo traduce nella nostra lingua da una ventina d’anni, rendendo quindi fruibile per gli italiani una serie di vite che si rinnova ad ogni nuova uscita editoriale. Dietro i temi universali che Murakami dipinge nei suoi romanzi, l’adolescenza, la solitudine, la singolarità di ogni essere vivente pur nella sua prosaicità, il suo universo di personaggi femminili e la costante presenta dei gatti, ma allo stesso tempo la fantasia più sfrenata (piogge di pesci, fantasmi, uomini pecora nelle stanze d’hotel, unicorni…) per chi non legge in lingua originale, si cela la sensibilità, la visione della vita e la scrittura stessa di un traduttore che deve cercare di rendere al meglio quanto l’autore sta raccontando, senza incidere con la propria interpretazione la traduzione che di quel racconto, di quella storia, sta scrivendo? Oppure del traduttore non traspare nulla?

Certo, chi traduce deve far comprendere ai lettori non solo il senso del testo, ma anche il sentimento e la mentalità dell’autore o l’autrice del libro. Per riuscire in quest’impresa, è necessario che conosca bene la cultura cui appartiene la persona che ha scritto l‘opera, a maggior ragione se è una cultura molto lontana da quella della lingua d’arrivo. I giapponesi hanno un modo di esprimere i sentimenti molto diverso da quello degli italiani, e se non si ha una certa familiarità con loro, non si riesce neanche a coglierli, questi sentimenti, figuriamoci a trasmetterli in un’opera letteraria! Interpretare parole e gesti è uno dei compiti di chi traduce. È ovvio tuttavia che anche i traduttori hanno una personalità, che non sarà facile nascondere dietro la scrittura. Il problema si riduce scegliendo di tradurre libri consoni alla propria sensibilità, autori che piacciono, storie che parlano di argomenti che interessano e ancora meglio appassionano, in modo da potersi immedesimare con l‘autore. Riguardo a Murakami, sento con lui una particolare sintonia e ogni volta che traduco un suo libro sono felice di poter diventare la sua voce italiana. Non tradurrei volentieri un autore come Furukawa Hideo – tanto per citarne uno, ma ce ne sono molti altri –, anche se lo trovo un ottimo scrittore, perché i suoi temi non mi coinvolgono molto.

 

Soprattutto in questi ultimissimi anni in cui il traduttore da presenza fantasma si è trasformato in una presenza quantomeno notata ed apprezzata, ci si chiede spesso quanto sia difficile tradurre, soprattutto da un mondo così diverso dal proprio, cercando di rendere in italiano, nel nostro caso, anche quei modi di dire che non esistono nella lingua in cui si sta traducendo, e comunque cercando di restare fedeli allo scritto in lingua originale, e cercando al contempo di restare imparziali di quanto si sta traducendo. E’ anche questo uno dei problemi del tradurre, oppure il compito del traduttore è solo quello del cercare di tradurre al meglio? E’ possibile che quanto scritto dall’autore giapponese resti comunque speculare nella traduzione, senza perdere quelle caratteristiche tipiche della scrittura orientale che il lettore straniero ricerca, oltre al marchio di fabbrica dell’autore stesso? Può questo essere un problema del traduttore, oppure il tradurre le parole da una lingua all’altra non inficia poi la linearità e la caratteristica intrinseca della scrittura di quel determinato scrittore? E da qui una domanda che si sentirà rivolgere spesso: in base alla sua esperienza, è meglio che il traduttore sia anche uno scrittore, oppure questo risulta essere una difficoltà in più per il traduttore?

Come ho detto nella risposta precedente, è necessario conoscere la cultura, la mentalità di un popolo, per poterne tradurre un‘opera letteraria. Non è necessario essere scrittori, ma bisogna avere una buona padronanza della lingua d’arrivo, conoscere il linguaggio letterario nelle sue diverse espressioni – perché gli autori giapponesi, come quelli di ogni paese, possono usare stili molto diversi – e per acquisire questa padronanza si deve leggere molto. La conoscenza, anche eccellente, della lingua di partenza non è sufficiente. Spesso consiglio ai giovani traduttori di leggere molta letteratura, sia italiana che straniera, per fare l’orecchio al linguaggio letterario. Parrà forse strano, ma leggere i grandi scrittori della letteratura francese, tedesca, inglese e così via aiuterà a tradurre dal giapponese. A dire la verità, anche aver studiato il latino mi è stato utile, perché mi ha allenato a scomporre il periodo giapponese – che al pari di quello latino è composto da una frase principale e diverse dipendenti – nelle sue diverse parti e comprendere il nesso che le lega. 

Questo per quanto riguardo il linguaggio. Riguardo alla fedeltà della traduzione, a volte è necessario che io mi allontani molto dal testo originale per rendere la stessa idea, lo stesso sentimento, perché, come ho detto, i giapponesi esprimono le emozioni in modo diverso dagli italiani, e una traduzione letterale non avrebbe lo stesso significato, o la stessa valenza.

