Intervista a Claudia Durastanti




A tu per tu con l’autore


 

Come hai iniziato il tuo percorso di scrittrice?

La prima storia che ho scritto in forma compiuta risale a quando avevo otto anni, l’anno in cui ho costretto mio padre a farmi vedere il Dracula di Francis Ford Coppola. Poi mi è fratello si è fatto regalare il romanzo di Stoker, io l’ho letto di nascosto in soffitta e ho scritto una short story la cui protagonista era un’emaciata eroina vittoriana che passeggiava per Londra, poi un gargoyle si scioglieva sotto l’acqua, la inseguiva, e alla fine riusciva ad averla. La ricordo bene perché dopo quell’episodio, non ho più scritto racconti di genere, se non negli ultimi anni. Ho iniziato a scrivere a quell’età, facendo variazioni sul tema di quel che leggevo: poiché erano quasi solo romanzi americani, poesie beat e libri di controcultura, nelle mie prime storie c’erano sempre storie di emarginazione e di coppie belle e dannate molto romanticizzate. Il tutto era stonato, perché avevo chiaramente un lessico infantile, ma ricordo che i miei primi tentativi di scrittura sono sempre stati orientati al realismo sporco dei vari Richard Ford e Denis Johnson: gli sfondi, i canovacci, le ambientazioni erano sempre quelle. Diner, macchine, parcheggi abbandonati, motel. E poi, man mano che son cresciuta, quelle storie si sono evolute con le mie competenze di scrittura, con il raffinamento dello stile e della lingua, ma lo scheletro è rimasto intatto fino all’esordio.

Riguardo il tuo romanzo Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra come ti è nata l’idea? Quanto tempo  hai impiegato per scriverlo?

Nel corso della mia adolescenza ho scritto due romanzi mai pubblicati e che mai pubblicherò (uno si intitolava Grace e l’altro Amy, e la tendenza a tenere nomi di donna nei titoli per un po’ mi è rimasta), ma mentre ci lavoravo avevo un’idea abbastanza robusta e difesa di cosa dovesse essere un romanzo. Forse perché ero al liceo, e leggevo appunto romanzi ben strutturati e convenzionali, dai Promessi Sposi all’Idiota, ma non mi veniva proprio in mente di mettere in dubbio quella forma. E poi, ad un tratto, è come se l’avessi disimparata. Le storie che sono finite in Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra sono nate a episodi, come scene che volevano avere un collegamento molto tenue fra di loro. Ricordo una recensione di Paolo Mauri quando uscì a cui sono molto affezionata in cui citava Robert Altman e America Oggi come modello compositivo, ma io non l’avevo visto. Però ero abituata al linguaggio dei videoclip, e l’intuizione sui riferimenti visivi più che narrativi era corretta; ero abituata al consumo di quei racconti brevi ad alta rotazione su MTV che avevano una struttura narrativa. E credo che una delle ispirazioni principali sia stato il video di Michel Gondry con Patricia Arquette per la cover di Like a Rolling Stone. Il video risale al 1995 e ricordo benissimo la prima volta che l’ho visto nello scantinato dei miei nonni a Brooklyn dove c’era il televisore, è diventato subito un’ossessione. Credo di aver voluto sempre sapere chi era quella ragazza, perché si dava alla strada, perché prendeva scelte sbagliate, dove finiva; sicuramente mi ricordava un po’ mia madre e la mia curiosità era anche sentimentale. Ma di fatto ho sempre scritto della protagonista di quel video, e quando nel 2005 ho iniziato a lavorare alle storie di Un giorno verrò a lanciare i sassi… era lei che avevo inconsciamente in mente. L’ho presa e le ho dato nomi diversi: Zelda/Dana, Ginger, in parte Jane. Ma c’era questa curiosità per che forma poteva prendere una ragazza a New York, quanto si poteva fare male e come si poteva salvare, e tutte le scene che ho scritto e composto erano sulla scia di questa indagine e di questa sentimento, infarcito di tutte le ossessioni musicali, letterarie e cinematografiche dei miei primi vent’anni. Ho congedato ed esorcizzato la mia adolescenza in quelle storie, cercando una lingua irruenta, spontanea e a tratti ingenua che mi sarebbe venuta impossibile dopo, e infatti l’ho persa. Ma ad anni di distanza resto convinta che le storie di Jane e Michael e Francis e Zelda e gli altri potessero essere raccontate solo così. Per frammenti, fotografie e ritornelli. Ho iniziato a scriverlo appena sono arrivata a una casa dello studente a Roma nel 2005, quella è stata la prima stanza tutta per me fuori dalle famiglie, e ho finito in queste giornate lunghissime ad Oslo, mi sono chiusa un mese in camera di una mia amica in Erasmus, lei studiava e io scrivevo, non faceva mai buio, e un giorno le ho detto «Penso di aver finito una cosa», ma non era un romanzo per me. Erano più come dei brani musicali in un concept album, o una serie di lettere a persone che presto avrei perso di vista. La pubblicazione poi è arrivata in maniera abbastanza fortunata e spontanea grazie a Fabio Stassi che era il direttore della biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea in cui lavoravo. È stato lui a spedirli a due editor: ho ricevuto un rifiuto bellissimo e memorabile, e una telefonata invece di accoglienza in Marsilio. E da lì ho continuato.

Quali libri ritieni fondamentali? Quali libri stai leggendo?

