Intervista a Antonio Vastarelli




A tu per tu con l’autore


 

Grazie infinite per averci concesso questa intervista, redigere le domande non è sempre facile, spesso si rischia di essere banali o di ritrovarsi a fare sempre le stesse domande a tutti.

Mi auguro che lei trovi queste interessanti.

Lei, che è stato caporedattore ed è direttore adesso, vorrebbe avere Arturo Vargas come suo collaboratore?

Tutti i direttori vorrebbero avere un Vargas in redazione perché, nonostante tutti i suoi difetti, è intelligente, brillante e sinistramente affascinante. Tutti i direttori, però, finirebbero per licenziarlo, prima o poi, perché, nonostante i suoi pregi, è cocciuto, allergico alle gerarchie e, quindi, imprevedibile.

Oltre alle iniziali e alla professione, quanto c’è in comune tra lei e Arturo Vargas?

Arturo Vargas non è un mio alter ego, anche se in lui ritrovo alcune mie caratteristiche ed idiosincrasie. Ci accomuna, in particolare, l’atteggiamento un po’ indolente e, sicuramente, il fatto di avere una colonna sonora jazz che rimbomba costantemente nella testa. Ad esempio, in questo momento, mentre rispondo alle domande, qualcuno sta suonando “Take Five” nella mia. La verità è che, quando uno scrive, immagina un personaggio che poi, con il passare delle pagine, manifesta esigenze tutte sue ed assume atteggiamenti che lo scrittore non aveva programmato. A volte ti verrebbe voglia di ammazzarlo, ma con il protagonista è difficile, quindi ti sfoghi con qualcun altro. È il modo in cui un personaggio reagisce agli eventi che ne struttura il carattere. Io non so se, calato nelle stesse situazioni, mi comporterei nella stessa maniera di Vargas. Quel che è certo, è che a Vargas non gliene frega niente di quello che penso di lui.

Io sono napoletana come lei, e leggere romanzi ambientati a Napoli per me è sempre un’emozione. Spesso vengono citati luoghi che conosci, posti che frequenti, che, se vengono descritti da un’altra persona, sembra quasi di guardarli con nuovi occhi. Per lei raccontarla in chiave letteraria e non solo di inchiesta (come fa da giornalista) è stato complicato?

No. È stato impossibile. In realtà, Dieci piccoli napoletani è ambientato a Napoli ma la città, tranne in poche occasioni, non viene descritta nei suoi luoghi in maniera minuziosa. Questo per tre motivi: il primo è che non amo i romanzi che aspirano a diventare guide turistiche, mi annoiano; il secondo è che si tratta di una storia senza tempo e che potrebbe essere ambientata anche a San Francisco o a Pechino, con pochi ritocchi. Il terzo motivo è che Napoli è una città che è stata descritta da migliaia di scrittori, dai più grandi, nel corso dei secoli. Si rischia sempre di cadere nella retorica o nell’oleografia. Ho preferito che Vargas la vivesse, piuttosto che descrivere la cartolina.

Accade non di rado che un giornalista decida di scrivere un romanzo, spesso proprio un giallo, pensiamo a Salvo Toscano a Gigi Paoli. Per lei cosa è scattato? Come, quando e perché ha deciso di lanciare il cuore oltre la siepe?

La mia passione per la scrittura non discende dalla mia professione, forse è vero il contrario. A tirarla fuori è stato un professore di italiano delle medie: si chiamava Arturo Napolitano (chissà forse è per questo che Vargas si chiama Arturo). Non ci ha mai fatto aprire il libro di testo di letteratura italiana, tollerava solo Leopardi, in particolare quello dei Paralipomeni della batracomiomachia. Veniva in classe e chiedeva se preferivamo fare compito in classe o leggere. Se sceglievamo la lettura, ci leggeva cose divertenti di autori per noi oscuri, tipo Voltaire, Swift, Borges; una volta ci lesse come si faceva una bacchetta magica dal “Dizionario infernale”. Se, invece, optavamo per il compito in classe ci dava traccia libera. E io ne approfittavo: in seconda media, scrissi il mio primo giallo, Il Caso Abbott: ora posso confessarlo, era un po’ scopiazzato da una puntata di Ellery Queen. Da quel momento non ho più smesso di scrivere. La prima stesura di Dieci piccoli napoletani è di quasi trent’anni fa. Era molto diversa da quella definitiva. Nel corso degli anni, ho buttato giù molte versioni che non mi convincevano e le ho tenute nel cassetto. Alle soglie dei 50 anni, mi è sembrato che fosse arrivato il momento di impegnarmi per chiudere la questione. Sono stato fortunato perché il manoscritto è piaciuto ad un editore importante come Sergio Fanucci che mi ha dato fiducia pubblicandolo. E pare che piaccia anche a chi l’ha letto. A questo punto, mi sa che tiro fuori tutto quello che ho chiuso nei cassetti….

Una domanda quasi di rito per le interviste di thrillernord. Le piace il genere del thriller nordico? E, più in generale, qual è il suo autore preferito?

Il mio autore preferito in assoluto è il Voltaire di Candido. È l’aspetto satirico che mi interessa, più dei thriller, ma il giallo è un genere che si presta ad ogni stile. La suspense è fondamentale, tiene il lettore incollato alle pagine, e a quel punto puoi parlare di quel che più ti piace. I giallisti che mi hanno più appassionato, invece, sono Durrenmatt, Sciascia e Graham Greene, che hanno utilizzato il genere per porre all’attenzione del lettore questioni radicali, spesso di tipo filosofico, sull’animo umano o sulla società. Per quanto riguarda il thriller nordico, invece, non sono un esperto. Ho letto Stieg Larsson e Lars Kepler e mi piacciono, anche se le atmosfere oscure e claustrofobiche dei loro romanzi sono l’opposto di quelle solari di Dieci piccoli napoletani che, al terrore vivisezionistico, predilige l’enigma ironico. Non a caso, il mio romanzo ha vinto il Premio Troisi 2020 quale miglior scrittura comica, nonostante sia un noir hard-boiled a tutti gli effetti. Quello che non mi piace del thriller nordico (e con questo non vorrei offendere la testata che mi ospita) è il fatto che si svolga troppo a Nord. Prima ho sbagliato dicendo che il mio romanzo è ambientato a Napoli ma potrebbe essere ambientato ovunque. In realtà, mai nel Nord estremo. Posti bellissimi, suggestivi, per carità, ma non ce lo vedo proprio Vargas ad Oslo, gli si congelerebbero i pensieri, l’unico superpotere di cui è dotato.

Antonio Vastarelli 

A cura di Giuliana Pollastro

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