 

Le rivolgiamo questa domanda perché è difficile farLe un’intervista come traduttrice, senza parlare anche in parte di Antonietta Pastore come scrittrice. Giocoforza accennare quindi anche alla situazione internazionale attuale, con una guerra in Europa cui non avremmo mai pensato di dover assistere… A tal proposito vorremmo restare fuori da discussioni politiche, ma riallacciarci alla guerra, la Seconda Guerra Mondiale, di cui parla nel suo romanzo “Mia amata Yuriko”, edito da Einaudi nel 2016. Nel romanzo autobiografico del periodo in cui viveva in Giappone, nell’andare a trovare insieme alla suocera la sua famiglia, si ferma ad Hiroshima, approfittando per visitare la città e, per quanto esperienza forte e provante, anche il Museo della Pace. A tal proposito, Lei accenna all’inutilità di aver sganciato le bombe atomiche, in quanto il Giappone aveva già fatto una proposta di resa nei mesi precedenti l’agosto del ’45, (documenti conservati negli archivi del Dipartimento di Stato Usa, desecretati poi negli anni Settanta  – e consultabili in Internet). Sia nell’atto della scrittura originale, sia nello svolgimento della traduzione di un testo altrui, quanto è difficile scrivere di argomenti così forti e tragici? Qui ad esempio i morti a seguito della bomba atomica, ma anche in traduzione con “Underground”, relativamente all’attentato nella metro di Tokyo nel 1995. Lei stessa ha detto in un’intervista: “La traduzione letteraria non è un lavoro da cui ci si possa staccare chiudendo il computer; continua ad occupare in modo più o meno conscio la mente anche quando si sta pensando ad altre cose”. Vuole gentilmente ampliare questo concetto, per capire se si sta riferendo strettamente ai tecnicismi della traduzione, oppure all’impatto che certi narrati producono in primis sul traduttore, che poi li deve rendere con lo stesso pathos per il lettore straniero?

Nel romanzo Mia amata Yuriko ho raccontato una storia che conoscevo da molto tempo, ma avevo sempre esitato a far conoscere, proprio perché toccava un argomento – Hiroshima – che consideravo tabù per una straniera come me, e pensavo di non avere il diritto di parlarne. Poi, quando è successa la tragedia di Fukushima e ho visto che nei mesi successivi succedevano in Giappone le stesse cose già avvenute dopo lo scoppio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki – diffidenza e discriminazione nei confronti delle vittime – ho provato una forte urgenza a scrivere la storia di Yuriko, per rendere un po‘ di giustizia, per quanto era in mio potere, a lei e a tante donne come lei. 

Quanto alla traduzione di Underground, non ho dovuto chiedermi se avessi o no il diritto di parlare dell’attentato al gas sarin nella metropolitana di Tokyo, perché mi sono limitata a trasmettere il pensiero di Murakami, e la voce delle vittime già filtrata dalla sensibilità di Murakami stesso. Però devo dire che ho trovato il lavoro molto provante nel senso che trattandosi di storie vere, era molto difficile non farsi prendere dalla commozione, mentre quando si traduce fiction è possible mantenere una maggiore distanza affettiva dalle storie, anche se cudeli. 

Riguardo alla traduzione letteraria, non è un lavoro da cui ci si possa staccare chiudendo il computer perché occupa la mente in continuazione. Spesso chi traduce lo fa per proprio interesse e passione, quindi la ricerca della parola giusta, della frase che esprime esattamente quello che l’autore vuole dire, diventa qualcosa di stimolante, di coinvolgente, un pensiero che non si riuscirà ad accantonare finché non si sarà trovata la soluzione.

 

Proseguendo con Antonietta Pastore come scrittrice di “Nel Giappone delle donne”, edito da Einaudi nel 2012, vorremmo capire il perché di questa scelta di scrittura, sia dal punto di vista stilistico, confidenziale ma di stile giornalistico, tanto che mediamente viene letto come una sorta di saggio, anche se sicuramente meno asettico. E soprattutto se, donna italiana che è entrata in stretto contatto con una cultura così diversa, ha sentito l’esigenza di scrivere della lotta delle donne e dei diritti acquisiti, insieme ad argomenti come l’aborto, la gravidanza, il voto, il titolo di capofamiglia, etc…, in questo proseguendo l’opera di alcune scrittrici giapponesi, ad esempio Fumiko Enchi con il suo “Onnazaka”, che ci presenta una donna che fa del sacrificio personale la propria ragione di vita – ed in questo volendo verificare sul campo se ci possono essere anche in Giappone molteplici tipologie di donna, e se il lavoro con l’indipendenza economica che ne è derivata ha fatto la differenza, o se per le lavoratrici medie, lì come in Giappone, al lavoro in casa si è semplicemente aggiunto il lavoro fuori casa. Argomento che pare sempre scontato e trito, ma che rimane di una sconcertante attualità. In più di un’occasione ho letto che sotto certi punti di vista la donna giapponese è più emancipata della donna italiana – ed in questo, per come ci viene presentata la donna giapponese, si fatica un po’ a focalizzarlo e di contro incuriosisce…