Di recente sono stata ospite de La grande invasione con Nadia Terranova, dovevamo parlare dei libri che ci hanno formate. In quella sede ho citato Underworld di DeLillo, L’ora della stella di Clarice Lispector e L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert, che però ho finito di leggere ad agosto e non è una passione di lungo corso, ma ci tenevo a riconoscere il potere di libri che leggiamo ancora come se avessimo quindici anni (mi è successo di recente con La piazza del diamante di Mercè Rodoreda). Faccio questo preambolo per dire che la risposta oggi cambierebbe, ma Underworld non perderebbe mai il suo posto: sono stata una persona prima di leggerlo, e sono diventata un’altra persona dopo averlo fatto. Poche opere contengono questa capacità di trasfigurare i connotati del mondo, ed è quello il romanzo che mi ha fatto venir voglia di scrivere. Insieme a quelli di Joan Didion, di cui amo meno la non fiction: per me è potentissima in Diglielo da parte mia, Prendila Democracy, persino Run River che è il romanzo d’esordio. Riesce a contenere mito, storia e inventa dei personaggi femminili dalle caratteristiche considerate tradizionalmente respingenti: sono cresciuta con libri in cui la disaffezione e l’estraneità dei personaggi alla Camus si chiamava alienazione, in quelli di Sylvia Plath si chiamava disturbo mentale. Per questo leggere Didion in tanti aspetti mi ha liberata, nelle sue democrazie sudamericane fallite, nelle sue testimoni e croniste in viaggio, nelle sue autostrade californiane prese d’assalto la notte durante veglie solitarie ho trovato un’epica che mi mancava. E a proposito di quel che mi manca, oggi sto provando a saldare dei debiti con libri italiani che mi hanno sempre incuriosita. Le visite nei robivecchi sono una manna per questo: La chimera di Sebastiano Vassalli e Le stelle fredde di Guido Piovene, e ho trovato anche Il ponte nel deserto di Brianna Carafa, di cui mi incuriosisce la riscoperta grazie a La vita involontaria pubblicato da cliquot.

Sei anche una traduttrice. Come ti approcci ai libri su cui devi lavorare?

Come una scrittrice, anche quando non dovrei (tutti i traduttori sono editor, ma quando sono anche autori e autrici in prima persona, l’istinto a limare e ricondurre a sé stessi è incontenibile), e come una scrittrice che ha tanto inglese in testa ancora. Praticamente è una ricetta per il disastro, oltretutto complicata dal fatto che avendo vissuto all’estero dieci anni, il mio italiano scritto si è logorato e consumato per diventare un’altra cosa. L’approccio è sempre orientato al piacere della resa ma anche a un piacere che mi viene restituito: sto sulla traduzione proprio come metodo di costante riflessione sul linguaggio e gli infiniti modi in cui una parola può spaccarsi per tendere ad altro; oggi non potrei scrivere fiction né non fiction senza l’attività di traduzione, sarebbe come tornare al bianco e nero, perdo interi universi di senso e la scrittura si impoverisce. Imparo da ogni libro che traduco più di quanto il libro non prenda da me, e la sua traduzione impari da me. Penso che questo approccio di apprendimento costante sia una delle chiavi più belle della traduzione.

Finito di scrivere un libro che rapporto hai con lui?

Come in tutte le relazioni sentimentali giunte al termine, cerco di preservare sia la distanza sia la nostalgia. Dopo aver consumato un libro presentandolo molte volte e averlo sviscerato in tutti i suoi aspetti con lettrici e lettori che se ne impossessano, diventa una specie di reliquia, ha ancora una dimensione sacra ma fondamentalmente morta, inerte, ferma nel tempo. E così cambia anche il modo in cui ne parlo, come ci penso, per questo rileggere Un giorno verrò a lanciare sassi è un’esperienza così disorientante a volte: nei dieci anni dalla sua pubblicazione non solo si è stravolta la mia scrittura, ma è diventato impossibile per me pensare all’America in quei termini, alla musica in quei termini. Una questione di nostalgia e distanza, appunto. E succede con tutti i libri. La Roma tropicale di Cleopatra va in prigione, che all’epoca mi sembrava così vivida e colorata, così nuova nella novità del suo ecosistema, oggi è molto più rarefatta, non saprei distinguerne i contorni.

In quale momento della tua giornata scrivi? Hai periodi di buen ritiro per la scrittura? Hai un preciso modus operandi?

Scrivo quando capita, sia dal punto di vista dell’orario sia dei giorni. Anzi, dovrei dire dei mesi: prendo appunti ogni giorno, ma mi dedico a un testo solo dopo aver accumulato un mole immensa di materiale, ho stesure veloci e ossessioni che durano in testa per decenni. Per me hanno sempre funzionato molto bene le residenze di scrittura, sia Cleopatra va in prigione sia La straniera sono nati in isolamento, con molto silenzio e tempo a disposizione. Non ho un metodo ma una consolazione: quando arriva il momento di lavorare in maniera intensa a un libro, mi ci dedico tutti i giorni, e passati i primi tre o quattro, entro in una zona, c’è una specie di trance quieta e riflessiva che si amplifica da sé e rafforza fino alla fine, e non uscirei mai da lì. Ma per entrarci ci metto davvero moltissimo. La consolazione è che accade sempre.

Claudia Durastanti

A cura di Francesco Morra

 

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