Ho pensato che alternare la presentazione di donne che ho conosciuto a parti teoriche, potesse essere più coinvolgente, per lettrici e lettori, che non un’arida dissertazione. Tuttavia non era mia intenzione continuare l’opera di grandi scrittrici giapponesi. In realtà, sono stata ispirata a scrivere questo libro dalla scrittrice algerina Assia Djebar, che ho incontrato più volte e di cui ho tradotto dal francese due libri. Da questo lavoro, dalle conversazioni con lei e dalla lettura dei suoi romanzi, sono arrivata alla conclusione che la condizione della donna giapponese è molto diversa sia da quella della donna occidentale – e italiana in particolare –, sia da quella della donna araba, così ho provato il desiderio di parlarne, di raccontarla. Anche perché in Italia a quell’epoca – verso la fine degli anni Novanta – non esisteva ancora nulla su questo argomento.

 

Da ultimo, forse perché negli ultimi anni è questa l’idea che il mainstream ci ha trasmesso di questo Paese, tra anime di Miyazaki antimilitaristi e a favore della salvaguardia ambientalista e, appunto, autori italiani che si cimentano nella scrittura ambientando i loro romanzi in Giappone, parlando di problematiche inerenti la vita in Giappone –  problematiche che vanno dalle persone “mezzosangue” alla cultura del kawaii, dei manga e degli hikikomori, tra le altre    vorremmo chiederLe se si rispecchia ancora in questo Giappone che nel frattempo è sicuramente mutato da quando Lei ci viveva, facendo anche un raffronto con le traduzioni dei romanzi degli autori giapponesi che cura e che raccontano della vita a tutto tondo in Giappone. 

Ho sempre sentito molto forti nei giapponesi i sentimenti pacifisti e antimilitaristi, il solo fatto che nessuno parlasse mai della guerra mi confermava quanto fosse lontana dalla mentalità della popolazione. Le Forze di Difesa non hanno mai goduto di grande prestigio, al contrario, vengono considerate un po’ l’ultima spiaggia cui approda chi ha difficoltà a trovare un lavoro. Quanto ai movimenti ecologisti, soprattutto le donne hanno iniziato, già negli anni Ottanta, a mostrare attenzione per l’ambiente, anche se si trattava di attegggiamenti individuali che al massimo riuscivano a confluire in azioni di quartiere, non avevano forza sufficiente per creare un movimento di massa. Poco per volta però l’attenzione ai problemi ecologici è cresciuta e adesso si può dire che i giapponesi, e soprattutto le giapponesi, vi siano molto sensibili. Un grande passo in avanti i movimenti a difesa dell’ambiente lo hanno compiuto dopo il disastro di Fukushima nel 2011, ma purtroppo si scontrano con un governo che non considera l’incidente nucleare avvenuto in seguito al terremoto nella sua giusta dimensione. Il governo addirittura reprime questi movimenti e si fa complice della Tepco, l’impresa che gestisce le centrali nucleari, nel negare il danno che l’incidente ha causato e continua a causare al territorio e alla popolazione.

 

Essendo la nostra un’associazione culturale che è nata con i noir, i gialli e i polizieschi, vorremmo chiederLe, domanda classica che poniamo agli autori, se Le è mai capitato di tradurre un romanzo thriller o giallo / poliziesco – e nel caso quale. I nostri lettori sono inoltre incuriositi dal tipo di letteratura che abitualmente legge e se, a parte gli autori giapponesi che traduce e che sono oramai universalmente noti, quindi Murakami, Soseki, Yoshimoto, può suggerirci qualche autore/autrice giapponese, anche se non legato/a al mondo dei gialli/noir.

Sì, una paio di anni fa ho tradotto Il mistero della donna tatuata, di Takagi Akimitsu, un giallo ambientato nell’immediato dopoguerra e in una Tokyo devastata, un romanzo dalla trama sensazionale che mette in scena personaggi affascinanti. L’autore è un maestro della letteratura noir giapponese. Mi piaccioni i gialli e i noir, nella misura in cui non si riassumono nella sola trama, ma sono finalizzati anche alla descrizione di un’atmosfera particolare, un ambiente, un problema sociale… insomma, se toccano temi che vanno al di là della soluzione di un delitto. 

Quanto agli autori giapponesi che mi piace di più leggere, il preferito in assoluto è Natsume Sōseki, ma naturalmente amo molto anche Murakami Haruki, e Kawakami Fumiko, Dazai Osamu, Fumiko Enchi, Tsushima Yūko, Murakami Ryū, Kirino Natuso, Ogawa Yōko… 

 

La ringraziamo molto per il tempo che ci ha dedicato e aspettiamo di poter leggere la sua prossima traduzione e il suo prossimo romanzo.

Un cordiale saluto,

Marina Morassut

per Thrillernord